Il patibolo e l’agonia
Sedici monologhi sulla vita e sulla morte di
Giancarlo Ferraris
Nota dell’autore
I personaggi di questi monologhi sono reali e immaginari; le loro parole, forse.
G. F.
I personaggi
Sophie Scholl
Un attore
Robert Oppenheimer
Antonio Salieri
Ponzio Pilato
Un soldato
Valeria Messalina
Un giudice
Un boia
Farinata degli Uberti
Una vedova
Adolf Eichmann
Marco Giunio Bruto
Generale Santos Banderas
Un killer
Charlotte Corday
*Voce narrante*
**Movimenti di scena**
I tre punti di sospensione indicano:
- brevi momenti di pausa nei discorsi dei personaggi;
- discorsi interrotti o sospesi.
Come un prologo
Sul palcoscenico di un teatro prima della rappresentazione.
Direttore
Mancano poche ore allo spettacolo.
Regista
Un po’ di gente verrà.
Direttore
Un po’ di gente… Un po’ di gente… Si fa presto a dire “un po’ di gente!”… Bisogna poi vedere quanti saranno gli spettatori… Uno, due, tre, dieci, cento, mille… Nessuno.
Regista
Qualcuno verrà… Proprio questa mattina ho visto due tizi che leggevano la locandina dello spettacolo.
Direttore
Chissà che cosa avranno pensato!... Il problema è che il pubblico ha visto di tutto e di più… All’inizio di ogni spettacolo lo vedo seduto in platea, sempre composto, ma sempre in fibrillazione: attende qualcosa che lo faccia meravigliare… Lo vedo nei suoi occhi.
Regista
Uno spettacolo che sia veramente spettacolo… Ecco che cosa attende fondamentalmente il pubblico.
Direttore
Tutte le volte si deve compiere una specie di miracolo… E c’è solo una persona che può farlo: l’autore.
Autore
Eccomi qua!... Mi avete chiamato e io sono venuto… Ho sentito i vostri discorsi e vi dico che ci sono sicuramente due cose che possono strabiliare il pubblico e generare uno spettacolo che sia veramente spettacolo: la vita e la morte… Esse si escludono a vicenda, ma sono così vicine l’una all’altra che si confondono ed è impossibile scrivere dell’una senza tirare in ballo l’altra… Tutto ciò che avviene nel nostro stupido, vecchio mondo o è vita o è morte e a esse nessuno di noi può sottrarsi… Al pubblico piace che si mettano in scena, con tinte forti, questi due estremi, si emoziona nel veder vivere e morire, vive e muore lui stesso insieme ai personaggi e alle storie… E in tutti e due i casi si compiace, della vita come, forse o sicuramente anche di più, della morte.
Regista
Mi viene da pensare che il nostro autore sia un po’malato.
Direttore
Malato o sano, l’importante è che lo spettacolo funzioni.
Autore
Non ho ancora finito, signori… Non basta mettere in scena la vita e la morte… Occorre anche che il pubblico sia protagonista e non solo spettatore.
Regista
Vale a dire?
Direttore
Sentiamo adesso che cosa tira fuori il nostro autore!
Autore
Ogni spettatore vive, in ogni giorno della sua esistenza, il suo romanzo, la sua storia, la sua azione scenica anche se nella maggior parte dei casi non se ne avvede; sul palcoscenico, però, ogni suo pensiero, ogni sua emozione, ogni fatto della sua vita acquista una forma, una voce, dei movimenti; sul palcoscenico lo spettatore, finalmente, può osservarsi, può sentire la sua voce, può vedersi muovere, può, insomma, diventare protagonista pur rimanendo spettatore. E il protagonista, a teatro, è tale solamente quando è soltanto uno, quando domina la scena con la sua presenza, le sue parole, i suoi movimenti; esattamente come ogni uomo fa nella sua vita, arbitro della sua esistenza, del suo parlare, del suo muoversi
Regista
Allora sarà un buono spettacolo, questo.
Direttore
Avanti! Genio e Fortuna saranno, anzi sono con noi.
Uno spirito forte, un cuore tenero
Il monologo di Sophie Scholl
*Fu possibile in Germania resistere al nazismo? In ogni luogo la Gestapo, la polizia segreta del Terzo Reich, ebbe i suoi informatori; dal momento della presa di potere di Adolf Hitler ogni forma di opposizione venne sistematicamente neutralizzata; manifestazioni di protesta furono ben presto represse con la pena di morte preceduta da orribili torture e feroci rappresaglie contro i familiari. Pochi tedeschi ebbero il coraggio di opporsi al regime nazionalsocialista: tra questi, due giovani studenti di Monaco di Baviera, il ventiquattrenne Hans Scholl e sua sorella, la ventunenne Sophie Scholl, i quali dettero vita al movimento La Rosa Bianca, che, attraverso volantini e scritte antihitleriane tracciate sui muri di Monaco, invitava i tedeschi a una resistenza nonviolenta contro la dittatura. La Rosa Bianca fu però rapidamente sgominata e tutti i suoi membri si trovarono di fronte ai giudici nazisti. Appena dopo il processo, in cella, Sophie Scholl rifletté sulla sua scelta.*
Si può combattere un uomo malvagio che prende il potere, che esalta la bestialità che vive in ogni uomo e che celebra la morte come se fosse l’unica realtà degna di essere vissuta?
Si può lottare contro un regime dittatoriale che fa della violenza e dell’odio il suo pane quotidiano e la sua legge e del sopruso e del sangue il suo vanto e il suo emblema di vittoria?
Si può destare un popolo quando esso è immerso nel sonno profondo del male che gli ha contaminato la mente e il cuore e gli ha fatto perdere la dignità di appartenere al genere umano?
Io non so dare una risposta a queste domande… So però che io, Sophie Scholl, insieme a mio fratello Hans e ad altri pochissimi, l’ho fatto, l’abbiamo fatto. Ed è per questo motivo che io, che noi, oggi, siamo qui, fieri e felici.
Combattere un uomo malvagio… Combattere Adolf Hitler… Tutto ciò che egli dice è soltanto una menzogna orrenda; quando pronuncia la parola pace egli pensa alla guerra; quando, in modo sacrilego, invoca l’Onnipotente la sua mente corre in realtà al Maligno… Che cosa dire, di colui che oggi è a capo della Germania e che prima di diventarlo, accecato dalla bramosia del potere al punto da delirare, ha detto: «È incredibile come si debba ingannare e opprimere un popolo per poterlo governare!?» Per combattere Adolf Hitler bisogna, innanzitutto, rendersi conto e convincersi dell’esistenza di forze demoniache; la lotta contro Hitler non è soltanto una lotta contro un tiranno; è qualcosa di infinitamente peggiore, di innominabile: è una lotta contro una creatura bestiale che ha trasformato in virtù i peggiori istinti dell’essere umano… Untermenschen, i sottouomini. È così che Adolf Hitler indica gli appartenenti ai cosiddetti “popoli inferiori” cioè gli ebrei, gli zingari, gli slavi e i disabili; è un termine orrendo, mostruoso dietro il quale si cela la volontà, che è già un progetto effettivo messo in atto dal regime, di uccidere, di sterminare tutti coloro che Hitler stesso definisce con questa parola… Ma in realtà il vero, l’unico untermensch, l’unico sottouomo, è soltanto lui, Adolf Hitler… In ogni momento della storia i demoni hanno atteso in agguato che l’uomo diventasse debole per aggredirlo e sottometterlo. Ciò è accaduto anche nel nostro secolo, che avrebbe dovuto essere un tempo di luce, di progresso della civiltà europea e che invece è diventato un tempo di tenebre e resterà segnato per sempre dall’infamia… Chi sta contando i morti di questa guerra? Ogni giorno in Russia sono migliaia i tedeschi che cadono in battaglia e altrettanti quelli che in Germania muoiono sotto i bombardamenti… Ecco la vera missione, il solo fine di Adolf Hitler di cui egli è il gran sacerdote: la morte… Ho letto i versi di una poesia di un autore anonimo che dicevano:
È il tempo del raccolto e la falce passa con tutto il suo vigore sulla messe matura. Il dolore prende dimora nei caseggiati della nostra patria e non c’è alcuno che asciughi le lacrime delle madri…
Lottare contro un regime dittatoriale… Fin dall’inizio, il nazismo è apparso come una mostruosità fatta di cose orrende e blasfeme e volto a ingannare il prossimo: l’ostilità verso la democrazia, l’avversione profonda alla cultura, la menzogna eretta a verità, l’esaltazione della volontà prevaricatrice, la celebrazione della potenza dell’uomo come valore primario insieme al disprezzo per l’umanità suddivisa in una razza superiore dominante e in razze inferiori da eliminare… Questo è lo “Stato” in cui ci siamo ritrovati: “Stato” inteso proprio come stato di cose e come organizzazione di uomini… Io, però, so che l’essere umano è capace di raziocinio e ha la facoltà e il dovere morale di creare uno Stato che abbia come fondamento la giustizia e come obiettivi la libertà individuale e il bene comune. Da noi, invece, lo Stato è un’organizzazione di uomini che ha cancellato l’umanità, che si fonda sull’ingiustizia e che ha come fine la schiavitù di tutti e il bene di pochi… Progressivamente questa mostruosità, questo cancro velenoso e mortifero si è propagato in tutto il corpo: chi si opponeva è scomparso, le menti più fulgide si sono adombrate, ogni ostacolo è stato rimosso e loro hanno avuto la strada libera.
Eppure io so, con serena certezza, che noi tedeschi possiamo, se lo vogliamo veramente, trovarci uno di fronte all’altro, illuminarci a vicenda e riflettere senza darci tregua per poi incominciare a lottare contro la mostruosità che ci sta attorno; e attraverso il sacrificio e il dolore - è meglio una fine con orrore che un orrore senza fine! - vedremo sorgere la luce dal buio più profondo e potremo tornare a condurre una vita umana e dignitosa fondata, per prima cosa, sul rispetto della vita stessa, principio che il regime, invece, nega con forza; la pace e l’amore prenderanno il posto della violenza e dell’odio, la giustizia e il perdono si sostituiranno al sopruso e al sangue.
