La versione di Giuda
Monologo di
Giovanni Spagnoli
(Lo spazio scenico è completamente vuoto. Un trasparente sul fondo lentamente si llumina e appare l’ombra di un grande crocifisso. Giuda, in abiti moderni, dalla platea sale sul palcoscenico e si ferma davanti al crocifisso).
Giuda – Guardami Signore. Ancora una volta vengo a implorarti di far sentire la tua voce, anche se so che la tua risposta non sarà che l’ingiusto, sdegnoso silenzio di sempre. L’umanità è ancora qui , a penare tra dolore di vivere e angoscia di morire e tu sei chiamato Redentore, Salvatore, mentre io porto un nome che vuol dire tradimento. Tu sei la luce ed io la tenebra. Non è possibile che la tenebra sia soltanto tenebra, né forse la luce soltanto luce. Ma gli uomini non possono fare a meno di crudeltà e ingiustizie, perciò io continuo a essere colui che tradì, che ti consegnò ai suoi nemici, colui per il quale non si sprecano molte parole, e tutte sprezzanti.
A che ti serve la mia dannazione? Tu sai che il tuo e il mio sacrificio erano nei disegni del Padre. Tu dovevi immolarti per la salvezza del genere umano ed io sacrificarmi per la tua gloria. Così era scritto e così è stato. Dove ho mancato? Non siedi forse ora alla destra del Padre tuo? Non hai avuto la vita, la morte, la resurrezione che ti erano state destinate? Cosa posso io aggiungere o togliere alla tua gloria? Che importanza può avere che il mondo mi sappia incolpevole? Non ti amerà certo di meno per questo. Mi hai incontrato sul tuo cammino perché là dovevo trovarmi, anche se ignoravo dove mi avresti condotto. Quando sei venuto tra noi, chi per primo ti ha seguito? Chi per primo ha camminato nella tua ombra? Io. Io, Giuda di Simone di Keriot. Io che da sempre attendevo il Messia, la guida, l’inviato da Dio, colui che avrebbe condotto il mio popolo alla liberazione dal crudele dominio di Roma.
(Rivolto al pubblico) Con impazienza cercavo, sulla traccia di tanti improbabili profeti, qualche barlume di rivelazione. Ma poiché sapevo giudicare un braccio capace di reggere una spada, occhi in cui fosse manifestazione di spirito, voci che in qualche modo rieccheggiassero il soffio dell’Eterno, nessuno riusciva a sedurmi. Eppure anche loro, specie i più malinconici, riuscivano ad esprimere l’ansia del popolo scelto e benedetto, la delusione per il lungo silenzio dell’Eterno, l’urgenza che se l’Unto doveva venire non facesse troppo tardi. La terra promessa e data pativa sotto il dominio dei romani idolatri e il dolore di vivere, in quella terra, non era minore che altrove, né meno crudo che nel passato. C’erano forse da attendere disgrazie maggiori?
C’ero anch’io sulla riva del Giordano il giorno in cui il Battezzatore, versandogli l’acqua sul capo, improvvisamente si mise a gridare d’aver visto lo spirito scendere dal cielo in forma di colomba. “Testimonio che costui è il Figlio di Dio!” urlò con la voce tremante per l’emozione. Eravamo in tanti, una folla, ma chi gli credette? Chi poteva immaginare che il Figlio di Dio sarebbe venuto tra noi vestito di una semplice, logora tunica e privo di qualsiasi attributo divino? Com’era possibile distinguerlo? Era atteso, ma quanti in quel tempo andavano in giro spacciandosi per figli di Dio? La Palestina pullulava di ciarlatani, taumaturghi, visionari d’ogni specie. E lui, chi era? Uno come noi, uguale a tutti noi, nemmeno più alto o più forte. Chi poteva dar credito alle parole di un esaltato he improvvisamente si era messo a gridare d’aver visto colombe scendere dal cielo? Scendere su chi, poi? Su un nazareno! Tutto si poteva immaginare, ma non che il Figlio di Dio potesse nascere in uno sperduto villaggio ignorato dalle Scritture, i cui abitanti, oltretutto, godevano di pessima fama in tutta la Galilea.
