Rebecca

di

Marco Andreoli




Rebecca è seduta accanto ad un tavolo.
Sul tavolo, una lampada accesa e un registratore a bobine collegato ad un microfono con piedistallo.
Il registratore è in funzione.

Rebecca - (concentrata e solare al tempo stesso) C’è quest’uomo. E c’è aria e vento e un sole come non si vedeva da giorni. E c’è un campo di viole azzurre, e un negozio di libri vecchi, e un toro anziano nel campo di viole, e piccola stazione col tetto rosso. E c’è quest’uomo. Alla stazione del treno. Davanti a lui c’è uno scivolo che specchia il sole, un’asta da bandiera, il palazzo di vetro dell’Onu, i frangiflutti. E la piena consapevolezza che tutte queste cose siano vere e siano presenti. Davanti a lui. Davanti a quest’uomo.
Per un po’ tutto va bene. Solo che poi le giornate cominciano ad allungarsi e piano piano la noia dell’uomo si va ad accostare ai suoi piedi.
E allora l’uomo lancia un ultimo sguardo allo scivolo - un ultimo sguardo alle viole e al palazzo di vetro - poi fa un salto e comincia a volare. E nessuno si stupisce che riesca a farlo. Perché non c’è nessuno, con lui, alla stazione del treno.
Ruota su se stesso, l’uomo, fa capriole e veroniche tra le nuvole, lascia che i capelli gli svolazzino contro vento. In cielo trova una macchina fotocopiatrice, una poltrona con le ali, una donna con cui fare un giro di tango. E trova la prima scimmia nello spazio e un bambino rimasto appeso ad un palloncino e l’aurora boreale. Fin quando, superata la stella polare, può finalmente tuffarsi nell’oceano.
E nell’oceano nuota per giorni. Per settimane. Fin quando, guidato dai colori delle anemoni, non avvista la terraferma. Avanza, mentre il sole gli asciuga i vestiti, avanza oltre gli alberi della spiaggia. Lì c’è una strada; e sulla strada, dietro la prima curva, c’è la stazione col tetto rosso. E di fronte, com’era prevedibile, le viole, i frangiflutti e lo scivolo. Sempre quelli. (Il tono, a poco a poco, si fa più cupo; affiora un’ansia nuova) Solo che mentre l’uomo è stato via, il treno è passato. Il conducente deve averlo anche aspettato per un po’. Poi però si faceva tardi e… Adesso chissà quando passerà di nuovo…

Resta bloccata sul pensiero. Il viso le si scurisce.
Lentamente, poi, si volta verso il registratore; e guarda per un po’ le bobine girare.

(senza rivolgersi a nessuno in particolare) A questo punto bisogna dire: «Basta così per oggi, Rebecca» e si deve spegnere il registratore. Qualcuno che non conosco verrà poi a prendere il nastro, tutto avvolto intorno a quella specie di ruota da passeggino, e lo porterà dentro un grande armadio di ciliegio.
Però prima c'è bisogno di dire: «Basta così per oggi, Rebecca». E c'è bisogno di spegnere il registratore.
Anche perché altrimenti questa cosa di me che dico che bisogna dire «Basta per oggi, Rebecca» e che dico che bisogna spegnere il registratore, resta impressa sul nastro.
(pausa; poi con voce minimamente artefatta)
«Basta così per oggi, Rebecca».

Si alza, Rebecca, e si avvicina al registratore.
Dà l'impressione che coordinare anche i movimenti più semplici sia un'impresa faticosissima.
Dopo qualche tentativo, desiste.

Così il Dottor Esse, prima ancora che mi arrivasse un'immagine della nonna che dorme, che fa?, viene qui e dice che la nonna è morta. E allora, per un'ora o due, ho avuto paura di dover odiare anche il Dottor Esse. Di mandarlo nello stesso calderone del guardiano del parco, del signore che porta le uova, della Signora Flora, del tedesco del terzo piano. Non avrebbe avuto una buona compagnia. Quella gente non profuma di dopobarba come lui; non ha le rughe del sorriso sulla faccia; e non ha l'aria di chi si mette lì ad ascoltarti. Così l'ho tolto subito da quel calderone e l'ho rimesso qui, nel padiglione della clinica, nella parte di corridoio dove batte più spesso il sole. Poi ho avuto l'immagine della nonna che dorme. Che dorme come un sasso, senza poter più sentire i rumori, il ferro delle posate o me che mi aggrappo alle sue spalle e che la scuoto e che le dico: «Svegliati... Svegliati...!». Mi prendono per la vita, mi portano via; anche se provo ad afferrare la mostra della porta con tutt'e due le mani, anche se schiaccio dieci urla nel petto, anche se a forza di agitare il vestito, muovo l'aria e spengo cinque o sei delle cento candele accese.