Destare un popolo… Che cos’è oggi il popolo tedesco? Goethe parlava dei tedeschi come di un popolo grande, tragico, simile agli ebrei e ai greci… Oggi, invece, esso assomiglia piuttosto a una mandria di seguaci del male, senza volontà, senza nerbo, senza essenza, pronti soltanto a farsi condurre alla catastrofe; è veramente indegno per un popolo civile - mi domando con angoscia se l’aggettivo civile sia ancora valido per i tedeschi! - farsi governare, senza opporre alcuna resistenza, da un gruppo di fanatici esaltati dominati dai loro istinti… Ciò che penso è terribile, ma corrisponde alla verità: il popolo tedesco al quale appartengo è già così corrotto, così deteriorato da non avere la capacità di riconoscere il bene, di decidere di se stesso, di intervenire con la ragione in ciò che accade, che merita davvero la rovina… Guai ai tedeschi quando verranno a conoscenza dei delitti enormi che sono stati commessi!
Eppure io sono convinta che ogni tedesco può ancora svegliarsi dal sonno del male in cui è piombato, può ancora usare la propria testa e il proprio cuore per rendersi conto di ciò che ha di fronte, può combattere questo male che lo ha soggiogato, può vergognarsi del suo governo e può ancora ritrovare la sua dignità, la sua umanità; l’anima di ogni tedesco è stata imprigionata con la violenza messa in atto tutti i giorni da questo regime e quei pochi che si sono accorti subito dell’ inganno hanno trovato immediatamente la morte.
E allora che cosa fare in concreto? O meglio che cosa devono realmente fare i tedeschi buoni e onesti, che hanno la responsabilità di appartenere alla civiltà cristiana e occidentale, ma anche la pesante corresponsabilità di essere stati complici passivi della barbarie nazista? Di certo hanno il diritto-dovere di opporsi a questa mostruosità con lo strumento della resistenza passiva: sabotaggio nelle industrie di guerra; sabotaggio di ogni manifestazione del partito; sabotaggio della macchina da guerra nazista; sabotaggio delle scuole e delle università monopolizzate dal regime; sabotaggio della cultura asservita alla dittatura… Ecco, ogni tedesco, che può ancora definirsi uomo civile e libero, deve avere uno spirito forte e un cuore tenero: uno spirito forte con cui resistere e combattere; un cuore tenero con cui illuminare la sua mente e guidare le sue azioni.
Voglio ricordare alcuni versi di Goethe… Li voglio citare come monito, come possibilità di salvezza per tutti i tedeschi affinché aprano gli occhi e possano cambiare strada:
Quello che audacemente è uscito fuori dall’abisso,
può per un ferreo destino
soggiogare metà della sfera terrestre,
ma ciò nonostante nell’abisso deve tornare.
Già minaccia un terribile timore:
egli invano cercherà di resistere!
E tutti coloro che a lui sono legati
dovranno perire con lui.
Che cosa accadrà dopo di me, dopo di noi? I tedeschi lotteranno contro il Male e riusciranno ad abbatterlo oppure ne saranno travolti insieme al resto dell’umanità?... La Vita, anche se a un prezzo elevatissimo, riuscirà a sconfiggere La Morte?... Non lo so. So però che io, Sophie Scholl, sono contenta della mia scelta e so anche che mi aspetta il patibolo. Ma non sto soffrendo, per questo… La mia sofferenza, la mia agonia sono quelle di tutto il popolo tedesco e di tutti gli altri popoli che sono stati condannati dal regime nazista a morire… L’uomo della Gestapo che mi ha torturato per quattro giorni, alla fine, mi ha domandato se non mi rammaricavo, se non trovavo spaventoso, se non mi sentivo colpevole per aver diffuso i volantini del gruppo e per aver aiutato i nemici del Reich mentre i nostri soldati combattevano a Stalingrado… A quell’uomo, insano e crudele, io ho subito risposto che ero convinta di aver fatto la cosa migliore per il mio popolo e per tutti gli uomini, che non mi pentivo di nulla e che mi assumevo la pena.
*Lunedì 22 febbraio 1943, ore tredici e trenta, Aula n. 216 del Tribunale del Popolo di Monaco di Baviera. Presidente della corte, giudice Roland Freisler; imputati: Hans Scholl, Sophie Scholl, Christoph Probst.*
**Accertato che:
gli accusati hanno, in tempo di guerra e per mezzo di volantini, incitato al sabotaggio dello sforzo bellico e degli armamenti e al rovesciamento dello stile di vita nazionalsocialista del nostro popolo, hanno propagandato idee disfattiste e hanno diffamato il Führer in modo assai volgare, prestando così aiuto al nemico del Reich e indebolendo la sicurezza armata della nazione. Per questi motivi essi devono essere puniti con la morte.**
Dopo lo spettacolo
Il monologo di un attore
*In un grande e famoso teatro lo spettacolo è finito. Le luci sono soffuse, il sipario abbassato per metà, non si ode il benché minimo rumore. Un uomo solo si aggira sul palcoscenico; si chiama Annibale. Settantacinquenne, attore di razza, acclamato da tutte le platee del mondo, con un repertorio che tende alla totalità, spaziando da Eschilo a Beckett, egli è solito fermarsi, dopo ogni spettacolo, sul palcoscenico, a pensare a voce alta su ciò che ha appena finito di interpretare.*
Tutte le volte che lo spettacolo finisce, la solita, maledetta domanda, che mi tormenta da tanti anni, da quando ho iniziato a fare l’attore, si fa strada nella mia mente implacabilmente, inesorabilmente: come è andata questa volta? Come avrò recitato questa sera? Avrò dato vita e umanità al mio personaggio? Oh, certamente! Il pubblico, come sempre, ha applaudito alla mia performance, in alcuni momenti, addirittura, mi ha osannato gridando: «Bravo Annibale!»… «Bravissimo!»… «Sei il più grande attore di teatro del mondo!»… Ma la risposta che io do alla mia domanda è sempre la stessa: “No, Annibale!”… “Non sei stato affatto bravo o bravissimo!”… “E non sei il più grande attore del mondo!”… “Non lo sei affatto”.
Forse potrei andare bene per una compagnia di dilettanti, di attori della domenica?!... Forse, in verità, nemmeno per quella… Di certo non vado bene per il teatro, quello con la t maiuscola, quello che è arte e di cui, tuttavia, faccio parte… Mi vengono in mente diverse cose, adesso!... La prima è il talento!... Quel talento naturale che tutti mi dicevano di avere quando mi vedevano recitare a scuola e che mi ha poi convinto a dedicarmi alla recitazione per tutta la vita!... La seconda è l’Accademia!... Tutte quelle discipline che ho studiato, con accanimento, all’Accademia - realtà comunque fondamentale per la formazione di un attore - che mi apparivano come delle verità assolute, come gli unici strumenti attraverso cui diventare un vero attore!... La terza è l’esperienza di questi cinquant’anni di teatro!... Le centinaia di repliche di decine e decine di spettacoli fatte qua e là per il mondo!... A cosa è servito tutto ciò? A fare di me uno che recita, uno famoso, una celebrità… Ma sicuramente non un attore.
Essere un attore… Già!... Un attore!... Che cosa vorrà mai significare essere un attore?!... Dovrei considerarmi pazzo, io che faccio questo lavoro, pormi una domanda del genere!... Attore: colui che interpreta un ruolo, che recita una parte e che, facendo così, si pone al centro dello spettacolo… Bisogna, però, vedere come viene interpretato questo ruolo, come si recita questa parte e come ci si pone al centro dello spettacolo… Presenza scenica: che bella espressione! Appartiene o dovrebbe appartenere a ogni attore, dal momento che essa indica tutte quelle tecniche che servono all’attore stesso per fare bene il suo lavoro: l’uso della voce, l’utilizzo della parola, il sapersi muovere, la mimica… E anche in questo caso bisogna vedere se questa voce è capace di farsi sentire, se questa parola è capace a comunicare, se questo sapersi muovere è appropriato, se questa mimica non è ridicola.
**All’improvviso Annibale tace. In quel preciso momento, come se fossero persone vive e non solo creature di fantasie geniali, gli appaiono davanti, scaturendo dal nulla e osservandolo nel silenzio, molti dei personaggi che egli ha interpretato in mezzo secolo di teatro: Promèteo, Antigone, Edipo re, Riccardo III, Amleto, Otello, Macbeth, Il malato immaginario, L’avaro, El Cid, Alessandro il Grande, Arlecchino, Faust, Wallenstein, Enrico IV, Estragone.**
O cari, carissimi amici!... Siete venuti… Speravo tanto che veniste a trovarmi, ad aiutarmi!... Aiutarmi a diventare un attore!... So che non potete parlarmi, ma mi basterà leggere nei vostri occhi per avere un consiglio, un sostegno… Ehh!… Mi state dicendo, nel silenzio, che io, Annibale, non sono un attore, pur essendolo... E questo perché fino a oggi ho soltanto recitato; sul palcoscenico ho detto cose che in realtà non pensavo e non sentivo, ma mi limitavo a mandare a memoria una parte; mi muovevo soltanto perché spinto dal ruolo che interpretavo; mi sono messo sul volto una maschera, circostanziale alla mia parte, per dare un volto al mio volto… Ecco come ho sempre interpretato il ruolo, come ho sempre recitato la parte, come mi sono posto al centro dello spettacolo… Ecco in che modo la mia voce è riuscita a farsi sentire, in che modo le mie parole hanno comunicato, come il mio corpo si è mosso, come è stata la mia mimica.
Recitare: non è forse proprio questa l’essenza del lavoro di attore? Sempre nei vostri occhi leggo, però, che l’essenza vera dell’attore, prima ancora di recitare, è quella di essere un uomo; se l’attore sarà capace di essere prima di tutto un uomo, allora sarà capace di essere veramente un attore e potrà anche recitare veramente.
Ora si fa strada nella mia mente un’altra domanda ancora: ma l’uomo non è, forse, anche lui soltanto un attore? Anche lui, forse, dice cose che in realtà non pensa e non sente, ma si limita a mandare a memoria una parte; anche lui si muove soltanto perché spinto dal ruolo che interpreta; anche lui si mette sul volto una maschera, circostanziale alla sua parte, per dare un volto al suo volto.
