IL TEATRO DELLA NOTTE
monologo di
Patrizia Monaco
Il passato, simulato o realmente sofferto, è fatto di un’unica stoffa, sia che esso venga rappresentato in pubblico nelle tre dimensioni, sia che venga vissuto in quel teatrino del cervello che noi teniamo splendidamente illuminato tutta la notte, dopo che le imposte sono state chiuse e le tenebre e il sonno regnano indisturbati nel resto del corpo.
Robert L. Stevenson
Ogni notte, ci addormentiamo con un’audacia che sarebbe incomprensibile se non sapessimo che è il risultato dell’ignoranza del pericolo.
Charles Baudelaire
Non sognare, fallo!
Anonimo Analista
LA SCENA SI SVOLGE NELLO STUDIO DI UN ANALISTA, CHE NON COMPARE, BENCHÉ SI PRESUMA SEDUTO ALLE SPALLE DELLA PAZIENTE, SDRAIATA SUL CLASSICO LETTINO. LA DONNA HA MODI E ATTEGGIAMENTI DA SIGNORA, RISERVATA, TRANQUILLA. TIENE QUINDI LE GAMBE BEN ACCOSTATE E LE PUNTE DEI PIEDI, CALZATI FINEMENTE, ALLINEATE.
PAZIENTE Un odore pungente, di selvatico, che mi segue anche fuori del sogno, dottore, può essere solo suggestione?
(CHIUDE GLI OCCHI, POI LI RIAPRE A DISCREZIONE DELL’ATTRICE )
Sono in viaggio con mio padre, verso sud. Sono vergine. Lo sento. Ho quella strana consapevolezza che esiste nei sogni… Sono giovanissima e bella. Mio padre, dopo avere dilapidato le sue fortune, è diventato giocatore di professione. Stasera siamo in una cittadina di mare: una piazza con delle palme è ciò che vedo dalla finestra della camera della pensione. Non abbiamo ancora disfatto i bagagli quando arriva la lettera. Ce la consegna con molta deferenza la padrona della pensione. La busta è di carta spessa, chiusa da un sigillo su cui spicca la figura di un felino rampante. E' una sfida a poker da parte del conte di X, che vive non molto lontano da qui, in completo isolamento. Si dice che nessuno lo abbia mai visto bene in viso. Lo sfidante arriva preceduto da un valletto che dispone il tavolo in una zona d'ombra della sala della pensione. Infine, entra lui. E' coperto da una lunga palandrana che gli arriva fino ai piedi e le maniche sono così ampie che gli nascondono anche le mani. Ma quel che m'inquieta è la maschera. Non di quelle maliziose, dorate, ma smisurata, grottesca, che riproduce le fattezze di un uomo, dai profili identici, i lineamenti troppo regolari, perfetti, perciò finti. La maschera si completa con una parrucca, visibilmente tale, e le mani che ora posso distinguere perché lui e mio padre han già cominciato a smistare le carte, sono coperte da guanti di finissimo capretto. Smisurate.
Il conte si è avvicinato al tavolo verde con un'andatura rigida, come chi si costringe a stare ben dritto, poiché ha l'abitudine d'andare curvo. Eppure, tutte queste bizzarrie non m'impressionano, è il profumo che mi stordisce, invade la stanza, la pensione, la piazza, la terrazza, dove vado a prendere aria e subito rientro, come attirata da un magnete. Mi chiedo cosa mai deve coprire, tutto quel profumo. La sua voce sembra provenire da una distanza così grande da perdersi via via. E' quindi il valletto, abituato a quella voce cavernosa, per noi impossibile da decifrare, che si rivolge a noi. Dovrei forse chiedermi se la mascherata e il profumo coprono i segni di chissà quale abominevole malattia? Nel sogno non mi pongo il problema, sono troppo affascinata e poi il gioco procede rapido e ahimè, non a favore di mio padre. Ad un certo momento lo sento esclamare: " Ho perso tutto. Non mi resta più nulla." " Tranne la ragazza." Non so chi abbia pronunciato queste parole, se il conte o il valletto, o io stessa, che sicuramente l'ho pensato. La posta viene accettata e il conte mette sul piatto, come contropartita, una somma favolosa. La partita continua, non riesco a distinguere bene le carte, vedo solo un gran turbinio di assi. Mio padre, una coppia di re e un asso. Il conte posa tre assi sul tappeto verde. Il valletto, che ha l'aria un poco scimmiesca, ora mi guarda con altri occhi, mi soppesa, ora vede in me non la figlia dell'avversario del suo padrone, bensì una nuova proprietà del suo padrone