Ora sul nastro ci sarà anche tutto questo. E ci sarò io che dico: «Ora sul nastro ci sarà anche tutto questo». E via dicendo.

Funziona come quando mi specchio nell'ascensore del padiglione. Che lì, nell'ascensore, ci sono due specchi, uno di fronte all'altro. E allora, alle spalle di me che mi specchio, c'è sempre un'altra me che prova a specchiarsi, e subito dietro un'altra, una fila di me che si sporgono per specchiarsi. Solo che la mia prima me, forse per il fatto che è entrata nell'ascensore un attimo prima di tutte le altre, ha la precedenza, e non cede mai il passo, e sembra lo faccia apposta a nascondere la vista a tutta la fila. La mia prima me, tra quelle che si specchiano nell'ascensore, non è per niente generosa. Il Dottor Esse dice che l'infinito assomiglia a quella fila di me. E una volta, mentre guardava l'orologio, mentre con l'indice spingeva l'archetto degli occhiali verso l'alto, ha detto anche che in fondo in fondo bastano due specchi per capire quanto le nostre possibilità siano infinite. Io ho fatto di sì con la testa. Ma lo sapevo che s'era sbagliato, che, almeno su questa cosa dell'infinito, aveva preso un bel granchio davvero. Perché se di tanto in tanto non mi infilo il vestito nel verso giusto, o se alzo la mano per ravviarmi i capelli senza riuscire, certe volte, a trovare l'inizio della fronte, o se resto bloccata mezzore su mezzore a capire come devo infilare la chiave nella toppa, non è che le altre me negli specchi mi vengano in aiuto. Perché non sanno fare niente meglio di me. E, anzi, se c'è qualcosa che fanno è confondermi, una volta di più, la destra con la sinistra.
Però lo stesso non ho detto niente. Il Dottor Esse ha guardato l'orologio e ha detto questa cosa delle possibilità infinite. E io ho fatto di sì con la testa; e non ho detto niente. Anche se, mentre lui guardava l'orologio e mentre io, con la coda dell'occhio, vedevo il mio gomito che curvava infinite volte verso chissà quale universo lontanissimo, mi è venuta in mente la storia del diavolo, che se a mezzanotte metti due specchi uno di fronte all'altro, quello viene fuori e spacca tutto.

Si sentono i rintocchi di un vecchio orologio a pendolo.
Rebecca sembra di nuovo arenata sul pensiero. Si concentra, oscilla con la testa in avanti al ritmo dei rintocchi; poi, con l’aiuto delle dita, comincia a contarli. Solo che le mani non bastano, i conti non tornano. E allora ogni volta deve ricominciare daccapo, con ansia crescente. Rebecca chiude gli occhi fin quasi a strizzarli, serra le labbra, trema. I tentativi di contare si fanno imprecisi e patetici. I rintocchi del resto sono troppi; più di venti, più di trenta. Sono rintocchi per ore impossibili.

(rapida, concitata; come a sovrastare con il ritmo frenetico delle parole, quello compassato del pendolo) La raccontava la nonna, questa storia. Diceva che se esce fuori, il diavolo prende e spacca tutto. Ma poi, in chiesa, diceva anche che il diavolo non esiste. E io allora una volta le ho chiesto: «Esistono nonna, le cose che stanno dentro gli specchi?». Lei non ha mica capito. Mi ha accarezzato la testa e mi ha detto di andare un po’ a vedere se facevano qualcosa di bello in tv. Io ho ubbidito. Ma non mi potevo togliere dalla testa che una cosa o c’è o non c’è. E che non si dovrebbero mai raccontare storie del genere agli idioti; perché non sai mai che può succedere. E Rebecca è proprio un’idiota completa, che magari davvero aspetta che ci sia la luna piena per andare a vedere cosa accade, a mezzanotte, nell’ascensore del padiglione.

Ultimo rintocco.
Rebecca pian piano si tranquillizza. Si volta verso il registratore.
Quindi torna a guardarsi le mani, ancora tese e impegnate a tenere il conto.