Con il vostro tacito aiuto so dare una risposta a questa domanda: ogni attore e ogni uomo recita la sua parte, a teatro o nella vita; ma questa parte, in realtà, non appartiene a nessuno dei due: non appartiene all’attore, per il quale è stata appositamente scritta, non appartiene all’uomo, al quale è stata data dalla forza delle cose; e mentre il primo si sforza di essere uomo per fare bene il suo lavoro di attore a teatro, il secondo diventa attore per fare bene la sua parte di uomo nella vita.
Il teatro e la vita - altra inevitabile domanda! - che cosa sono? Un grande del mio mondo ha detto che il Teatro non ha categoria, ma si occupa della vita. È il solo punto di partenza, l’unico veramente fondamentale. Il Teatro è la vita… È proprio vero che il teatro nasce dalla vita per diventare esso stesso vita e la vita si rigenera nel teatro per diventare essa stessa teatro; e in entrambi i casi c’è sempre “lui”: ora uomo per essere attore, ora attore per essere uomo; sempre e comunque per vivere il teatro e per vivere la vita.
Io parlo e mi muovo… Dispenso consigli, ma senza sapere… Mi atteggio a maestro di arte e di vita, ma non le conosco entrambe… Ehh!... Anche questa volta, in realtà, recito soltanto una parte, che non mi appartiene… Anche questa volta dico cose che, in realtà, non penso e non sento, ma mi limito a mandare a memoria una parte; anche questa volta mi muovo soltanto perché spinto dal ruolo che interpreto; anche questa volta mi metto sul volto una maschera, circostanziale a questa parte, per dare un volto al mio volto.
Mi si affaccia, all’improvviso, fredda, scarna e terribile la verità: io, Annibale, ho fallito… Sì!... Fallito!... A teatro e nella vita!... Non sono diventato, a teatro, un attore, benché lo sia, perché non sono stato capace di essere, prima, un uomo e non essendo attore non ho potuto nemmeno fare bene la mia parte di uomo nella vita… Teatro e vita, vita e teatro sono stati per me un bell’imbroglio: il primo non è diventato vita, pur avendolo calcato per anni e anni; la seconda non si è mai rinnovata attraverso il teatro, pur avendola vissuta per settantacinque anni trascorsi per la maggior parte sulle scene... E questa sera, su questo palcoscenico, luogo di tante amare riflessioni e diventato, infine, luogo di dolore, si conclude la vicenda di Annibale, “il più grande attore del mondo”.
**Le luci si spengono e i personaggi apparsi come per magia scompaiono nel nulla da cui sono venuti. Anche Annibale si allontana dalla scena. Pochi attimi dopo si ode un colpo di pistola. Poi il sipario cala del tutto.**
Da quell’ora il mondo non
sarebbe stato più lo stesso
Il monologo di Robert Oppenheimer
*Laboratorio di Los Alamos, nel deserto del Nuovo Messico. La seconda guerra mondiale è terminata da pochi anni. Un uomo solo, seduto a una scrivania coperta da carte e libri, ragiona a voce alta sugli ultimi avvenimenti di quell’immane tragedia, che ancora riecheggiano nel mondo: la bomba atomica, Hiroshima e Nagasaki.*
Promèteo rubò il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini. Il padre di tutti gli dei si adirò e fece inchiodare il corpo di Promèteo su un monte. E ogni giorno un’aquila gli divorava i lobi del fegato che di notte ricrescevano. Io ho donato all’umanità il fuoco atomico. I potenti della Terra lo hanno usato per fare il male e mi hanno punito quando li ho avvertiti. Ma il rimorso mi aveva già inchiodato e ogni giorno e ogni notte mi divorava il corpo, la mente e l’anima.
Ho avuto in dono dalla natura un’intelligenza straordinaria che ha fatto di me un genio della fisica e un grande organizzatore di uomini e di cose. Alcuni anni fa il Governo degli Stati Uniti d’America mi ha chiamato a dirigere il Progetto Manhattan; io ho accettato, mi sono circondato dei migliori fisici nucleari del mondo e ho dato vita al più importante gruppo di ricerca mai esistito in tutta la storia della scienza. Per fare cosa? Per uccidere e distruggere. Sì per uccidere e distruggere, in un modo nuovo, mai visto fino ad allora, un modo velocissimo ed efficacissimo, che spaventa anche chi lo mette in atto.
Lunedì 16 luglio 1945, in quella località sperduta del mondo, lontana dagli sguardi dell’umanità, è stato liberato il male più grande, più terribile e più crudele che si possa immaginare… La cosa peggiore è che nel profondo più sprofondato di me, io lo sapevo. Altrimenti non avrei mai chiamato quell’evento Trinity, come il sonetto del poeta inglese John Donne, non avrei mai avuto l’idea di denominare il mostro, che io stesso avevo fatto nascere, Dio a tre teste:
Martellami il cuore, Dio a tre teste,
che finora hai bussato, bisbigliato,
fatto luce e cercato di correggermi:
se vuoi che mi alzi e resti in piedi, abbattimi,
spezzami, bruciami, e rifammi nuovo.
Come città usurpata, a un altro debita,
brigo per farti entrare, inutilmente:
la ragione, che in me è il tuo viceré,
e dovrebbe aiutarmi, è prigioniera,
e si dimostra debole o fallace.
Eppure ti amo, e vorrei esser riamato,
ma sono promesso sposo al tuo nemico:
sciogli, spezza quel nodo tu, divorziami,
rapiscimi, imprigionami, perché
o mi fai schiavo o non sarò mai libero,
o mi violenti o non sarò mai casto.
Lo stupore di ciò che accadde quel giorno mi ha accompagnato per tutta la vita. Ricordo perfettamente le emozioni di quel momento. Nel silenzio tombale dell’alba di quel lunedì di luglio l’area del deserto chiamata Distesa del Morto fu immersa nel lampo violentissimo di una luce immensa che l’uomo, fino a quel momento, aveva visto soltanto nelle stelle… Tutti noi, allora, capimmo che da quell’ora il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Alcuni risero, altri piansero, la maggior parte rimase in silenzio. Improvvisamente mi tornò in mente un passo del poema indù Bhagavad Gita, quando Visnù sta cercando di convincere il principe a fare il suo dovere e per stupirlo gli appare una figura mostruosa dalle molteplici braccia dicendogli: «Ora io sono la Morte, la Distruttrice dei mondi.»
Poco più di tre settimane dopo, ad agosto, l’inferno creato dall’uomo scendeva dal cielo su due sventurate città del Giappone, le distruggeva totalmente, si portava via terribilmente con sé tanti innocenti, ne segnava atrocemente tanti altri per tutta la loro vita e risaliva di nuovo nel cielo aprendosi come il vessillo stesso della Morte. Non seppi che dire solo poche parole, pesanti e cariche di orrore: «Oggi la scienza ha conosciuto il peccato.» A Harry Truman, il Presidente degli Stati Uniti d’America, più tardi, non riuscii a trattenermi dal dirgli: «Le mie mani sono sporche di sangue.»
Dopo quei due giorni d’apocalisse iniziarono le riflessioni su ciò che era accaduto, le discussioni, la ricerca delle giustificazioni. Nella prima democrazia del mondo prevalse o si fece prevalere la convinzione che il mostro fosse servito per abbreviare la guerra di parecchi mesi risparmiando le vite di milioni di soldati e di civili, sia occidentali che giapponesi, destinati a perire nelle operazioni di terra e di aria e nella prevista invasione delle isole nipponiche; nel paese che subì l’orrore invece, il mostro venne considerato tale e il suo uso un crimine, un delitto imperdonabile; soprattutto perché al primo orrore ne seguì immediatamente un altro. E perdonare due volte credo che sia veramente difficile.
Ma non era finita… Anzi era appena iniziata la nuova epoca, all’insegna del terrore per il mostro, che è sempre più grande, sempre più potente… Qualche tempo dopo, seppi, con stupore e ribrezzo, che il Governo e i militari degli Stati Uniti stavano pensando di dotarsi di un’arma settecentocinquanta volte più potente di quella che già avevano; allora urlai con tutto il fiato che avevo in corpo: «Quello che voi volete non risolverà nessun problema strategico, ma abbasserà il livello etico di una nazione che fino a qualche anno fa ha lottato per la libertà; voi volete un’arma di distruzione di massa, lo strumento per compiere il genocidio dell’umanità.» Ma fu tutto inutile. Ormai il fuoco atomico era nelle mani degli uomini che decidevano il destino del mondo e a me rimaneva soltanto il rimorso di averglielo donato e di aver messo così il mondo, l’umanità intera dinanzi alla possibilità, al pericolo mortale della distruzione. O meglio dell’autodistruzione.
Eppure… Eppure io, oggi, credo, anzi sono sicuro, proprio perché da quell’ora il mondo non è stato più lo stesso, proprio perché siamo in un’epoca che potrebbe essere anche l’ultima per il mondo intero, che noi possiamo fare qualcosa per… Per salvare tutti noi, per salvare il mondo, per salvare l’umanità… E mi domando, con angoscia terribile, ma anche con grande curiosità, quella stessa curiosità che è così fondamentale nel lavoro dello scienziato, in che cosa consista questo qualcosa.
Ebbene, io sono convinto che il mondo della scienza, al quale appartengo, debba aver presente in maniera chiara l’idea del progresso, idea che deve molto allo sviluppo della scienza stessa, e che deve essere rivolta unicamente alla comprensione della realtà, alla ricerca del bene, alla crescita dell’uomo; in secondo luogo, perché ciò accada, è necessario che anche il mondo della politica abbia presente, in modo altrettanto chiaro, questa idea di progresso che deve essere indirizzata al superamento dei conflitti, alla gestione delle risorse, al miglioramento delle condizioni di vita.
La scienza dà forma alla vita dell’uomo, al mondo, alla storia medesima… La scienza, con l’obiettivo di raggiungere esclusivamente il bene, sempre più dovrà costringere gli uomini di potere a fare soltanto certe mosse e non altre - e questi signori sanno benissimo che cosa intendo dire! - sulla scacchiera dove si decide il destino di tutti; nello stesso tempo essa dovrà educare l’umanità ad amare e non a odiare, a costruire e non a distruggere, a salvare e non ad annientare… La scienza dovrà essere soltanto sapere per la vita e mai più sapere per la morte.