(Al crocifisso) Oh, lo so che eri spirito fatto carne, immune perciò da ogni umano giudizio, ma questo lo seppi dopo. Tutti comprendemmo tutto, dopo. Nessuno ci aveva illuminati. Avremmo dovuto fidarci esclusivamente delle parole di un visionario che si copriva con pelli di capre e si nutriva di bacche e radici. Dov’erano quel giorno coloro che il mondo, in seguito, avrebbe indicato come tuoi discepoli?. Da altri, successivamente, appresero del grido del Battezzatore. Ma io c’ero. Udii distintamente quelle parole che malgrado tutto mi turbarono. E ti venni dietro, come un cane dietro il padrone. Ti seguivo lungo le polverose strade della Galilea, fiutandoti, chiedendomi e chiedendoti se eri tu l’inviato, colui che ci avrebbe condotti alla vittoria su Cesare. Dopo averti tanto aspettato ti cercavo, ma da te non veniva alcuna risposta. Camminavi curvo, lo sguardo ai tuoi sandali e tacevi. Come potevo sapere chi eri? Paolo di Tarso ha detto che dietro di te si viene per fede, non per visioni. E io per fede avrei dovuto credere alle visioni di altri?
Sinceramente, non avevi l’aspetto di un capo, né tantomeno di un re. Eppure, il Battezzatore aveva affermato di aver visto una colomba volare sul tuo capo. Ma tu chi eri in realtà, se non il figlio di un povero artigiano di Nazareth, con fratelli e sorelle che tutti conoscevano e poco stimavano? Non poteva essersi sbagliato il Battezzatore? Infatti, chi ti venne dietro dopo averlo ascoltato? Un pugno di sventurati che avrebbero seguito chiunque si fosse posto alla loro testa. E io, con i miei dubbi incollati alla tua sudicia tunica. Dove’erano gli apostoli? Dov’erano coloro che avresti chiamato a farti corona nel regno dei cieli? Nessuno li aveva avvertiti della tua venuta, non avevano avuto presagi, vennero a te soltanto quando li chiamasti. Ma io, Giuda, ti seguii senza essere chiamato. Per primo. E ora, fra i dodici, sono nominato per ultimo e con disprezzo. Tu sapevi che mai e in messun luogo avrei avuto una qualsiasi possibilità di scelta. Procedevi verso il tuo destino ed io, ignaro, ti seguivo. Se questi erano i disegni dell’Eterno, per quale motivo tutta l’infamia deve ricadere su di me? Oh, se solo mi avessi parlato, se anch’io avessi saputo ciò che sapevi!
“Chi credete che egli sia”, chiedevo alla sparuta schiera dei tuoi seguaci.
“Non sappiamo chi sia”, rispondevano, “sappiamo solo che se ti guarda lo segui”.
Però, nel deserto nessuno ti seguì. Restammo tutti a guardare la tua scarna figura dileguarsi nelle ombre cupe di un tramonto sanguigno, ma nessuno ti seguì. Quando ritornasti, dopo quaranta giorni, chi trovasti ad aspettarti? Solo colui che in ogni caso non avrebbe potuto abbandonarti. Passandomi accanto ti sentii mormorare “Mi capiterà ancora. E’ un’amarezza alla quale conviene che faccia l’abitudine”. Ti sentivi solo, ma non avesti una sola parola per me. Per me che ti avevo aspettato cibandomi come te nel deserto, di locuste e di radici.
“Guardami Rabbi”, ti dissi. “Perché non mi guardi? Gli altri li guardi. Io non sono meno degli altri e sono rimasto qui”. Ma tu non avevi sguardi per me.
Più volte ti avevo sentito dire “Se uno viene a me e non odia sua padre e sua madre e la moglie e i fratelli e anche la propria vita, non può essere mio discepolo”. E io non mi odiavo forse? Non avevo abbandonato mio padre e mia madre per seguirti?
“Se sei l’Unto, perché non ti riveli”, continuavo a chiederti, sperando di aprire una breccia nel tuo incomprensibile mutismo.
“Tu chi credi che io sia”, mi dicesti un giorno, senza voltarti.