Il tempo mi fa paura quando si ferma, non quando passa. È che certe volte sento così freddo. Magari tiro giù un’altra coperta e mi rimbocco anche quella fino al naso. E continuo a sentir freddo. E allora penso che l’unico modo per farlo andar via, tutto quel freddo, è aspettare che passi la notte. Contare mille volte fino a sessanta per farci mille minuti. Solo che perdo il conto. E lo so che se perdo il conto, il tempo si blocca. Se conto è come se dessi la carica, come se girassi una chiavetta segreta che fa muovere gli ingranaggi. (via via spegnendosi; addormentandosi) Ma se mi fermo io, si ferma tutto. Si ferma anche il freddo. E allora certe notti non passano mai. Restano bloccate. Come fossero vedove sedute. A guardarti respirare.

Sbadiglia improvvisamente, Rebecca. Come se davvero si fosse appena svegliata.

(improvvisamente solare, di ottimo umore) Ora sì. Ancora un minuto senza muovere un solo muscolo, uno solo. E poi via. In piedi. Una bella colazione da campioni e si parte. La prima cosa che faccio è provare a spostare la tenda per vedere quanto sole c'è. Le dita mi si intrecciano un po'. Ma basta respirare, contare fino a dieci, scuotere appena la testa e pensare ai punti neri delle coccinelle. E allora buongiorno a tutti. Buongiorno anche a te, salice. Stanotte mi hai spaventato. Perché l'ombra ti ballava così tanto sulla tenda che sembrava di stare all'inferno. Ma oggi, guardati. Sei verde e sereno. Come me in quel sogno del bosco, dove cominciava a piovere e io mi trasformavo in erbagrazia. Via. Che sennò si fa tardi. Una preghiera alla nonna prima di uscire. Che Nostro Signore la faccia star bene e che le faccia avere tutti i miei baci e i miei saluti. La seconda cosa che faccio è provare a prendere il vestito rosso. Ma me l'hanno appeso un po' troppo in alto. Vado in cucina a cercare una sedia. Buongiorno piantina di riso, quasi mi dimenticavo di te. Trascino la sedia per un po'. È la terza cosa che faccio. Solo che quella cade. Non fa che cadere. Mi viene la tremarella. Buongiorno sedia, sei tu che fai i capricci? O è la mia mano? Respiro, conto, scuoto appena la testa e penso ai punti delle coccinelle. Ma mi iniziano a battere anche i denti. E allora niente, nessun problema, vado a prendere il vestito di ieri che è già ai piedi del letto. Ecco. Dai che va bene lo stesso. Non c'è motivo di farsi prendere dall'ansia. Una manica. L'altra. E poi i bottoni. È sempre questa la parte più difficile. Ma qui ce ne sono soltanto tre. Uno, due... Non così... Uno, due... No. Non così. (pausa) Buongiorno bottoni. Vi è venuta voglia di guardie e ladri, stamattina? Via. Il quadrato va nel buco a forma di quadrato, il cerchio, nel buco a forma di cerchio, il primo bottone nella prima asola, il latte nel bicchiere dove c'è scritto “latte”. Ecco. Siamo pronti. Io, i miei capelli, il mio collo; il mio seno; tutto il mio corpo spezzettato, sminuzzato e innocente. È qui, pronto, per aprire la porta e per fare le scale.

Idealmente Rebecca guarda la maniglia della porta davanti a sé. Quindi muove la mano in avanti. Ma la muove come fosse uno strumento chirurgico, un utensile staccato dal resto del suo corpo.
In pochi istanti l'energia con cui aveva iniziato la giornata si va spegnendo.
Respira, allora, Rebecca. E conta. E scuote appena la testa avanti. E chiude gli occhi; forse per poter visualizzare i punti nere delle coccinelle.
Al massimo della tensione, molto lentamente alza la mano aperta fino all'altezza degli occhi. Quindi, concentratissima, la guarda chiudersi appena. Poi, all'improvviso, la lancia verso il basso, come se davvero dovesse afferrare - ma al volo, con uno scatto - qualcosa di simile ad una maniglia.

Cambio immediato.

