Il Quinto rovesciato
Il monologo di un killer

di

Giancarlo Ferraris



    *Un uomo sui quarant’anni, con indosso un impermeabile e un borsalino in testa, sta salendo le scale di un edificio quasi dismesso che si affaccia su una strada cittadina ampia e trafficata. Porta con sé una piccola valigia nera, dalla forma particolare. All’improvviso si ferma davanti a una porta, si guarda rapidamente intorno, poi l’apre e altrettanto rapidamente entra in un monolocale dove non vi sono mobili, a parte una sedia di metallo posta vicino alla finestra che dà sulla strada sottostante. L’uomo si toglie il borsalino e l’impermeabile che lascia cadere, noncurante, sul pavimento, accende una sigaretta e guarda fuori. Poi spegne la sigaretta appena iniziata, si siede ed estrae dalla valigia i pezzi di un fucile dotato di cannocchiale che assembla con un cacciavite… Quindi fa un lungo sospiro e inizia a parlare.*

    Io sono un killer… Uno che uccide a pagamento… Killer è una parola che fa effetto; direi di più: è una parola “ganza”, elegante, che ti fa subito pensare ai fumetti, ai romanzi, ai film noir… Nella nostra lingua l’equivalente è sicario, assassino prezzolato: due parole molto meno “ganze” ed eleganti, che rimandano a criminali rozzi, a delinquenti senza stile e senza classe… Il concetto, però, non cambia.

    Più di una volta ho riflettuto sul significato della parola assassino e, alla fine, ho voluto conoscerne l’origine. Ho scoperto che questa parola, dal suono così repellente, deriva dalla lingua araba e sta a indicare la setta dei Nizariti, attiva in Medio Oriente nel Medioevo. Questa setta era formata da individui maschi scelti dal loro capo, il Gran Maestro Hasan, detto Il Vecchio della Montagna, per il coraggio, il livello di istruzione e l’affidabilità. Secondo quanto narra la leggenda, il Gran Maestro rapiva coloro i quali desiderava diventassero suoi adepti facendo loro credere, con l’aiuto di droghe, di vino, di scenografie appropriate e di donne bellissime, che fossero morti e arrivati in Paradiso. Una volta che essi si erano risvegliati dal torpore, Hasan spiegava loro che quello era il destino che li attendeva oltre la vita terrena, se avessero obbedito, in tutto e per tutto, al loro Maestro e fossero anche morti per lui. I Nizariti venivano addestrati e indottrinati anche con l’ausilio di hashish onde la parola assassino, quindi, da soli o in piccoli gruppi, venivano inviati a uccidere personalità importanti. Come sono cambiati i tempi! Allora, per poter uccidere, era necessario non essere in se stessi; oggi, per poterlo fare, bisogna essere estremamente lucidi; magari fumando un po’ di erba o sniffando un po’ di polvere bianca, ma questo è un altro discorso.

    Ho iniziato a esercitare questa professione presto. A ventun anni ho commesso il mio primo omicidio. Saddam Hussein, fino a qualche tempo fa padre-padrone dell’Iraq, è stato più precoce di me: a diciassette anni uccise il suo primo uomo. Le strade che noi due abbiamo percorso, in tempi ovviamente diversi, sono state differenti, molto differenti: io, dopo il primo, fatto fuori con una Glock 17, ne ho ammazzati altri ottantanove con il mio M40; tutti, comunque, eliminati per conto dell’Organizzazione a cui appartengo da quando ho iniziato la professione; lui, mettendosi al servizio del Potere, ne ha fatti fuori, secondo i “pettegolezzi” del Governo americano, qualche milione con tutto quello che gli passava tra le mani: Kalashnikov, mannaia, gas nervino. Ciò che conta, però, nella mia, nella nostra attività non è la quantità, ma la qualità. E io, in questo, sono superiore (anche) a Saddam Hussein.