Oh, tu eri maestro nel parlare per enigmi, ma non ti temevo e risposi “Il mio braccio sa reggere una spada, Rabbi, e il mio animo è ardito. Per un re combatterò sino alla morte”. Quel giorno ti fermasti e mi guardasti. Mi colpì la tristezza che colsi nel tuo sguardo, ma le tue parole furono ancora una volta oscure: “Quando avrò bisogno di morte, lo dirò”. La mia vita era nelle tue mani e non lo sapevo. Legati da un patto che non avevamo sottoscritto e del quale ignoravo le clausole, ti avrei seguito ovunque, chiunque fossi stato.
(Al pubblico) In Galilea, lontano dalle guardie di Erode e dai soldati di Roma, cominciò la sua missione rivolgendosi ai poveri, agli umiliati, agli infelici, a tutti coloro che con maggior rassegnazione sopportavano ingiustizie e soprusi, per accendere in essi una speranza che li rendesse consapevoli della loro forza, della possibilità di cambiare. Sapeva parlare d’amore con meravigliosa smplicità. Ama il prossimo tuo come te stesso, era la sua incessante esortazione. E poco importava che quelle parole fossero già nel Libro, egli le pronunciava con un vigore nuovo, ne faceva un comandamento. E la gente, se non persuasa, ne era almeno colpita, poteva immaginare una rinascita della fede, un ritorno alla grandezza dei padri, quando Israele, con la spada dell’Eterno, compiva grandi imprese. Nelle strade, nei mercati, nelle sinagoghe, lungo le carovaniere, quando incontravamo gruppi di viandanti, egli li ammoniva, consolava, incitava: cambiate vita, amatevi l’un l’altro, siate uniti, beati quelli che piangono perché saranno consolati.
(Al crocifisso) Sapevo perfettamente che in te non c’era la stoffa del condottiero, eppure c’era in te qualcosa che soggiogava e induceva la gente a seguirti. Condottieri ne avremmo avuto anche troppi il giorno che tu, alzando un dito, avresti chiamato il mio popolo alla lotta contro i romani. Gli zeloti, la setta cui appartenevo, chiusi nel buio di inaccessibili spelonche, non aspettavano che un segnale.
(Al pubblico) Il solo uomo in Israele capace di far muovere il popolo era lui. Se glielo avesse ordinato, le folle lo avrebbero seguito, senza preparazione né coscienza politica, ma pronte a fare tutto ciò che avesse ordinato. Aveva questo potere, ed erano in molti a saperlo.
(Al crocifisso) Ma tu la salvezza la concepivi come la realtà della fine dei tempi, l’immensità del tutto finito: entrare in Dio per sempre e per tutti. Questo mistero mi sfiorava, quando in modo nebuloso parlavi di carne e di sangue e di vita eterna. Sentivo che miravi più in alto di quello che dicevano le tue parole, ma non sapevo come seguirti. Potevo soltanto offrirti vita e morte quando l’avessi chiesto. E intanto aspettavo con impazienza il tempo in cui il male non sarebbe stato più necessario per rendere manifeste le opere di Dio. (Dopo una pausa) Ora so perché mi accogliesti: ti ero necessario per l’apoteosi del Golgota. Ma allora, come potevo saperlo?
Dei dodici sono stato il primo a seguirti e l’unico venuto a te di sua volontà. E tu sapevi fin dal primo giorno che mi avresti affidato il compito più ingrato. Gli altri li chiamasti mano a mano che la schiera dei tuoi seguaci si faceva più folta. Diversamente da me, ti seguirono pavidi e tremanti soltanto quando ebbero modo di assistere ai prodigi che andavi facendo per soddisfare la loro petulanza. Non per amore ti seguirono, nemmeno per fede, ma pronti a tradirti appena il vento avesse cambiato direzione.
Ci scegliesti tra la folla quando scendesti dal monte, dopo una notte di consultazione con il Padre. Ci nominasti uno ad uno. Simone, che tu avresti chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; e Giacomo, e Giovanni, giovane e bello, che tu amavi quanto lui mi odiava; e Filippo, e Bartolomeo, e Matteo, e Tommaso, e Giacomo figlio di Alfeo, e Taddeo, giovane zelota come me. E Giuda, dicesti voltandomi le spalle.