Rebecca ha la luce del sole sulla faccia, ora.
Parte da qui in poi un dialogo nel quale la seconda voce è quella insicura ed emotiva di Rebecca; mentre la prima potrebbe appartenere ad una immaginaria dottoressa caratterizzata da una certa dose di cinismo, o anche ad uno dei personaggi del calderone, o perfino alla propria stessa mano; che non ne vuole sapere di obbedire ai comandi.
La scelta spetta come sempre al m.e. s.
In ogni caso, a poco a poco, il dialogo si trasforma in un questionario psicologico e, più avanti, in un test per misurare il Q.I.
Rebecca si sente sempre più braccata dal susseguirsi delle varie domande e dai toni inquisitori dell'ideale interlocutore.
Il ritmo si fa via via martellante.

 Dove stai andando?
 Fuori.
 Fuori dove?
 Fuori. A prendere un po' d'aria.
 Ti manca l'aria?
 (prova ad alleggerire; tentando un sorriso) No. È che c'è una giornata così bella, fuori.
 E dentro?
 Come dentro?
 Questa giornata che è così bella fuori, dentro com'è?
 Ma... È la stessa giornata...
 E allora che bisogno c'è di uscire?
 Io...
 Va bene, comunque. Se ci tieni tanto, esci.
 Grazie.
 Però ascolta quello che ti dico, va bene?
 Va bene... Ma intanto?
 Intanto cammini. Tanto più che la giornata è così bella.
 Sì.
 Hai un appuntamento per le 16 in un caffè.
 Quando?
 Ipotizziamo che tu abbia un appuntamento per le 16 in un caffè.
 Per le 16.
 Sì.
 Mentre tu sei puntuale, il tuo conoscente si fa aspettare.
 E chi è il mio conoscente?
 Una persona che conosci.
 Ma non ho capito quale.
 Non è importante. Poniamo che sia una persona qualsiasi.
 Va bene.
 Nel frattempo passa mezz'ora. Sono le 16.30. Tu che fai?
 Che faccio?
 Aspetti? Te ne vai? Lasci un messaggio al cameriere? Eh, Rebecca? Che fai?
 ...Non lo so. Come faccio a dirlo se non so chi è questa persona?
 (pausa) Sei seduta in un locale pubblico e senti che qualcuno, al tavolo vicino, parla male del tuo modo di vestire. Che fai?
 Ma... È la stessa persona di prima?
 Non importa.
 Non so.
 Ti curi dei tuoi vicini di tavolo?
 Che significa?
 Hai nove mele, le mangi tutte tranne tre. Quante ne rimangono?
 ....Non lo so.
 Gianni è più alto di Giacomo, Giorgio è più alto di Gianni che è più alto di Giacomo e più basso di Giorgio. Chi è il più basso dei tre?
 Ma non li conosco...!
 Hai 12 uova, ne perdi la metà e ne ritrovi i due terzi. Quante uova ti restano?
 Non lo so!
 Non lo sai?
 Venti.
 No.
 Cento.
 (pausa; più calma) Dove sei arrivata?
 Che significa?
 Sei uscita di casa e hai camminato, ricordi?
 Sì.
 Bene. Dimmi cosa vedi. Se mi dici quello che vedi, giuro che per oggi non ti chiedo altro.

Rebecca guarda davanti a sé. E prova a rifiatare. Malgrado sia ancora visibilmente provata dalla valanga di domande che le sono cadute addosso. Riesce comunque a recuperare il proprio ritmo.

 Sono davanti ad un campo di fiori. Sono viole. Sono viole azzurre. Il sole mi batte sulla faccia. È bello. E poi si sente tutto questo odore di campagna. C'è un toro, un toro molto vecchio, che ha scavalcato il recinto della fattoria perché non ne poteva più di prendere bastonate. E allora s'è venuto a mettere qui, al sole, in mezzo al campo di viole. C'è un negozio di libri vecchi, dietro al campo. Se qualcuno entra per chiedere una storia, l'uomo del negozio pesca uno dei suoi romanzi preferiti e comincia a leggerlo, ad alta voce. E lo legge così bene che nessuno va via dal negozio prima che sia finito. Le viole nascono, muoiono e rinascono. Il toro è vecchio e tra poco morirà. Anche il venditore di libri è vecchio. Ma i suoi libri sono eterni. E questo lo fa star bene, capito? E dalla finestra del negozio vede il treno che passa e che si ferma alla piccola stazione col tetto rosso. Il treno arriva e riparte. Non nasce e non muore. È di passaggio. E c'è un signore che lo aspetta questo treno. Solo che si stanca di aspettarlo. E allora fa un salto. E con quel salto vola via.
 E chi è questo signore?
 Non lo so.
 Avanti. Guarda bene.
 (nervosa) Non lo so. Non lo riconosco.
 Dimmi chi è quell'uomo e ti lascio in pace, Rebecca.
 (rabbiosa) No. Non te lo dico.
 Avanti, tesoro... Fa' la brava.
 (fuori di sé) Non te lo dico! Io l'ho capito quello che vuoi fare. L'ho capito!