Oggi, però, il mio cuore è triste… Anche gli scienziati hanno un cuore e non solo una mente piena di pensieri freddi, di numeri e di formule... È triste perché, nonostante tutto, l’essere a cui questo cuore appartiene ha generato il mostro; è triste per l’orrore innominabile, indescrivibile che è accaduto; è triste perché non è riuscito a impedire che questo orrore accadesse... Soprattutto è triste perché il mondo, tutto il mondo, è su un patibolo e sta soffrendo nel silenzio e nella paura… Mentre l’uomo, proprio come un romanziere italiano, forse con perversa fantasia, forse con profetica inconsapevolezza, aveva già scritto diversi anni prima, è pronto, in ogni momento, a diventare il suo implacabile carnefice (apre un libro e legge):
Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psicoanalisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. E un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
Antonio e Wolfgang: la “vera” storia di un delitto
Il monologo di Antonio Salieri - Variazione
sul Mozart e Salieri di Aleksandr Puškin
*Vienna, 7 maggio 1825. In una camera semibuia del Manicomio Cittadino, un vecchio sta suonando delle brevi melodie al pianoforte. Ogni tanto si interrompe per sorseggiare del vino da un bicchiere che tiene a portata di mano, riprendendo poi a suonare, ogni volta con maggiore intensità. Di colpo le sue mani cessano di scorrere sulla tastiera, alza lo sguardo, socchiude gli occhi, li riapre con un battito repentino e comincia a parlare.*
Si sa… Tra la storia e la leggenda vince la leggenda perché la leggenda è sempre, comunque, più bella e ti coinvolge di più rispetto alla storia, alla realtà; tra l’essere e l’apparire si preferisce apparire, perché l’apparire soddisfa ogni vanità colmandoti di quel niente che ti sembra tutto; tra la verità e la menzogna prevale o si sceglie, spesso, la seconda perché fa meno male ed è anche comoda.
Ecco, la mia vita, la vita di Antonio Salieri, compositore italiano di musica lirica, sacra e strumentale, è tutto ciò: storia e leggenda, essere e apparire, verità e menzogna… Sì! Antonio Salieri di Legnago… Sono stato un musicista famoso, acclamato in tutta l’Europa del mio tempo, autore di opere che ho scritto secondo lo stile detto all’italiana, componendo prima la musica poi le parole e non viceversa come era consuetudine fino a quel momento: Armida… La scuola de’ gelosi… Les Danaïdes… La grotta di Trofonio… Palmira, Regina di Persia… L’Europa riconosciuta, quest’ultima commissionatami dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria per inaugurare, a Milano, il nuovo Teatro alla Scala… Ho composto anche brani strumentali, come il Concerto per flauto, oboe e orchestra che riscosse un successo strepitoso e sono stato insegnante: ho avuto come allievi i figli di Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven, Franz Schubert, Ferenc Listz.
Mozart!… Sempre lui!... Ecco quello che, più di tutto, mi fa veramente rabbia: che Antonio Salieri sia ricordato soltanto perché… Perché… Perché ha avvelenato Wolfgang Amadeus Mozart!... Questo è quello che si diceva e si dice tuttora… E questo è ciò che il mondo, oggi, ha finito per credere e che continuerà a credere se qualcuno, e questo qualcuno non posso che essere io, non gli dirà come sono andate veramente le cose.
Saranno stati gli anni attorno al 1790. Mozart aveva composto il Don Giovanni, Così fan tutte, Il flauto magico e poi ancora sinfonie, concerti, pezzi per pianoforte, musica da camera. Proprio in quel periodo mi accusò di plagio e di attentare alla sua vita, cose assolutamente infondate e di certo inventate di sana pianta da quell’individuo solo perché, tempo prima, l’incarico di insegnante di musica della principessa del Württemberg era stato assegnato a me e non a lui. Non solo. Quando poi le sue ultime opere liriche debuttarono con insuccesso, mi accusò nuovamente, questa volta di averne boicottato la messa in scena e l’esecuzione. Da qui all’accusa più grave, quella dell’avvelenamento, il passo fu piuttosto facile; di certo inventò e fece diffondere la celebre e famigerata storiella dello sconosciuto mascherato vestito di nero, che sarei poi stato io, che gli commissiona una messa da morto, messaggio e anticipazione di quello che gli sarebbe successo poco dopo e che, effettivamente, gli accadde, ma soltanto perché quello era il suo destino.
**All’improvviso Salieri lancia un urlo e si contorce premendo con le mani sullo stomaco. Pochi attimi dopo si accascia sul pavimento mentre un’ombra, accompagnata da una musica, compare nella camera: ombra e musica che Salieri riconosce subito con terrore.**
Che mi succede?!... Ahh!... Veleno!... C’è del veleno nel bicchiere… E io l’ho bevuto!… Quest’ombra!… Questa musica!… Ahh!... Mozart!!!... E… Queste note… È l’inizio del tuo Requiem… Ora… Ora è tutto chiaro… Ah, Mozart!... Wolfgang Amadeus Mozart!... Sei tornato dall’oltretomba e hai avvelenato il mio vino per portare a compimento il tuo piano… Che tu sia maledetto!... Hai fatto credere a tutti che io, Antonio Salieri, ti avessi ucciso spargendo poi la voce che ero invidioso di te… Io, il grande Antonio Salieri, a 19 anni direttore d’orchestra, a 24 compositore di corte, a 28 maestro di cappella presso gli Asburgo d’Austria, autore di 39 opere liriche di grande successo, festeggiato solennemente da tutta Vienna per il suo mezzo secolo di attività musicale, invidioso di te?... Che cosa avrei potuto chiedere di più alla vita o desiderare da essa?… È stato esattamente il contrario: tu eri l’invidioso e non io!... Talmente roso dall’invidia da tornare, orrendo fantasma, nel mondo dei vivi per uccidermi non avendolo potuto fare da vivo!... Certo, tu sei apparso ai contemporanei e soprattutto ai posteri come vittima geniale e martire della vera arte musicale, io come volgare assassino nonché emblema della musica artigianale. Ahh!... Il veleno che mi hai messo nel vino sta devastando il mio corpo, ma non riuscirà a farmi tacere… Parlerò, urlerò se sarà necessario anche se nessuno potrà sentire la mia voce, le mie urla!
Ahh!... Sto morendo!... Questa camera sta diventando la mia tomba, ma negli spasimi della lotta contro la morte dirò lo stesso tutto quello che devo dire… Lo sai… Lo sai, caro Mozart, perché io ho avuto successo? Perché io sono stato, e lo sono anche adesso che sto morendo, un vero artista, un uomo che ha studiato, che ha sofferto, che ha conquistato e creato la sua arte attraverso il sacrificio, l’impegno, la pazienza e la dedizione; e con questa arte ha valorizzato la sua stessa vita… Tu, invece, non hai dato nessun apporto all’arte, sei stato schiavo della tua immagine di enfant prodige, di autore ispirato dal cielo, imbelle di fronte alla tua foga creatrice, dinanzi alla tua ispirazione così scostante e così capricciosa, incapace di provare null’altro se non la gioia e la disperazione.
Mozart!… Io sono nato con l’amore per l’arte; da bambino mi emozionavo immensamente quando suonava l’organo della vecchia chiesa al punto da piangere; ero giovanissimo quando rifiutai tutti i divertimenti che rendevano piacevole la mia età e mi consacrai interamente alla musica, respingendo nello stesso tempo tutte le altre scienze… Studiai a fondo i suoni e le leggi che li governano, disciplinai le mie dita a cui detti un’agilità dolce e precisa, infine, consapevole delle mie conoscenze, mi dedicai alla creazione… In silenzio, in gran segreto, senza pensare alla gloria… E alla fine riuscii… Riuscii a creare musica che fece breccia nel cuore degli uomini, che mi procurò la gloria, che mi dette la felicità… Non sono mai stato invidioso, io!… Mai!
Ecco! Ora tu, Wolfgang Amadeus Mozart, stai uccidendo Antonio Salieri con il veleno, proprio con quello stesso veleno che tutti credono io abbia usato per uccidere te… Ahh!... Sento la vita sfuggirmi… Lo sento… Sei proprio un essere malvagio!... La tua esistenza dissoluta, le tue malattie, il tuo stesso folle genio che ha finito per travolgerti, ti hanno impedito di ammazzarmi quando ero vivo, ma poi solo in parte poiché l’infamia di un gesto attribuitomi, che io in realtà non ho mai commesso, mi ha accompagnato per anni e anni uccidendomi poco alla volta; addirittura componesti un Requiem, che tutti credono che tu abbia scritto per te stesso, sebbene in realtà fosse destinato a me… E ora che sei morto stai riuscendo nel tuo intento, ben sapendo che nessuno verrà mai a saperlo e che se anche riuscissi a rivelarlo nessuno mi crederebbe e tutti mi darebbero del folle e del bugiardo.
E pensare… Pensare che tu, una volta, mi hai detto che il genio e il crimine sono cose incompatibili, che un artista vero non può avere pensieri nefasti, perché la sua mente è portata alla creazione e non alla distruzione, a far nascere e non a uccidere… Allora… Allora, Mozart - tu stesso lo hai affermato! - io, Antonio Salieri, che in realtà non ti ho ucciso, sono - ovviamente non solo per questo! - un creatore, un artista vero… E tu, che tutti ti considerano un grandissimo della musica, tu, invece, che hai il coraggio di uccidermi con questo orrendo veleno, non sei in realtà un artista, non sei un genio… E ciò per tua stessa ammissione!
Ma è tutto inutile!… Tutto inutile, ormai… Ecco, la mia vita, sta finendo… Sta finendo come quella di un condannato a morte perché io, Antonio Salieri, sono stato condannato a morte da quel maledetto essere di nome Mozart, mandante dell’assassinio e insieme assassino di un vero artista… Non posso fare nulla per cambiare la mia sorte, se non dire, in questi ultimi minuti che mi sono rimasti, con una amarezza più mortale della stessa morte che mi sta prendendo, che la leggenda è diventata storia, che apparire equivale a essere e che la menzogna è uguale alla verità. Nulla di più.