    Posso dire che sono cinque le regole fondamentali della professione di killer. Regola numero uno: quando ti viene assegnato un “lavoro” o sei contattato per farne uno non puoi fare altro che accettarlo; regola numero due: ogni “lavoro” deve essere fatto bene, soltanto e nient’altro che bene, senza sbagliare; regola numero tre: quando spari a un uomo quell’uomo non è più un uomo, ma diventa una cosa, un oggetto senza valore, senza significato alcuno; regola numero quattro: la pallottola giusta al momento giusto; regola numero cinque: quando inizi a fare il killer non puoi più smettere; in realtà puoi anche smettere, ma è bene, per te stesso, che questo non accada mai. C’è poi una sesta regola, che è un po’ il compendio di tutto… Più che una regola è un comandamento… Io lo chiamo “Il Quinto rovesciato” perché è esattamente il contrario del Quinto Comandamento che Dio, insieme ad altri nove, dette a Mosè, sul Monte Sinai… Esso è una sola parola inequivocabile, fredda, terribile: uccidi.
    Uccidere: ecco la parola chiave della mia vita, il punto di partenza e il punto di arrivo della mia esistenza; e la parola morte è solamente la normale prosecuzione di essa. Già!... La morte!... Mi accompagna sempre ovunque vada, anche quando non lavoro. Ormai ce l’ho attaccata addosso, ce l’ho dentro di me… Mi è venuto di pensare, proprio in questi giorni, che anche per me, che uccido, che do la morte, ogni “lavoro” sia in realtà un martirio indicibile, una tortura della mente, del cuore, del corpo… E in quei lunghi, interminabili attimi di attesa prima di entrare in azione e nel momento in cui premo il grilletto è come se fossi io che sto per morire, è come se insieme a colui che uccido morisse, tutte le volte che cancello una vita umana, una piccola parte di me stesso… Un killer, uno che uccide ripetutamente per soldi, non dovrebbe provare emozioni come queste, ma anche i killer, in fondo, sono soltanto degli uomini.

    Perché sono diventato un killer?… Domanda indiscreta, questa, benché sia io stesso che me la pongo… In realtà le domande non sono mai indiscrete… Lo sono, tuttavia, alcune risposte… Come la mia… Anzi come le mie… Sono diventato un killer perché sono cresciuto e vivo tuttora in una Organizzazione - chiamo così la mia famiglia dove il destino dei suoi componenti è segnato ancor prima di venire al mondo - dedita al crimine e da tanti anni guidata da mio padre, “leader” egocentrico, carismatico, potente e crudele; sono diventato un killer perché amo le armi, fin da quando ero bambino, fin da quando con gli amichetti del quartiere giocavo a guardie e ladri, a poliziotti e banditi e io stavo sempre “dall’altra parte”, che per me era quella giusta; sono diventato un killer perché mi piace il denaro e la mia professione mi permette di guadagnarne tanto, dato il mercato piuttosto povero di figure professionali come la mia e ciò mi permette di esercitare un po’ di sano monopolio, nel senso che, talvolta, rilancio verso l’alto l’offerta che mi viene fatta; sono diventato un killer perché adoro uccidere, perché mi sento grande quando penso che con un semplice movimento dell’indice posso decidere il destino di una vita umana; sono diventato un killer perché sono nato killer o perché, forse o certamente, non ho avuto un’alternativa oppure non ho saputo o voluto cercare un’altra strada nella mia vita o perché non so fare altro… Un “grande” del mio ambiente, una volta, portavo ancora i pantaloni corti, mi ha detto: «C’è chi nasce poliziotto, chi Madre Teresa di Calcutta, chi criminale: a me è toccato nascere criminale… Ma la colpa, credimi, è soltanto la mia.»