Buio improvviso. Resta accesa solo la lampada puntata sul registratore a bobine.
Parte una registrazione audio con la voce di una donna che parla a scatti. Quegli scatti “jacksoniani” di cui scrive Sacks.
Si può intendere che questa registrazione corrisponda a parte di ciò che effettivamente è stato inciso sul nastro di Rebecca.

Il mio braccio destro è andato a fare la spesa. Il piede sinistro è a letto che dorme. Il naso è rimasto dal fornaio. Gli occhi si sono persi tutti e due, uno nei corridoi del museo, l'altro sul sole che tramontava. Il mio fianco destro è tornato così tardi dalla sala da ballo che deve aver perso la strada. L'altro, di fianco, è andato a fare un bagno al lago e ha portato con sé coscia e ginocchio. Una delle orecchie è rimasta all'Opera, l'altra al telefono. I polmoni si sono gonfiati di fumo e sono andati al cinema, all'ultimo spettacolo. La bocca è rimasta a sussurrare sul parapetto del ponte. I seni andavano in giro un po' senza meta, e a forza di vagare sono finiti in un vicolo cieco; c'è di buono che sono rimasti assieme. I capelli hanno seguito il vento e stanno migrando verso i paesi più caldi. La mano sinistra ha provato a seguirli, ma poi gli è mancato il fiato e s'è fermata sul bordo di una scrivania.
Ogni giorno sono costretta ad uscire dalla mia stanza per andare a cercare i pezzi che mi mancano. Ormai un po' li conosco. So che amicizie frequentano, in che posti si vanno a ficcare... Ma la sera, quando li butto nel letto, insieme a me, la fatica si fa sentire. Ogni giorno sono più stanca.
Certo che quando la nonna mi abbracciava, era tutto a posto. Neanche si azzardavano a scappar via. Perché non c'è nessuno di loro che non volesse bene alla nonna. Figuriamoci. Il giorno del funerale, durante l'orazione, sono stati lì con me, attaccati ad ogni mio pensiero, in silenzio.
Gli piace la musica. A tutti. nessuno escluso. Se capita che metto un disco di King Curtis e mi metto a ballare nel soggiorno, restano tutti lì, a cantare Give a twist party.
Poi però se ne vanno. E sì che gliel'ho spiegato tante volte che avrei bisogno di loro anche per le cose più normali. Perché, soprattutto ora, senza la nonna, dobbiamo dar prova di essere autonomi.
Qualche giorno fa è venuta da me una loro delegazione. C'erano le mani, almeno una spalla; e naturalmente gli occhi, che quelli non mancano mai quando c'è da discutere. E, sotto giuramento, si sono impegnati a ridurre drasticamente le fughe e le uscite. Dicono che faranno di tutto per riuscire a stare quanto più tempo possibile qui con me.
Non so se c'è da credergli. Però parevano in buona fede. Questo va detto. Certo è solo un'impressione... Però gli occhi... Non lo so... tutt'e due, una volta tanto... Sembravano... Sinceri.

Quando tornerà ad illuminarsi la scena, Rebecca avrà indossato un cappello di paglia e un impermeabile leggero e terrà in mano una piccola valigia.
Suoni di campagna.