Una croce in più
Il monologo di Ponzio Pilato
*Un uomo di mezza età, in abiti da antico romano, si affaccia alla finestra del salone di una villa patrizia sperduta tra i monti, fissando ora il cielo ora la terra e mormorando, di tanto in tanto, alcune brevi parole. Poi inizia a camminare avanti e indietro per il salone, a piccoli passi, gesticolando e parlando a voce alta.*
C’è chi entra nella storia per aver preso qualche decisione importante che ha mutato, in meglio o in peggio, il corso degli eventi; c’è anche chi vi entra per non aver preso nessuna decisione perché anche non decidere è una decisione che, paradossalmente, cambia il mondo o una parte di esso, magari soltanto con un piccolo, ma importante gesto: io, Ponzio Pilato, sono uno di quelli.
Per dieci anni sono stato prefetto della provincia romana della Giudea, che ho cercato in tutti i modi di rinnovare dando impulso al commercio, facendo costruire un acquedotto, combattendo le bande violente di predoni. Per meglio governarla ho trasferito la capitale da Cesarea a Gerusalemme, ma è stato quasi tutto inutile… Una terra strana la Giudea, abitata da gente strana nella quale ogni giorno nascevano profeti e ciarlatani fanatici le cui parole avevano sempre un seguito. Anche nel caso di un predicatore originario di Nazareth di nome Gesù… Sì perché anche Gesù di Nazareth era uno dei tanti: almeno fino a quando quest’uomo non ebbe la sventurata idea - per lui, ma anche per me - di venire a Gerusalemme, cuore del potere locale di Roma, dove si proclamò re dei Giudei e dove tenne un discorso, singolare e pericoloso: non tanto per me, ma, forse e comunque solo in parte, per quello che io rappresentavo, vale a dire l’autorità del nostro imperatore, soprattutto per il Sinedrio, l’organo gestito dalla gente del luogo con il compito di fare le leggi, amministrare la giustizia e risolvere le beghe interne. Il Sinedrio si allarmò subito perché Gesù di Nazareth, con le sue parole, toccava non solo il potere che esso rappresentava e il popolo che governava, ma la cosa che la Giudea aveva più a cuore: la sua religione. Io, invece, romano, non riuscivo assolutamente a vedere questo aspetto; vedevo solamente un cittadino che propugnava liberamente le sue idee e, come tale, doveva essere sorvegliato da vicino, corretto, ma non punito poiché libero cittadino, men che meno con la morte. Roma, la grande Roma padrona del mondo, a differenza di quanto si crede, è sempre stata molto restia a comminare la pena di morte, se non in casi di estrema gravità. Anche di fronte a pericoli gravissimi: mi viene in mente Cicerone che nelle sue Catilinarie non chiede mai la pena di morte per Catilina, anche se poi, nei fatti, contribuì politicamente alla sua eliminazione; e Catilina era pericolosissimo per le sorti della Repubblica Romana.
Quante cose esagerate e false sono state dette su Roma!... Roma ha fatto certamente le guerre - è un dato innegabile della Storia! - ha conquistato il mondo, ma sempre con stile, portando ovunque la sua civiltà... Man mano che ha conquistato nuove regioni ha esteso la sua efficiente amministrazione civile, le sue leggi rigorose, ha preteso tributi in denaro e reclutato truppe da aggregare ai suoi eserciti; tuttavia, con grande intelligenza, non è mai intervenuta nei costumi e nelle credenze religiose dei popoli sottomessi e ciò per un senso molto radicato di democrazia e perché ha sempre saputo, chiaramente, che non c’è nulla di più pericoloso che interferire nella religione e nelle tradizioni secolari delle genti… E i popoli conquistati da Roma ne hanno accettato il dominio perché portatore di benefici economici, perché gli eserciti romani ne difendevano i territori dalle invasioni dei popoli vicini e perché il dominio di Roma non ha mai alterato pienamente la loro identità. Anche la Giudea è stata conquistata e governata con questi criteri.
In quella terra lontana, però, apparve un uomo, questo Gesù di Nazareth, che creò un caso diverso da tutti gli altri. Il Sinedrio aveva deciso di farlo tacere. Se ben ricordo gli furono rivolte parecchie accuse: di aver attaccato, definendoli ipocriti e chiamandoli “ciechi guide di ciechi”, “serpenti e razza di vipere” i farisei, che rappresentavano le autorità religiose legate alle sinagoghe, presenti soprattutto nelle zone lontane da Gerusalemme; di aver messo sullo stesso piano dei farisei anche i sadducei, i sacerdoti che gestivano il culto e gli affari del Tempio di Gerusalemme; di aver violato il precetto del riposo nel giorno di sabato, atteggiamento che gli attirò le critiche dei giudei; di aver dato vita a un movimento che avrebbe alterato i rapporti tra gli ebrei e noi romani; di essersi proclamato Messia e di essersi considerato alla stregua del loro Dio; quest’ultima accusa la più grave: bestemmia.
Far tacere quell’uomo. Ma in che modo?... Il Sinedrio non esercitava il diritto di condannare a morte; lo ius gladii spettava solo all’autorità romana. Ed ecco che quei “signori” ebbero l’idea di accusarlo davanti a me, a Ponzio Pilato, prefetto della provincia romana della Giudea, aggiungendo alle accuse di carattere religioso l’accusa di attentato al potere di Roma… Mi dissero che sobillava il popolo, che impediva di versare i tributi a Cesare, che affermava di essere, a suo modo, un re… Ricordo ancora, benché sia passato molto tempo, il momento in cui mi trovai dinanzi quell’uomo, quando lo interrogai. Gli domandai: «Sei tu il re dei Giudei?» Lui mi rispose: «Tu lo dici, io lo sono.» Al sentire queste parole trasalii, ma lui aggiunse subito: «Il mio regno non è di questo mondo.» E allora capii.
Io non volevo la morte di quell’uomo. Mi ricordo anche che mia moglie Claudia Procula mi mandò a dire: «Cerca di evitare quell’uomo, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua…» In verità ho cercato di liberarlo ricorrendo all’applicazione del cosiddetto “privilegio pasquale”, così sentito tra quella gente che però, tra lui e quell’altro tale Barabba, scelse quest’ultimo; l’ho fatto flagellare, questo è vero, ma solo come punizione alternativa alla condanna a morte per crocifissione. Poi la situazione è precipitata: la folla, infinitamente più numerosa delle altre volte, era a un passo dal tumulto e la guarnigione di cui disponevo si sarebbe trovata in grosse difficoltà; bisognava calmare, con un provvedimento esemplare, tutti gli altri predicatori che circolavano liberamente e che avrebbero generato situazioni uguali o forse peggiori; dovetti, nel pieno rispetto della legge di Roma che ero rigorosamente tenuto ad applicare, avere riguardo delle usanze e delle credenze dei giudei, che pure detestavo profondamente; ed è per tutto questo che dissi, lavandomi le mani: «Non sono responsabile di questo sangue… Vedetevela voi.»
Senza aver deciso nulla, ho deciso della vita di un uomo… E di tutto quello che è venuto dopo… Per opera sua… E in quel momento, ho deciso anche della mia vita… Alcuni giorni dopo l’esecuzione, si sparse la voce che il giustiziato era risorto, come sembra che lui stesso avesse detto, dal momento che la sua tomba era stata trovata vuota. Ordinai ai miei uomini di andare alla ricerca del cadavere, ma invano. Mi ricordai allora il nome di una donna del popolo, una certa Maria di Magdala, che uno dei nostri informatori mi aveva anzitempo rivelato. Trovai questa donna in un luogo orribile, in mezzo a moribondi, lebbrosi, storpi e le chiesi dove fosse il corpo del Gesù. Mi rispose che l’uomo di Nazareth era con lei e che lo stava servendo in tutti quegli esseri miserabili che le stavano attorno.
**Alcuni legionari entrano nel salone della villa. A uno di loro, un ufficiale, Pilato consegna una piccola pergamena arrotolata. Subito dopo i legionari se ne vanno.**
Sono molto stanco, stanco di portare, da così tanto tempo, questo patibolo nel cuore e nella mente e di soffrire per aver condannato a morte, pur senza aver pronunciato nessuna sentenza, un uomo che non era colpevole; per aver avuto paura di una folla che era mio compito contenere; per aver voluto dare un esempio di forza e di potere nel modo sbagliato; per aver, stoltamente, rispettato gli usi locali; soprattutto per essermi lavato le mani non nell’acqua, ma nel sangue di un innocente... Leggendo il mio messaggio l’imperatore comprenderà in quale condizione mi trovo e capirà perché, nonostante che la legge dell’Impero non lo preveda per un cittadino romano, desidero che un patibolo vero venga innalzato per porre fine al mio dolore: anche io voglio morire su una croce... Proprio come ha fatto Lui.