(Al pubblico) Si era scelto per collaboratori più fidati e vicini, persone da poco. Dei dodici, tranne Giovanni e me, chi aveva una personalità? Erano ignoranti, impacciati, pettegoli, incostanti, invidiosi l’uno dell’altro, ma anche Giovanni di me e io di lui. Questionavano fra loro per vedere chi fosse il maggiore, a chi spettasse il posto alla sua destra; si spaventavano facilmente non solo per l’atteggiamento ostile di dottori e farisei, o perché correva voce che in giro ci fossero i soldati di Erode, ma anche per certi imprevedibili prodigi od oscure previsioni del Rabbi. Poi, a poco a poco, con l’insegnamento, la persuasione, le invettive, le minacce, arrivò a dirozzarli. Faceva nascere in tutti noi il convincimento, la speranza, il sospetto che fossimo dei privilegiati destinati ad alti compiti e ad altissime ricompense. Io però, studiandoli anche sotto altri aspetti, mi sentivo sconfortato. Da loro, nel migliore dei casi, potevano uscire dei martiri, o piuttosto delle vittime, mai dei combattenti in grado di contrastare con animo fiero i legionari romani.
(Al crocifisso) Ero l’unico dei dodici a conoscere la Legge e le Scritture, eppure quando ci parlavi non ti rivolgevi a me. La solitudine era la condizione cui m’avevi abituato e destinato. In fin dei conti, ciò che ti aspettavi da me era un sacrificio illimitato ma umile. E quando parlavi di troni e ricompense e gloria era come sottintesa la mia esclusione. La mia sola remunerazione dovevo trovarmela nella necessità che sembravi avere di me. Me ne sentivo orgoglioso, ma anche angosciato da dubbi e incertezze. Le domande che affollavano la mia mente non ricevevano risposte. Ed io sprofondavo nella tristezza. Solo quando ti assalivano pensieri di morte, di sfuggita mi cercavi con gli occhi. Ed io, con gli occhi, ti rispondevo che non sarei mancato alla chiamata.
Signore, mi fai scontare amaramente la mia devozione. Pur sapendo che non avevo alternative, non hai voluto concedermi la tua misericordia. Non ti tradì forse Pietro? Non ti rinnegò più volte? Eppure oggi è nella tua gloria. Chi tra noi si è dato più profondamente? Chi s’è comportato con minor disonore?
Un sogno tornava spesso ad allietare la mia solitudine in quelle notti passate all’addiaccio, lontano da tutti gli altri. Tu ed io, tuniche svolazzanti, piedi piagati, occhi arrossati, sabbia sulle labbra, in cammino, gloriosamente digiuni, verso la liberazione del popolo di Israele. E poi, finalmente, la fine dei tempi.
Avevo messo la mia vita nelle tue mani e mi sforzavo che diventasse un atto di fede, ma nessun aiuto mi veniva da te, né da colui che tu chiamavi Padre. Una volta, nel Tempio, quando i giudei esasperati avevano cominciato a scagliarti pietre, mi trovai a desiderare che ti uccidessero. Sebbene non riuscissi ad immaginare che cosa avrei fatto di me, dopo.
(Al pubblico) Un giorno si rivolse alla folla che lo seguiva con parole di fuoco:”Lo spirito del Padre è su di me. Egli mi ha scelto per portare la buona novella ai poveri. Mi ha mandato ad annunciare la liberazione dei prigionieri, a ridare la vista ai ciechi, a liberare gli oppressi”. Che altro poteva significare, se non che era venuto per condurci verso un mondo migliore? Un mondo in cui i ciechi vedono e gli oppressi vengono liberati.
(Al crocifisso) Questo intesi e questo ti dissi. Ma tu mi facesti cenno di scostarmi da te. Ed io pensai che per combattere i romani, noi zeloti avevamo bisogno di uomini come te: duri come pietre e amati dalle folle. Pure i prodigi che con riluttanza andavi facendo servivano alla causa. La gente accorreva sempre più numerosa e ciò era bene. Ma la rivolta tardava e le spade perdevano il filo.
“Che dice il tuo nazareno”, mi chiedevano i miei compagni, “parla sempre del regno dei cieli?” E io non avevo risposte.