Caro Dottore. Sono passati ormai sei mesi da quando ho lasciato lei e tutte le persone che, come lei, hanno avuto il buon cuore e la pazienza di sostenermi durante il mio soggiorno presso la clinica. Questa lettera, come potrà immaginare, la sto scrivendo grazie all'aiuto di una zia, sorella di mia nonna, che cerca come può di mettere ordine alle mie parole spezzate. E tuttavia da tanto tempo avevo il desiderio di dirle, una volta di più, quanto le sono grata. Quando sono andata via, lei mi ha abbracciata e mi ha stretto forte. Io, mentre capivo che l'odore del suo dopobarba lo stavo sentendo forse per l'ultima volta; e mentre provavo a trattenere le lacrime e i singhiozzi, le ho detto grazie, ho provato a sussurrarglielo all'orecchio, come se fosse un grazie solo suo, che non riguardasse gli infermieri o gli altri dottori. Non appena avessi lasciato il suo abbraccio avrei ringraziato anche tutti loro. Ci mancherebbe altro. Ma quello, di grazie, volevo che fosse solo suo, Dottore. E tuttavia non sono riuscita, in quell'occasione, a spiegarle i motivi della mia gratitudine speciale. Ci provo ora. Con l'aiuto di questa mia zia che, suo malgrado, sarà partecipe del breve appendice di quel grazie sussurrato. Il motivo, Dottor Esse, non erano le cure e le terapie che ha tentato su di me; né la disponibilità o i sorrisi o la pazienza con cui mi ha sempre saputo accogliere. Di tutte queste cose l'ho ringraziata ad alta voce. Ma il mio ringraziamento sussurrato era per altro. Come per quella volta - chissà se si ricorda? - : una bella giornata d'aprile, piena di sole. Io ero seduta su una panchina, nel cortile della clinica. Avevo un vestito bianco e un nastro azzurro tra i capelli. La nonna era ancora qui con me. Stavo guardando le foglie. Stavo pensando al loro ciclo, al senso che quel ciclo potesse dare a tutti i miei respiri. A questo stavo pensando. E poi ho sentito il suo sguardo sulla spalla. E infatti lei era lì che mi guardava, appoggiato ad una delle colonne del porticato. Le ho chiesto: «A cosa sta pensando, dottore?», «A Nina», ha risposto lei: «Alla Nina di Cechov». Ecco. Io sono convinto che l'avermi vista su quella panchina, intuendo, magari solo lontanamente, dove s'era andato a infilare il mio pensiero, le aveva dato una chiave, una possibilità alternativa. Qualche giorno dopo ha portato il grammofono nel suo studio, ha messo su un disco allegro e mi ha detto: «Balla, Rebecca... Balla». Io la ringrazio per aver capito quanto fossero inutili tutti quei questionari che sminuzzavano e sparpagliavano i miei pensieri. Lei ha capito, e l'ha capito molto prima di me, che i suoni, le immagini, ogni individuo, anche i conoscenti dei test, andavano collocati in un disegno generale e organico. In una storia ricomposta, insomma. Tutta la fatica che mi chiedevate per frantumare i miei pensieri, ho allora iniziato ad usarla per ricostruire tutto, per rimettere insieme i pezzi.

Ecco. Io sono ancora una ridicola idiota. Non riesco ad infilare la chiave nella toppa. La gente non mi capisce quando parlo e mi fissa quando cammino. Spesso non mi accorgo di aver messo il vestito al contrario. Aprassia. Agnosia. Non importa. Posso dire di non essere guarita. Anzi, meglio: posso dire di non aver fatto alcun progresso. I test lo dimostrano e i medici lo confermano.

Ma che ne sanno loro del nostro campo di viole, eh Dottore? O del negozio di libri? O della stazione col tetto rosso? La sorprendo, vero? Lei magari non se n'è accorto. Ma quando ha preso il volo, io ero nel campo che le stava di fronte. L’ho salutata anche. Ma si vede che aveva altro a cui pensare. Poi ha fatto quel salto, Dottore; e non è ricaduto. Allora mi sono alzata e le sono corsa dietro. E da lì, da sotto i suoi piedi piccolissimi, le ho gridato di venir giù, che magari mancavano due curve prima che il treno arrivasse; che certamente non era distante più di tre o quattro gallerie dalla stazione. Le ho urlato: «Dottore! Lei da lassù magari può vederlo anche meglio! Si giri, per favore… Si giri… Se scende subito magari fa ancora in tempo a prenderlo, il treno…». Ma lei diventava sempre più un punto. E quando era chiaro che non sarebbe più sceso, allora l'ho aspettato io, il treno. Al posto suo. E quando s'è fermato sono salita. Perché ho pensato: da qualche parte dovremo pure incontrarci di nuovo...

Rebecca si volta verso il registratore. È ancora in funzione.
Prende il microfono, se lo avvicina alla bocca e ci parla dentro.

Mi chiamo Rebecca. La mia storia comincia così.

Musica. Sotto cui si sente il suono di un treno in partenza.
Si spengono le luci. Lentamente. Anche quella della lampada.
Si vede solo allora che i raggi e la circonferenza delle due bobine del registratore sono puntellati di piccole lucine bianche. Così che, al buio, quelle due piccole bobine che girano, assomiglino alle ruote di un piccolo treno a vapore.