e forse, dopo, come di costume, anche la sua… Non so come, né con quale mezzo, arrivo all'abitazione del conte. Il valletto mi precede per lo strano palazzo, in cui le stanze sono una dentro l'altra, a volte mi ricordano la casa dove sono nata, a volte una reggia, che tanto si assomigliano tutte: Versailles, il Palazzo d'Inverno, la Reggia di Caserta, a momenti un condominio alla periferia di Milano. La scena cambia, le sale ora sono spoglie, muri scarni, neppure levigati, come una grotta, o una tana. Siamo arrivati, mi trovo in un ambiente buio, a malapena distinguo la figura del conte, con una veste da camera che lo copre dal collo ai piedi, invisibili. Posso dire che mi fissa, quando davanti a me vedo solo una maschera? E ancora quel profumo, che proviene non solo dalla sua persona, ma da un vaso cinese di porcellana, traforato, in cui bruciano essenze orientali. Il valletto tossicchia, è imbarazzato, a lui l'ingrato compito di enunciare ad alta voce le voglie del padrone. "Ehm.. il mio padrone...il padrone.. - e poi tutto d'un fiato- " Il mio padrone ha un unico desiderio, vuole che la bella signorina si mostri a lui nuda. Quindi lui la rimanderà, intatta, da suo padre, con gioielli e pellicce e la stessa somma di danaro che era stata la posta dell'ultima partita." Non so come, davvero non so perché ma a quella richiesta, neppure troppo pretenziosa, mi metto a ridere. Il valletto indietreggia, spaventato. Io rispondo, rivolgendomi direttamente alla maschera: "Voglio essere condotta in una stanza senza finestre, a lumi spenti. Lì, mi solleverò la gonna fino alla vita, pronta al suo volere. Voglio che la parte superiore del mio corpo, dalla testa ai fianchi, venga coperta da un drappo, abbastanza spesso da consentirmi di vedere, ma di trama fine, per permettermi di respirare. A queste condizioni, lei, signor conte, potrà avermi, per una volta soltanto. Quindi mi si riporti non da mio padre, ma sulla piazza del mercato e se vuole, mi dia pure del denaro, ma non di più di quanto ne darebbe ad un'altra donna che userebbe per lo stesso scopo." La maschera grottesca non si muove, non un cenno, ma una lacrima scende sulla guancia e quella gota rossa, si scolorisce un poco. Il valletto, impaurito, mi trascina fuori ed io esulto e poco dopo, mi trovo in una stanza buia, senza finestre, con un letto e un piccolo mobile traballante. Il mattino seguente, insieme ad una colazione di cui non ricordo né il sapore né la sostanza, il valletto mi porta una bella scatola di velluto rosso. Un orecchino, uno solo, un diamante, non grande, ma perfettamente tagliato. Io lo scaravento nell'angolo più lontano della stanza ma il gesto non mi da alcuna soddisfazione. I diamanti, si sa, non si rompono. (SI ALZA DAL LETTINO E PASSEGGIA, GUARDANDO VERSO IL DOTTORE CON ARIA DI SFIDA)Il valletto, mi conduce, così come sono, né lavata né pettinata, davanti al suo padrone. "Desnuda" mi sento dire. Rido ancora, forse prima pensava che non capissi la loro lingua? Levarmi i vestiti, davanti a lui, solo perché mi aveva vinto a carte? Voleva ben poca cosa al confronto di quello che io ero rassegnata a dare, eppure era troppo. "Il mio padrone vuole soltanto vedere ciò che nessun uomo ha mai visto prima." Ah, se avessi giaciuto con quanti me l'avevano chiesto! Ah se non fossi vergine, potrei così sminuire quello che lui brama! Un'altra lacrima gli scende e gli scolorisce l'altra guancia, bene, ora la maschera è simmetrica ed io, esultante, ancora una volta esco dalla sua camera. Per tutto il giorno e la notte, un rumore, come di un animale in gabbia, fuori della mia stanza e un raspare, alla mia porta. Al mattino seguente il valletto mi porta un completo da equitazione. "Faremo una cavalcata, il conte, lei, mia bella signorina ed io." Posato sul letto, sotto all'involto che contiene la redingote rossa, la sciarpetta di seta, il cap, i pantaloni bianchi e gli stivali lucidissimi, trovo un altro portagioie. Inutile dire che il secondo orecchino, un pendente di squisita fattura, fa la fine del primo in un