Ma un giorno cacciasti i mercanti dal tempio, rovesciasti i loro tavoli colmi di denaro e li additasti al pubblico disprezzo. Loro! I potenti! Nessuno prima di te aveva commesso un atto così rivoluzionario. I soldati ti cercavano e io gioivo, perché sentivo che il giorno era vicino. Stava per giungere il momento in cui avresti detto “E’ ora! Prendete le spade!” E io avrei ripetuto “Alle spade! Alle spade! Gloria a te Gesù di Nazareth!” Fermavo la gente nei villaggi e dicevo “L’uomo che vedete passare su quell’asino è il Figlio del Dio vivente. Egli comanda le potenze del cielo e degli abissi, angeli e demoni gli ubbidiscono come servi il padrone. Oggi è giorno di festa per il popolo d’Israele. Per tutti i figli di Abramo non ci saranno più miserie e sofferenze”. E tutti applaudivano e correvano a baciarti la veste. Oh, se avessi detto la parola che aspettavamo! Oggi so che quella parola non potevi dirla, non era nei piani del Padre tuo. Ma allora perché cacciare i mercanti? Perché mettersi contro la legge degli uomini?
Quando mi accorsi che l’ordine tardava a venire e tu sempre più pensavi ad altro, mi resi conto che il tuo fine non era la liberazione del mio popolo. Gli zeloti mi respingevano con disprezzo. “Quel tuo galileo è buono solo per addormentare la gente. Vai, vai con lui, non sappiamo che farcene di te. Agiremo da soli”. Avevo creduto in te e tu ci avevi abbandonati. La lampada deve servire per far luce, l’avevi detto tu stesso. Ma dov’era la tua luce, se sempre più ti avvolgevi nell’ombra?
Mille segni presagivano il giorno in cui tutto si sarebbe concluso. Come una freccia scoccata dall’arco viaggiavi nel tempo, teso verso una morte che per te non sarebbe stata la fine, bensì il principio. Ma quale morte? Quella di uno stregone che aveva compiuto prodigi nel nome di Dio? Oppure quella di un impostore che, compiuto un atto di coraggio, si era immediatamente ritirato nell’ombra? Né l’una né l’altra avrebbe giovato alla tua causa. Se ti avessi ucciso con le mie mani, e avrei potuto farlo in qualsiasi momento, il mondo avrebbe potuto pensare al gesto insano di un fedele tradito. Ma tu non volevi una morte qualsiasi, oscura, disadorna. Ti sarebbe mancata la coralità, l’apoteosi, la gloria.
(Al pubblico) I misteri che l’avevano accompagnato dalla nascita fino al trionfale ingresso in Gerusalemme, si moltiplicavano e si infittivano mano a mano che si approssimava la fine. Si sa tutto, tutto è stato raccontanto con sufficiente precisione e concordia da almeno quattro biografi. Eppure le conclusioni che se ne ricavano restano confuse, quasi contaminate da mancanza di carità. Per cui bene e male, luce e tenebre, Dio e satana, paradiso e inferno, Gesù ed io, restano contrastanti e separati, pensati in un modo che non è nel modo d’essere degli esseri viventi. Tutti siamo una mescolanza di bene e di male, di luce e di tenebre, fin da quando l’Eterno soffiò l’anima in un pugno di polvere.
(Al crocifisso) E tu sei morto pensando anche a questo: che la tua morte avrebbe eliminato il senso negativo, tolto di mezzo il peccato, riconducendoci al giardino o al nulla. Nessun altro significato avrebbe potuto avere la redenzione che tu volevi.
Sapevi cos’era il calice della salvezza, e quanto amaro fosse berlo. Ma, dopo la mortale incertezza del Getsemani, accettasti di berlo, riconoscendo che la redenzione non potevi operarla se non vincendo la morte dopo aver vinto il mondo.
Tutto ciò che è stato scritto a proposito della tua passione nei vangeli, conferma la tua ostinazione nella morte. Un’ostinazione che del resto aveva radici chiare e lontane, forse non tanto lontane quanto la strage degli innocenti, ma certo legate al formarsi della tua precoce persuasione d’essere Figlio di Dio e profeta, perciò vincolato a una morte prossima e volontaria.