Tutto è permesso, tranne l’umanità
Il monologo di un soldato
*È in corso una guerra. Due eserciti, uno all’offensiva, l’altro sulla difensiva, stanno lottando accanitamente per il possesso di una città. Micol ha ventiquattro anni e fa parte di un reparto di fanteria delle truppe assedianti. Due terzi dei suoi commilitoni sono già morti oppure giacciono feriti o mutilati negli ospedali da campo, dietro la linea del fronte. Le sue parole, pronunciate in un momento di pausa dei combattimenti, in mezzo alle macerie di una casa, sono dure, ma sincere; sono parole di ghiaccio che il sole non potrà mai sciogliere, né il vento disperdere.*
Dio mio, Dio mio perché ci hai abbandonato?... Questa città non è più una città… Di giorno è una gigantesca nuvola di fumo nero e grigio che acceca e soffoca, di notte un’immensa fornace rossa e gialla illuminata dalle fiamme... Attorno a noi non ci sono che palazzi squarciati, case incenerite, ciminiere tranciate e brunite, strade sconvolte e giardini arati dalle esplosioni… Tutti immaginiamo la guerra come un avanzare di armate che si fronteggiano, con lo scopo di conquistare grandi obiettivi, su spazi ampi, all’aria aperta, una di fronte all’altra, con i soldati e i carri armati che vanno all’attacco, i cannoni che bombardano le linee nemiche, gli aerei che volano bassi mitragliando e lanciando i loro ordigni… No!... Niente di tutto questo!… Qui la guerra è un’altra cosa… Qui si combatte con le facce nere di sudore impastato di polvere, le divise luride e logore, le razioni di cibo ridotte, senza interruzione, dal mattino alla sera, per giorni e giorni, con accanimento, con una ferocia bestiale, oltre l’ultimo sangue per il possesso di una casa diroccata, di una cantina, di una torre dell’acquedotto, di un pezzo di strada o di binario ferroviario... La battaglia per il controllo di questa città è una mischia stretta e caotica, con colpi di fucile e sventagliate di mitra sparati a bruciapelo, raffiche di mitragliatrice e cannonate tirate a distanza ravvicinata, lanci di bombe a mano, combattimenti corpo a corpo con baionette e pugnali… Chi non ha più le armi usa le pietre, le mani o con i denti azzanna il nemico alla gola… Nessuno si arrende, nessuno vuole arrendersi… Qui il fronte è così sottile che neppure esiste… L’avversario lo abbiamo sempre davanti a pochi metri di distanza, lo sentiamo respirare, se vogliamo possiamo anche parlargli… Conquistare o riconquistare una casa o una strada è un’impresa che costa, sia a noi che a loro, sempre tante vite e una volta portata a termine tutto inizia da capo non una sola, ma altre cento, mille volte: il nemico ti spara all’impazzata dall’edificio posto di fronte, ti sbuca come una talpa dalle fogne o dalle cantine, ti fa irruzione dalle soffitte, ti assale alle spalle sparandoti o sgozzandoti…. E quando non ci saranno più munizioni, carburante, cibo e uomini in divisa da uccidere chi avrà vinto tutto potrà celebrare, meno la vittoria.
Questa non è più una città, ma una necropoli e noi ne stiamo diventando, ogni minuto che passa, i suoi abitanti… Una città di cui io, come tutti i miei compagni d’armi, ignoravamo l’esistenza, un posto lontano mille chilometri dalle nostre case - ecco l’unica consolazione, che la guerra non è da noi! - una distanza immensa che abbiamo fatto per venire qui, per uccidere e per farci uccidere… Siamo all’inferno… L’inferno dei vivi che sta evocando dentro ciascuno di noi le capacità più efferate di distruggere, anche quelle che credevamo giacessero sepolte per sempre nei ricordi delle epoche più selvagge e più lontane… Tutti noi abbiamo in mano armi micidiali, siamo stati addestrati per combattere, sappiamo che dobbiamo annientare il nemico e siamo determinati a farlo, eppure abbiamo tutti paura… Paura non solo di soffrire, di morire, ma paura perché siamo capaci di cose orribili, perché siamo soggiogati dal riemergere di demoni che credevamo ormai ricacciati negli abissi del tempo… Demoni che, invece, si aggirano nel mondo e che soprattutto sentiamo dentro di noi e che ci hanno derubato dell’uso della ragione e del cuore.
Che cos’altro dire di questa guerra, di questa battaglia?... Non lo so proprio… Mi viene in mente quello che ci hanno insegnato prima di venire qui, le nozioni di organica militare, di strategia, di tattica, di logistica, che la realtà ha annullato quasi subito… Soprattutto mi torna in mente quello che è il primo comandamento per un soldato, tenere alta la bandiera, cosa che in tempo di pace è facilissimo, in tempo di guerra difficilissimo, direi quasi impossibile… Prima di partire era tutto così bello, così epico; era perfino piacevole fare le esercitazioni, sembrava quasi di essere tornati bambini, quando si giocava alla guerra… E ci sembrava che la nostra vita avesse un significato, un valore soltanto in relazione al fatto di essere soldati. “Ecco - pensava ognuno di noi - ho trovato la strada giusta, la mia dimensione, nella mia vita mi sto realizzando e sono contento”… Ci siamo invece ritrovati a dover marciare su comando, a sparare su comando, a soffrire su comando, a morire su comando in un mare di fango e letame mescolati a macerie fumanti, sangue e carne che marcisce. Se non sbaglio la morte avrebbe dovuto essere eroica, entusiasmante, perfino bella. In realtà, in questa città, in questa battaglia, che cos’è la morte se non un semplice crepare, un fatto puramente biologico come mangiare e bere?… I miei compagni sono caduti a decine, gridando per il dolore, invocando aiuto o pronunciando le parole mamma o papà o il nome della persona amata… Nessuno pensa a loro, nessuno li seppellisce… Giacciono dappertutto, con la testa fracassata, senza naso, senza occhi, senza braccia, senza gambe, con il petto o il ventre squarciati… Questa è la morte, una cosa orrenda che nei teatri, nelle piazze e nei cimiteri verrà celebrata proprio dalla gente che ci ha mandati qui, in questa città, a morire e che dopo bei discorsi farà innalzare monumenti e posare lapidi in nostra memoria… Ma, in realtà, appena si muore si è subito dimenticati.
Dimenticare! Ecco la cosa che non si dovrebbe mai fare, ma che tutti hanno sempre fatto… Ricordare è terribile, dimenticare è più facile… Ma questa città non si può dimenticare: non si possono dimenticare i morti, le urla dei feriti, le distruzioni, il sibilare delle bombe, il crepitare delle mitragliatrici, il tuonare dei cannoni… Saranno ricordi che chi sopravvivrà questo macello serberà sempre nella mente e nel cuore, lo accompagneranno per tutto il resto della sua vita, riaffioreranno come incubi spaventosi nelle sue notti insonni… E quando qualcuno gli chiederà di raccontare gli orrori che ha visto e vissuto non sarà per nulla fiero e orgoglioso di farlo e ciò sarà come riaprire una ferita dolorosissima, mai rimarginata.
Una lotta di sangue umano, una realtà dove tutto è irrazionale, dove anche i ragionamenti più semplici diventano completamente illogici: ecco cosa sono questa battaglia, questa guerra… Talvolta la parola nemico perde il senso del suo significato e capisco che di fronte alla morte siamo tutti uguali, siamo tutti uomini prima ancora che soldati e che tutti apparteniamo, come uomini e come soldati, a un unico mondo, quello degli uomini e dei soldati, dove ciascuno di noi, come mi ha confidato un veterano, «Cerca il cuore degli amici tra la truppa dispersa.» È questo un pensiero che non mi era mai venuto in mente, ma quando il confine tra la vita e la morte diventa labile, quasi inesistente, anche un pensiero del genere non appare poi tanto strano.
Eppure anche questa città, questa battaglia, questa guerra, ne sono sicuro, verranno dimenticate: non da chi ha subito la tragedia, ma da chi verrà dopo… C’è una massima, molto antica, che dice: la storia è maestra di vita, insegna all’uomo tante cose… Ebbene, io dico che se la storia è maestra di vita, l’uomo è sempre stato un cattivo allievo che non ha mai voluto imparare nulla e che ha finito sempre per ripetere nella sua millenaria storia gli stessi errori… Quante guerre sono state combattute dall’antichità fino a oggi, quante se ne stanno combattendo e quante ne saranno ancora combattute da oggi in poi?... Quanti giovani come me sono morti, stanno morendo e quanti altri dovranno subire la stessa sorte? C’è poi un pensiero, che forse più di tutto, più dell’orrore quotidiano che ci circonda, più della stessa morte, mi tormenta: è il pensiero di Dio… Io, Dio, l’ho cercato in questa città… L’ho cercato in ogni casa distrutta, in ogni buca, in ogni commilitone, ma Lui non c’era… Ho gridato a Lui il mio dolore, la mia disperazione con tutta la voce, la mente, il cuore, ma Lui non si è mostrato… Se mai Dio dovesse esistere egli esiste altrove, nei Vangeli, nelle messe, nelle statue, nei dipinti, nelle vetrate delle chiese… Ma qui Dio non c’è... È morto anche Lui come è morta e sta ancora morendo la Vita.
In questa città siamo tutti carnefici, spettatori della morte e vittime… Ognuno uccide, vede morire e muore; ognuno sta vivendo il suo supplizio e il suo tormento. Il destino di ognuno è esattamente uguale a tutti gli altri, amici o nemici non fa nessuna differenza… Due giorni fa con il lanciafiamme ho bruciato vivo un ragazzo come me che si era avvicinato alla mia postazione. Quando mi sono accostato a ciò che rimaneva di lui, stava agonizzando atrocemente. Ho impugnato la pistola e gli ho sparato mentre piangevo. E sono notti che piango pensando a quel ragazzo da me assassinato… Qui tutto è consentito: vivere, ma solo per morire, ammazzare e farsi ammazzare, uccidere un ferito se è un nemico o soccorrerlo se ha la tua stessa divisa per poi, magari, finirlo lo stesso per non vederlo più soffrire o anche abbandonarlo perché intralcia, distruggere cose, ridere addirittura, piangere, pregare, bestemmiare, masturbarsi, fottere una donna, disperarsi, suicidarsi… Tutto ciò e tanto altro ancora è permesso… Soltanto una cosa non lo è: l’umanità… No!... Quella non è davvero permessa!… Ed è per questo, soltanto per questo motivo, non per le bombe, che nessuno di noi, di tutti noi, commilitoni e nemici, ritornerà.
*[…] né un atto di accusa né una confessione.
[…] il tentativo di raffigurare una generazione
la quale - anche se sfuggì alle granate -
venne distrutta dalla guerra.*
Il corpo di una donna,
l’anima di mille uomini
Il monologo di Valeria Messalina
*Roma, 48 d.C. Una giovane donna, spaventata, corre silenziosa negli Horti Luculliani. D’un tratto, nonostante il terrore che l’attanaglia, si ferma a contemplare l’alba che, poco a poco, sorge, parlando tra sé e sé.*
Tutti mi chiamano in tanti modi e in tanti modi mi faccio chiamare. E questo, fondamentalmente, perché io sono solo un’attrice, che però non porta nessun’altra maschera se non quella che la natura le ha donato e che non recita nessun’altra parte se non quella che, per volontà del destino, si è data; e la grande Roma, dove tutti non sono nient’altro che attori, è il suo teatro… Come ogni attrice anch’io fingo, ma la mia parte, a differenza di quella degli altri, mi impone di essere autenticamente, sempre e soltanto, me stessa: una donna, un’amante, una meretrice… Valeria Messalina.