angolo della cella. Così agghindata, mi ritrovo nel cortile. Il conte è già in sella, la sua palandrana è talmente smisurata che ho pietà per il cavallo. (CAMBIA TONO, MOLTO IRONICO) Il paesaggio che attraversiamo è di maniera. Cielo blu con nuvolette sparse, prati verdi limpidi ruscelli, tre mucche pezzate una montagna sullo sfondo. Siamo arrivati ad una sorgente, smontiamo da cavallo ed il valletto, acquistando una nuova autorità, mi annuncia: " Poiché la bella signorina non vuole mostrarsi nuda al mio padrone allora deve acconsentire che lui si mostri nudo alla bella signorina." Mentre il valletto con gesto da prestigiatore sta per MOSTRARE il suo, o dovrei dire, il nostro, misterioso padrone, per la prima volta provo paura. La mia immaginazione, aiutata da tutte le paure dei racconti d'infanzia, dei libri, dei film dell'orrore, mi fa balenare visioni che mi prendono alla gola. Ma non fu quello che vidi che mi colpì di più. Dei miei sensi, la vista fu l'ultima ad esserne colpita, Un odore prende il posto del profumo, un afrore felino, come quello che si sente allo zoo davanti alle gabbie delle bestie feroci. L'orizzonte è giallo fulvo. E quando vedo quella tigre che mi fissa, ora sì che mi fissa, con le pupille che si restringono sempre più fino a diventare una fessura, mi sembra che il petto mi venga squarciato e cuori e visceri strappati via. La belva è sdraiata, in tensione, il dorso snello e flessuoso, le zampe agili e forti, il collo poderoso. Il valletto fa il gesto di ricoprire il possente animale. No, gli grido, e comincio, lentamente, a spogliarmi per lui. Al momento faccio un po’ di fatica, alle prese con i bottoni della giubba rossa, poi, la goffaggine, l'impaccio e la vergogna svaniscono a mano a mano che gli indumenti giacciono al suolo davanti a me, sotto gli occhi di quegli occhi gialli che mi hanno scavato dentro. Sopra la giacchetta, lascio cadere la sciarpa di seta e la camicetta con le ruches al collo e ai polsi… Ora sono fiera di mostrargli il mio corpo, giovane, il seno pieno, sodo, che si protende verso di lui con aria di sfida, i capezzoli rosei, che sento indurirsi , malgrè moi… La tigre abbassa l'enorme testa.
"Basta così" dichiara il valletto.
Io mi rivesto, mentre il valletto ricopre il suo padrone.
(PAUSA E IL TONO E' COMPLETAMENTE CAMBIATO, QUANDO CROLLANO TUTTE LE CERTEZZA, SI SFALDA LA CORAZZA CHE NOI PORTIAMO, NON E' PIU' LA SIGNORA RISERVATA, E' UNA FEMMINA)
La camera adesso è elegantemente arredata, lampadari di cristallo, divani damascati, mobili preziosi e uno specchio. Nello specchio vedo mio padre, intento a contare dei soldi. La sua espressione è soddisfatta, con una punta d'avidità che non gli avrei mai riconosciuto…
L'immagine svanisce e vedo quella di una bella ragazza, da cui è sparita quella espressione un po' sussiegosa di chi crede di dover conoscere tutte le risposte, come se la vita fosse un compito di matematica.
Il valletto entra con un involto, stavolta è un visone nero, per affrontare il viaggio verso la casa di mio padre.
"Adesso la bella signorina può tornare a casa."
Mi levo ancora una volta, di furia e soltanto per me stessa, il completo di equitazione, per indossare gli abiti di quella sera, gonna e maglioncino. Quando mi ritrovo nuda, mi contemplo allo specchio, scalcio via i vestiti, mi accarezzo a lungo, con piacere. (CERCA LA PAROLA) No, dottore, con voluttà.
D'istinto indosso solo la pelliccia, e gli orecchini e mi avvio verso la tana del conte. Che prodigio di sintesi, così non devo lambiccarmi il cervello sull'uso migliore fra "la tana della tigre e il salotto del conte". Il palazzo ora è vuoto, come è sempre stato. Le stanze sono diverse ora, mi ricordano un'immensa discoteca dalle luci stroboscopiche. Fantasmagorie di colori, attraversate dai reticoli luminosi dei raggi laser. Mi trovo davanti alla sua stanza anche senza la guida del valletto, che, guarda caso, mi sta attendendo di fronte alla porta.
Anche lui è nudo, è una scimmia. Deve aver dedotto che se io vado nuda, tutti possono andar nudi.