    Uccidere un Capo! Proprio un bel lavoro mi attende! Mi domando se sarà mai possibile uccidere un Capo. Certo, la Storia è piena di cosiddetti “pezzi grossi” - sovrani, condottieri, presidenti, uomini di legge - che sono stati uccisi, i cosiddetti assassinii politici… Il pugnale condannava a morte il sovrano che non era stato all’altezza del suo incarico; il veleno stroncava nel silenzio oppositori politici e nemici personali; durante le feroci guerre di religione i teologi giunsero a legittimare l’assassinio del re. Ciò significa che anche gente del genere può essere uccisa e che io, a maggior ragione, non devo sbagliare. Se sbaglio per me è finita: per mano di altri - Polizia, Forze Speciali, “datori di lavoro” insoddisfatti, “concorrenza” - o per mano mia; chi, come me, fa il killer, tiene sempre presente la vecchia massima del Far West:

Quando combatti contro gli indiani,
l’ultima pallottola riservala per te.

In un modo o nell’altro, comunque sia, è finita.

    Mi viene subito in mente quello che, forse o sicuramente, è il più famoso delitto politico della storia, quello che vide come protagonisti, uno vittima l’altro carnefice, due famosissimi nomi della Roma antica: Giulio Cesare e Bruto. La tradizione racconta che la morte di Cesare fu preceduta da tanti presagi: si videro bruciare fuochi nel cielo, uccelli solitari giunsero nel foro, furono uditi strani rumori. Sua moglie Calpurnia, donna aliena da superstizioni, fu sconvolta da un sogno in cui vedeva la casa che le crollava addosso e lei stessa tenere tra le braccia il corpo del marito senza vita. Alle Idi di marzo del 44 a.C., Bruto, Cassio, Casca e altri congiurati - tutti “bravi ragazzi” con propositi omicidi, antesignani di Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese - attorniarono Cesare e lo colpirono con ventitre pugnalate: troppe per un uomo solo, troppo poche per un uomo come Giulio.

    Gli esempi della storia possono continuare: Riccardo II re d’Inghilterra fu ucciso in una torre; Enrico IV re di Francia fu pugnalato mentre era in carrozza; un colpo di pistola sparato da John Wilkes Booth, un fanatico attore sudista, pose fine alla vita di Abramo Lincoln; pare che Booth, in quel momento, abbia gridato Sic semper tyrannis, frase storicamente attribuita a Bruto mentre uccideva Cesare; Kennedy fu assassinato con due colpi di fucile; Aldo Moro a colpi di pistola e con una raffica di mitraglietta; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fatti saltare in aria con quintali di tritolo.

    John Fitzgerald Kennedy… Il Presidente per antonomasia degli Stati Uniti d’America, già mito e leggenda ancor prima di diventarlo… Il 22 novembre 1963 lui e la first lady Jacqueline, giunti a Dallas con l’aereo presidenziale, salirono a bordo di una limousine Lincoln (ironia della sorte!) prendendo posto sui sedili posteriori mentre su quelli centrali si sedettero il governatore del Texas e sua moglie. Il corteo del Presidente imboccò l’angolo di Houston Street con Elm Street e la Lincoln rallentò in prossimità della curva mentre il Presidente e il governatore salutavano la folla. Pochi secondi dopo tre colpi d’arma da fuoco furono esplosi con un fucile Mannlicher-Carcano calibro 6,5 mm dotato di mirino telescopico a quattro ingrandimenti in direzione della vettura; il secondo e il terzo colpo raggiunsero Kennedy: il secondo alla schiena, uscendo poi dalla gola, il terzo alla testa provocando una ferita profonda rivelatasi mortale. Il responsabile dell’assassino fu ritenuto Lee Harvey Oswald, impiegato in una scuola della città, ucciso a sua volta da Jack Ruby, gestore di un night club. Bersaglio centrato, killer eliminato, mandanti sconosciuti: un “lavoro”, secondo il mio punto di vista quasi perfetto (in realtà perfetto, anzi perfettissimo) per il semplice fatto che il mio “collega” ha seguito la sorte della sua vittima, cosa che a me non deve mai accadere.

    Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana, il partito che per decenni fu alla guida dell’Italia, da solo o con pochi altri interlocutori… Rapito a Roma il 16 marzo 1978 dalla formazione terroristica delle Brigate Rosse - questa sigla che ai più incute terrore e orrore a me ricorda soltanto gli anni “spensierati” della mia infanzia - e ucciso, sempre nella capitale, il 9 maggio dello stesso anno. Moro fu rinchiuso dai suoi rapitori in una cesta di vimini e portato nel garage del covo delle Brigate Rosse, in Via Montalcini; poco dopo venne fatto entrare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa e coperto con un lenzuolo dello stesso colore. A sparare fu Mario Moretti, che esplose, dapprima, alcuni colpi di Walther PPK calibro 9, poi, dopo che la pistola si era inceppata, una raffica di Skorpion, una mitraglietta di fabbricazione cecoslovacca, perforando i polmoni del Presidente. Di tutta questa storia, dopo tanto tempo, è rimasta, senza risposta, una domanda, sprofondata nella mente e nell’animo di chi ha vissuto quell’evento; è rimasto un dubbio che, per me, carnefice e vittima insieme, incapace di liberarsi delle proprie emozioni, per me che devo uccidere un Capo, senza ovviamente sbagliare, è un grande conforto che mi tranquillizza e mi dà persino vigore: come è stato possibile rapire un uomo come Aldo Moro, tenerlo nascosto per ben cinquantacinque giorni e poi ammazzarlo così impunemente?

    Giovanni Falcone e Paolo Borsellino... Due giudici, due eroi nazionali, in realtà due uomini soli contro Cosa Nostra, la mafia siciliana… 23 maggio 1992, autostrada A 29 nei pressi di Capaci, a pochi chilometri da Palermo. Mezza tonnellata di tritolo, che era stata posizionata in un tunnel scavato sotto la strada, esplose con una deflagrazione immane al passaggio delle auto con a bordo il giudice Falcone, la moglie e la scorta, provocando una voragine enorme e la loro morte. Ad azionare il comando che fece brillare il tritolo Giovanni Brusca detto lo scannacristiani oppure, in dialetto siciliano, u verru, il porco… 19 luglio 1992, Via D’Amelio, a Palermo, una Fiat 126 imbottita con cento chili di tritolo saltò in aria al passaggio di Borsellino, che stava andando a trovare sua madre, e della scorta. Via D’Amelio era ritenuta una strada pericolosa, tanto che era stato richiesto di procedere, in via del tutto preventiva, alla rimozione dei veicoli parcheggiati davanti al palazzo dove abitava la madre del giudice, richiesta rimasta disattesa. E anche questi due “lavori”, per me che uccido, che ho fatto della morte la mia scelta professionale e di vita, con l’unica condizione di non sbagliare, non possono fare altro che rincuorarmi, che infondermi coraggio nell’andare avanti perché, a questo punto sono veramente convinto che sia possibile uccidere chiunque. Come la Storia stessa, d’altra parte, lo dimostra.

    L’auto con a bordo il Capo sta arrivando… Il mio informatore mi ha detto che da queste parti ha un’amica, una donna, un’amante e che, spesso, va a trovarla… Prima di entrare in azione compio sempre un piccolo rito propiziatorio: mi rimetto in testa, per togliermelo subito pochi attimi dopo, il mio borsalino a cui sistemo accuratamente le tese, proprio come fa Alain Delon quando interpreta Frank Costello faccia d’angelo, killer come me; e in questo breve momento mi sento anch’io un attore, un affascinante interprete del cinema noir e penso anch’io di avere, come Delon, occhi di ghiaccio e movenze zen. Ecco!… L’auto si è fermata sull’altro lato della strada, proprio davanti allo stabile dove sono appostato io con il mio M40.

    **Il killer apre leggermente la finestra e punta la sua arma.**

    Vedo la portiera posteriore di destra aprirsi poco alla volta… Coraggio!… È ora di lavorare… È ora di dare la morte.