Essere Messalina significa ridurre ogni desiderio della vita, anche l’amore!, a un semplice, ripetuto commercio del corpo e dei sensi dal quale scaturisce la felicità; per me ogni momento di gioia nasce dal successo di seduzioni continue e prosegue nella vertigine del rinnovamento infinito del piacere… Io adoro violare le regole e abbandonarmi liberamente agli slanci della natura… Ohh! Che cose noiose la calma di tutti i giorni, l’armonia della famiglia, la fedeltà coniugale… E che cose eccitanti la trasgressione quotidiana, il tradimento del matrimonio, il dolce tormento delle alcove!
Sono nata in una famiglia patrizia, imparentata con l’uomo più potente del mondo, l’imperatore di Roma. Avevo solo quindici anni quando, per volontà del cesare Caligola ho dovuto sposare il cugino di mia madre Claudio, che ne aveva trentacinque più di me… Non ho mai amato la vita di corte, preferendo la compagnia di altri nobili patrizi, soldati, marinai, gladiatori, insomma la compagnia di veri uomini, tutti pronti a dissipare il loro denaro e il loro sperma: per essere felici e per farmi felice.
Se ne dicono tante su di me… Veramente tante… E questo non può che lusingarmi… Molti mi hanno conosciuta nei postriboli con il nome d’arte di Lycisca, mi hanno avuta come compagna, completamente depilata, con la pelle ambrata, il seno dorato, gli occhi truccati di azzurro e di rosa e, una volta appagati, hanno scritto sui muri dei bordelli:
Qui ho fottuto una bellissima, indimenticabile fanciulla.
Qui, dopo il mio arrivo, ho fottuto, dopo sono tornato a casa.
Qui ho fottuto una fanciulla formosa, lodatissima da molti.
Mi capitò di sfidare, in gara, in uno dei tanti lupanari di cui Roma abbonda, la più celebre donna di mondo della città… Vinsi: venticinque uomini in una sola giornata. Mi dettero un altro soprannome: Invincibile… E il poeta Giovenale, uomo dalla lingua lunga, ma veritiera, disse di me:
Stanca, ma non sazia, smise.
Tra me e molti dei miei uomini, alla fine di tutto, spesso è intercorso un brevissimo dialogo… Ognuno di essi, senza che gli altri lo sapessero - quali altre parole, così facili, essi avrebbero potuto far uscire dai loro corpi!? - mi ha detto: «Sei proprio una puttana!» E io, a ciascuno di loro: «E tu sei proprio mio figlio!» Per questo sono chiamata, talvolta, anche Amante di Roma.
Una volta, un nobile patrizio, un senatore e un generale vennero da me… Il nobile patrizio era di bassa statura, di corporatura grassoccia e di carnagione pallida, effeminato, ma tremendamente voglioso di una donna; il senatore era vecchio, dall’aspetto scheletrico e ripugnante, ma stracolmo di fantasie perverse che lo rendevano terribilmente aggressivo; il generale era di aspetto prestante, di alta statura e di notevole forza fisica, soprattutto dotato di una grande potenza virile. Tutti e tre desideravano ardentemente, come se fossi una sorgente di vita, la mia compagnia. Mi proposero i loro strabilianti giochi e io accettai, ponendo però una condizione: una mia schiava, colta, che nessuno conosceva come tale, avrebbe dovuto narrare per iscritto il nostro incontro. Anzi fui io stessa a dettarle le prime parole: «Preparate, o lettori, la vostra mente e il vostro cuore al racconto più impuro che sia mai stato scritto.» Non so quanti giorni e quante notti passarono… So solo che il nobile patrizio fu talmente appagato della mia compagnia da non desiderare nessun’altra donna per tantissimo tempo; che le fantasie e l’aggressività del senatore si tramutarono in favole per bambini e in timida mitezza; che il generale confessò che negli amplessi e negli orgasmi consumati insieme a me aveva sentito, come se fosse stato trafitto da un gladio, la vita sfuggirgli.
Quanti uomini ho conosciuto!... Impossibile contarli tutti! Impossibile ricordarli uno a uno!... Forse mille, forse di più!... Sono comunque certa di una cosa: loro hanno comperato il mio corpo, lo hanno pagato anche profumatamente, ma sempre e soltanto il mio corpo; io, senza versare nessun obolo, ho comperato le loro anime.
Io credo, anzi sono sicura di aver concepito tutto ciò che una donna libera di amare possa concepire in amore e di aver fatto in amore tutto ciò che ho concepito… Anzi, direi di più: sono contenta se nelle mie giornate o nelle mie notti - in fondo che differenza potrà mai esserci, per me, tra la luce e il buio?! - ho commesso quelle che tutti chiamano scelleratezze, ma che per me sono state le uniche, le sole cose che hanno dato una ragione e un senso alla mia vita… Scelleratezze commesse sempre e soltanto con la solita maschera, vera, di Valeria Messalina e recitando, sempre e soltanto, la solita parte, anch’essa vera, di donna in una città più che altro finta.
In questo momento, però, in cui la fine si avvicina, mi domando se la mia voglia di vivere, se il mio desiderio illimitato nonostante tutto, di amare e di essere amata, se la mia bramosia infinita di piacere, non siano stati soltanto una ricerca vana della felicità, una tortura sottilmente strana e piacevole, un inconsapevole tormento, un’aspirazione perfida al riposo nella morte… E mi domando se tutte le mie alcove altro non siano state che anticipazioni della mia tomba… Perché, forse, chi ama così tanto la vita come me non fa altro che correre, senza fermarsi mai un momento, verso la morte.
Pochi giorni fa mi sono sposata con il patrizio Gaio Silio, l’unico uomo che abbia mai amato veramente… Questa è stata l’ultima di quelle che tutti hanno sempre chiamato e chiamano tuttora scelleratezze... Ma in nome dell’amore, del vero amore, che cos’altro si può commettere se non scelleratezze?... Appena appresa la notizia da una spia, mio marito, l’imperatore Claudio, ci ha condannati a morte. Ora io non fuggo perché voglio essere me stessa, voglio essere Valeria Messalina… Anche questa volta… Anche nella morte.
**Un tribuno si avvicina a Messalina, l’afferra per i capelli e la trafigge con un colpo di gladio.**
Con la legge dalla mia parte
Il monologo di un giudice
*Un uomo sui trentacinque anni, in giacca e cravatta, è seduto sui gradini davanti a un edificio vecchio e cadente sul quale spicca, a caratteri cubitali, la scritta Palazzo di Giustizia. Il suo sguardo è inquieto, in certi attimi triste. Poi dà voce ai suoi pensieri.*
Sta per finire... Lo sento… Sta per finire la lotta che ho intrapreso contro di loro… Loro sono più forti di me e tra poco vinceranno.
Ho sempre voluto fare il giudice: quand’ero bambino mi mettevo, anche in piena estate, con grande disappunto di mia madre, una logora coperta blu scuro, che aveva in mezzo un foro per farci passare la testolina, e che nella mia fantasia non poteva che essere una toga nera; e con quella trapunta addosso, per divertimento, celebravo processi e amministravo la giustizia dichiarando innocenti o colpevoli, in virtù del loro comportamento, compagni di giochi e di scuola, genitori, nonni e zii. E mia madre, santissima donna, mi rimproverava, ricordandomi di non giudicare mai per non essere, a mia volta, giudicato, cosa che per lei voleva dire, molto semplicemente, non essere castigato. Ma io, subito, le rispondevo: «Il giudice, mamma, giudica soltanto, assolvendo o condannando, ma non punisce mai.»
Ho sempre voluto fare il giudice: perché amo la giustizia, odio il crimine e voglio combatterlo in prima persona; perché voglio dare un contributo concreto per cambiare in meglio la vita, la mia e quella degli altri, affinché tutti, parafrasando Leonardo Sciascia, possiamo “vivere a porte aperte”, senza nessuna paura incombente; perché la legalità e l’onestà non rimangano nozioni e regole astratte confinate nei codici, ma diventino realtà, cultura e patrimonio genetico comuni a tutti gli uomini; perché sono convinto che la legalità sia la linfa della democrazia e che quando il senso della legalità si affievolisce o si perde, la democrazia si trova in serio pericolo in quanto i deboli soccombono e i forti vincono; perché credo nel mio lavoro, nella figura del giudice e nella sua funzione che è essenzialmente quella di rispondere a una continua e crescente domanda di giustizia…
Ho sempre voluto fare il giudice: ricordo che all’esame un membro della commissione, un uomo corpulento, la testa squadrata dove appena si scorgevano gli occhi, incassati in orbite ossute e profonde, mi disse: «Lei ha fatto un ottimo esame, ma non andrà molto lontano perché crede in tutto ciò che ha detto.» Al che io, prontamente, risposi, con una domanda: «Non è proprio di chi sarà giudice credere in ciò a cui, una volta diventato giudice, dovrà credere?» E lui: «Io la sto soltanto mettendo in guardia dal mondo.» Quell’uomo non l’ho mai dimenticato… E ho avuto un tuffo al cuore quando, alcuni anni dopo, l’ho incontrato di nuovo, nell’aula di un tribunale, al quale doveva rispondere per i molti crimini commessi.
«Beati gli affamati e gli assetati di giustizia» disse un uomo giusto tanto tempo fa, rivolgendosi soprattutto a coloro i quali subivano ogni giorno l’ingiustizia, anche se la giustizia di cui questo uomo giusto parlava non era proprio quella terrena… La giustizia è un desiderio, un’aspirazione fortemente sentita da molti, tanti uomini, ma non da tutti: alcuni, troppi ancora, infatti, più che di giustizia, hanno fame e sete di potere e di ricchezza generando così il male contro cui, chi come me fa il giudice è chiamato, nel suo microcosmo, a combatterlo… In fondo le parole del Cristo, forse mai così umano come nel momento in cui annunciò le beatitudini celesti, sono eloquentissime: tanto forti sono la fame e la sete di giustizia negli uomini, ma non così tanto da fare la volontà di Dio e sempre vivissime sono in ciascun uomo la fame e la sete delle cose terrene, la cui intensità fa deviare il cuore in cerca di soddisfazioni umane chiudendo alla fame e alla sete di quelle celesti, che in realtà, poi, sono il bene per tutti gli uomini che vivono in questo mondo. Io sono un giudice giovane. Scriveva Platone nella Repubblica:
Il giudice non dovrebbe essere giovane; dovrebbe aver imparato a conoscere il male non dalla sua anima, ma da una lunga osservazione della natura del male negli altri; sua guida dovrebbe essere la conoscenza, non l’esperienza personale.