Mi leva la pelliccia con il gesto del perfetto maggiordomo e poi la lascia cadere a terra, dove di colpo il visone si trasforma in un esercito di ratti che si disperdono squittendo in tutte le direzioni.
La stanza è in penombra, come la prima volta, ma ogni altro elemento è cambiato: maschera, guanti, palandrana, il guscio vuoto della caricatura dell'uomo giacciono a terra come la pelle dei serpenti a primavera. La tigre si muove in cerchio per la stanza. La coda ha spazzato via il vaso cinese e il profumo ora si disperde velocemente e non riesce più a coprire l'odore felino. Io resto sulla soglia, carne bianca, carne fresca, pronta per essere divorata. La tigre si ferma, mi fissa e spalanca le fauci, la gola è rosso sangue, come se già mi avesse sbranata.
Poi la richiude e annusa l'aria. E' così che i grandi felini annusano la paura delle loro prede?
Mi inginocchio sulla paglia e allungo una mano. Un rumore, come quello di un treno in lontananza, comincia a far vibrare i muri ed il pavimento, poi si formano delle crepe sul soffitto che, dopo poco, inizia a crollare.
La tigre sta facendo le fusa. Il suo tumultuoso ron ron scuote le fondamenta della casa. ( INIZIA A SPOGLIARSI)
Le vibrazioni scuotono le fondamenta della casa, i muri scompaiono, si disintegrano, esplodono i mobili, i quadri, gli specchi, i lampadari, i ninnoli e le suppellettili, i regali di Natale, gli oggettini ricordo dai viaggi organizzati, le foto del fidanzato, di mamma e papà, della prima Comunione e della laurea. Esplodono il tostapane, il forno a microonde, il videoregistratore, il fax, il cellulare, gli abiti firmati, l’iPod, l’iPad il Blackberry e lo Smartphone, le carte di credito e gli inviti a cui non si deve assolutamente mancare.
Bagliori rossastri chiudono la gola del mondo, non distinguo più né cielo né terra, riuscirò a riveder le stelle? Non m'importa. Fintanto che non sono in preda agli elementi ma sono io stessa un elemento, col fuoco, l'acqua, l'aria e la terra.
La tigre lentamente sposta la sua mole verso di me, si avvicina con sorprendente scioltezza di movimenti e sinuosa agilità, i fianchi rivelano una muscolatura così possente da togliere il fiato.
Un vento sabbioso solleva la paglia, chiudo gli occhi e mi sembra di essere un'onda fra il fragore dei marosi. Il pulsare è vicinissimo, avverto il tocco vellutato della sua testa contro la mia mano e poi la ruvidezza della sua lingua sul mio corpo.
Mi scortica viva con questa sua lingua di carta vetrata. Ad ogni furiosa, aspra leccata se ne vanno via strati di pelle, uno strato dopo l'altro, la pelle della bambina che aveva paura delle macchie, della liceale che aveva paura dei ragazzi, della donna che ha paura che non proverà mai un orgasmo, tutte le pelli di una vita, di tutte le vite che uno può vivere.
Il bruciore è intenso, mi sento una torcia, un tronco nel caminetto la notte di capodanno.
In questo vortice primordiale anche gli orecchini tornano allo stato di natura. Due gocce d'acqua limpidissima mi cadono sulle spalle, io giro il mento per assaporarne la freschezza e la punta della mia lingua affonda nel mio appena nato morbidissimo manto di pelliccia. Sì, ho anche io una pelliccia come la tigre, adesso.
(ANNUSA L'ARIA)
L'odore felino si fa sempre più forte.
Dottore, lei dice che questo mio è solo un sogno ricorrente.
E che appena sveglia dobbiamo analizzarne assieme la simbologia. Ma io continuo a sentire questo'odore. Può un odore essere così persistente, può continuare così, anche nella veglia? (LE SI RESTRINGONO LE PUPILLE)
L'odore è anche qui, proviene da dove è seduto lei, dottore.
(SI METTE A QUATTRO ZAMPE)
Lei non ha detto una parola da quando sono entrata, Lei è come la tigre del sogno. Non parla.
Si è stancato di sentirlo ripetere, il mio sogno… oppure…oppure me lo fa ripetere senza posa, affinché io lo interpreti con sempre più immedesimazione, il mio teatro della notte?
NUDA, A QUATTRO ZAMPE, SI AVVICINA A DOVE STA SEDUTO IL DOTTORE, PRESUMIBILMENTE.
FINE