Molti uomini desiderano morire. Il terrore e l’adorazione della morte è il terreno sul quale è fiorita la tua religione. In ognuno di noi vi è una spinta a non esistere, una pulsione di morte che spesso diventa un male. Tu eri malato di questo male, ma ciò non basta a spegarti. Non fu per delirio di grandezza che volevi morire. Volevi morire per gli altri.
Io, tradendoti, ti aiutai a morire nel modo che volevi, perché finalmente credevo nella tua missione divina. Feci quel che potei e tu pure lo facesti: cercasti la tua morte con dignità e fermezza. Ma non bastò. Infatti siamo ancora qui, in questa valle di lacrime. Nell’opera di redenzione qualcosa non ha funzionato. Che cosa non ha funzionato? Si può pensare al sonno della ragione, alla viltà, alla indegnità degli eletti… La tua realizzazione dell’ “Io sono” doveva essere una necessità di tutti, un operare insieme, invece la tua passione non ebbe nemmeno il conforto dei pochi che avevi scelti e chiamati. Prima si addormentarono e poi fuggirono tutti, abbandonandoti. E l’unico che non ti avrebbe abbandonato l’avevi condannato al tradimento. Ma non ti sentisti mai solo. L’agonia del Getsemani era stato un tormentato colloquio col Padre. E avendo tu accondisceso a fare la sua volontà, eri certo che non ti avrebbe abbandonato. Le cose andarono altrimenti, ma intanto, durante tutto il contorto, confuso, goffo processo che ti portò a morire, tu il Padre lo sentisti in te. E alle tue parole mai mancò l’altezza dei pensieri provenienti dal Padre. L’umanità non era mai stata tanto vicina alla salvezza, o alla fine.
Poi, però non accadde nulla.
(Al pubblico) La morte per crocifissione di un irrequieto ed enigmatico galileo, avvenuta ai tempi dell’Imperatore romano Tiberio, sotto la giurisdizione del Procuratore per la Giudea Ponzio Pilato, divenne, senza che allora nessuno ne avesse il presentimento, l’avvenimento forse più importante di tutta la storia dell’umanità. Non solo per le innumerevoli morti che ne conseguirono, ma anche perché le religioni che nacquero dopo sempre ebbero in sé una particella, un granello di senape che talvolta non si sviluppò, della sua.
La sua dottrina, confusa e contraddittoria, sempre in bilico tra cielo e terra, tra libertà e destino, esprimeva meglio di ogni altra un’aspirazione del genere umano: portare avanti il dolore di vivere cercando qualcosa che lo mitighi, meglio ancora che lo faccia cessare. Ogni fede, anche la più materialistica, si nutre della speranza di vivere, o di morire per gli altri. Egli, a questa speranza ha saputo dare l’espressione più alta, ma anche la più vana, o difficile. I risultati incerti hanno caricato di eccessivo mistero il significato della sua fine, e non è chiaro se in lui prevalessero pulsioni di morte, o quelle dell’amore, che è vita.
Nel grande male che mi gravava, infine sentivo che era lui l’Unto promesso e venuto, ultimo termine della nostra sacra storia che da Dio cominciava. Per lui sarebbe riemerso da un’impenetrabile profondità di misteri il giorno in cui l’Eterno aveva creato la terra e il cielo. La ragione e il fine di ciò si sarebbero manifestati, o per sempre annullati, nella sua gloria, che poteva anche essere la fine dei tempi, o il cominciamento di tempi finalmente purificati da colpe e paure. Terra incenerita o ritorno al giardino dell’Eden. Comunque non più dolore di vivere, non più angoscia di morte, non più la quantità illimitata di miserie che ristagnano sull’esistenza umana. Tutto risolto, per tutti e per sempre. Io solo dannato e maledetto perché ciò avvenisse.
(Al crocifisso) Tu sapevi che la tua gloria sarebbe stata dovuta anche a ciò che io pagavo in ignominia e dannazione, ma non avesti una sola parola per me. Mi lasciasti alla cupa desolazione del campo del vasaio, solo in morte come lo ero stato in vita. Tu avevi con te il Padre tuo. Il Padre che ci aveva guidati a quell’ora funesta non ti aveva abbandonato. Ma io ero solo e maledetto.
FINE