Eppure c’è stato un giudice giovane, un giudice italiano che ha conosciuto il male osservandolo negli altri, che l’ha combattuto con forza e determinazione perché lo conosceva bene e che ha pagato con la vita per questa sua lotta… Si chiamava Rosario Livatino. Venne ucciso la mattina del 21 settembre 1990 sulla SS 640 Agrigento - Caltanisetta mentre si recava, a bordo della sua Ford Fiesta, senza scorta, in tribunale, per mano di killer assoldati dalla Stidda agrigentina, un’organizzazione criminale in contrasto con Cosa Nostra, la mafia siciliana. Avrebbe compiuto trentotto anni il 3 ottobre. Nelle sue indagini Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la Tangentopoli siciliana e aveva colpito ripetutamente la mafia attraverso lo strumento della confisca dei beni. L’allora Presidente della Repubblica Italiana Francesco Cossiga lo definì Il giudice ragazzino.
Rosario Livatino, in realtà, era un uomo… Un uomo e un giudice tutto d’un pezzo che difese i valori umani più importanti, non solo la legalità e l’onestà, ma la vita stessa e che interpretò con un senso del dovere veramente alto il suo ruolo; le testimonianze di chi lo conobbe ci parlano di un operatore di giustizia - mai questa definizione potrebbe essere più azzeccata! - dotato di finissimo intuito, di elevata professionalità e di grande riserbo, capace di valutare con attenzione i reati commessi e di giudicarli con serenità, nella più assoluta indipendenza da qualsiasi condizionamento. Il giudice Livatino, forse la cosa potrà far sorridere alcuni, era cattolico praticante e la sua morte, proprio vista alla luce di questo aspetto, è stata, paradossalmente, una lezione di vita che ha sottolineato come la lotta al crimine e quindi al male, condotta in prima persona con i fatti e non con le parole, e la fede cristiana siano un binomio inscindibile. Lo stesso Livatino era solito ripetere una frase di Sant’Agostino: «Le parole insegnano, gli esempi trascinano, ma soltanto i fatti danno credibilità alle parole.»
Eppure anche le parole in Rosario Livatino assumevano un valore, un significato unici e acquistavano la forza delle azioni. Una volta disse, in un discorso:
Spero che il mio intervento offrirà materia di riflessione su due temi che possono anche porsi in perfetta antitesi tra loro: la società che cambia e il magistrato. In questa società in continua evoluzione, il magistrato è colui al quale, piaccia o no, è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi e in piena, totale indipendenza da ogni centro di potere, politico e mafioso; l’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella libertà morale e nella fedeltà ai principi, ma anche nella trasparenza della sua condotta, anche fuori del suo ufficio, nella libertà e nella normalità delle sue relazioni, nella sua indisponibilità a iniziative e affari, nella scelta dell’amicizia […]. Il giudice deve offrire di se stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile, l’immagine di uno capace di condannare, ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società. Questo e solo questo è il giudice di ogni tempo; se apparirà sempre libero e indipendente, si mostrerà degno della sua funzione; se si manterrà integro e imparziale non tradirà mai il suo mandato.*
Quanti colleghi, oltre a Rosario Livatino, sono caduti sul campo di battaglia al servizio della giustizia!... Assassinati negli anni di piombo, la terrificante stagione del terrorismo che ha insanguinato la nostra bella Italia, e negli anni, altrettanto terribili e inquietanti, delle stragi mafiose… Oggi a molti, forse a tutti, i nomi di Francesco Coco, Vittorio Occorsio, Emilio Alessandrini, Mario Amato, Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Antonino Scopelliti non dicono nulla o quasi.
Francesco Coco, procuratore generale della Repubblica a Genova, aveva la reputazione di giudice molto rigoroso. E a chi gli faceva osservare che era facile essere intransigenti quando in gioco era la vita di altri rispondeva: «Perché, non sono forse qui a disposizione di chi mi voglia ammazzare? Qualcuno mi ha mai visto circolare su un carro armato.» L’8 giugno 1976 Francesco Coco e la sua guardia del corpo furono uccisi dalle Brigate Rosse, che li freddarono alle spalle, a colpi di rivoltella e di mitraglietta Skorpion...
Vittorio Occorsio, sostituto procuratore della Repubblica a Roma, fu il primo giudice che si occupò della Loggia massonica P2 per poi istruire i processi contro Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. «Mi hanno accusato di stare prima da una parte, poi dall’altra, eppure io sono stato sempre e solo me stesso, al servizio dello Stato e della Giustizia.» Fu più volte minacciato di morte, ma lui non si tirò mai indietro. Il 10 luglio 1976 due terroristi, membri di Ordine Nuovo, gli sbarrarono la strada mentre era in auto; uno di essi sparò una raffica di mitra e lo uccise all’istante…
Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica a Milano, era un fervido sostenitore della riforma del sistema giudiziario e aveva condotto l’istruttoria sulla strage di Piazza Fontana, in seguito l’inchiesta sul Banco Ambrosiano di Roberto Calvi… Era un uomo buono oltre che un giudice integerrimo: a Natale regalava il panettone a un centralinista cieco che lavorava al Palazzo di Giustizia della città lombarda. Il 29 gennaio 1979, a Milano, dopo aver accompagnato il figlio a scuola, fu ucciso da un commando di Prima Linea…
Mario Amato, sostituto procuratore della Repubblica a Roma. Fu il primo giudice che tentò una lettura globale del terrorismo nero e riuscì a individuare - fatto inquietante - i legami tra destra eversiva, criminalità organizzata, certa parte di finanza e di mondo economico e poteri pubblici. «Ciò che ho scoperto - disse ai suoi superiori - è infinitamente più grave degli stessi atti criminosi che sono stati commessi.» Ma fu lasciato solo e il 23 giugno 1980, a Roma, mentre attendeva il bus (cosa assurda per un giudice!), venne ammazzato dai Nuclei Armati Rivoluzionari con un colpo di rivoltella alla testa...
Cesare Terranova, capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo e membro della Commissione Parlamentare Antimafia, già negli Anni Sessanta si era distinto per aver processato e condannato all’ergastolo Luciano Liggio, uno dei padrini del nascente clan dei corleonesi. Terranova fu uno dei primi giudici a rendersi conto non solo dell’estrema pericolosità di Cosa Nostra, che si stava sempre più anteponendo allo Stato, ma anche del fatto che tale pericolosità era scarsamente percepita. Il 25 settembre 1979 la mafia lo assassinò, insieme al suo uomo di scorta, a Palermo, a colpi di pistola e di carabina, riservandogli il colpo di grazia alla nuca…
Rocco Chinnici, giudice istruttore presso l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, fu artefice del primo grande processo a Cosa Nostra, il cosiddetto maxiprocesso di Palermo. Chinnici credeva nel coinvolgimento dei giovani e della gente comune nella lotta contro la mafia ed era solito partecipare a congressi, a convegni e a parlare nelle scuole agli studenti. «Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi - diceva - fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai.» Il 29 luglio 1983 un’auto imbottita di esplosivo fu fatta saltare da un killer di Cosa Nostra davanti all’abitazione del giudice, che morì insieme agli agenti della sua scorta e al portiere del palazzo…
Antonino Scopelliti, numero uno dei sostituti procuratori generali presso la Corte di Cassazione. Si occupò di terrorismo e di mafia. Era chiamato il giudice solo, non che questa sia una novità per un giudice, ma nel caso di Scopelliti questa solitudine era veramente allucinante dal momento che egli era davvero solo contro la mafia siciliana, la ‘ndrangheta calabrese e frange isolate del terrorismo. Uomo tutto d’un pezzo, rifiutò diversi miliardi di vecchie lire per “raddrizzare” il processo contro la Cupola, il vertice di Cosa Nostra. Il 9 agosto 1991, mentre era in vacanza a Campo Calabro, fu assassinato a colpi di pallettoni da sicari della mafia e della ‘ndrangheta…
E poi loro: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino... Che cosa dire di Giovanni Falcone, ucciso dai corleonesi il 23 maggio 1992 a Capaci insieme alla moglie e agli uomini della scorta, che non sia già stato detto o scritto da altri? Basti ricordare le sue parole, alcune venate di pessimismo, altre di ottimismo: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere…» «La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine.» E che cosa dire di Paolo Borsellino, anche lui assassinato dai corleonesi il 19 luglio 1992 a Palermo insieme alla scorta, che non sia già stato detto o scritto da altri? Basti ricordare alcune sue parole, piene di coraggio e di dignità: «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore solo una volta…» «Ho sempre accettato, più che il rischio, la condizione, le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e anche di come lo faccio. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare, senza lasciarci condizionare dalla sensazione, dalla certezza che tutto questo può costarci caro.»
Su alcuni di questi delitti è stata fatta luce e giustizia - almeno lo voglio credere o perlomeno sperare! - ma su altri crimini, tanti altri, non ancora e, forse, luce e giustizia non saranno mai fatte. Troppo forte è ancora l’omertà. Già!... L’omertà!... Che parola orrenda!... Il suo stesso suono evoca qualcosa di misterioso, di remoto, di nascosto, di repellente. Omertà - ironia della sorte! - è un termine di origine incerta. Sembra che sia stato usato per la prima volta già ben due secoli fa. Alcuni lo collegano alla parola latina humilitas, umiltà, adottata dai dialetti dell’Italia meridionale e poi modificata in umirtà; da questa forma dialettale si sarebbe arrivati alla forma odierna. Omertà… Così il dizionario della lingua italiana definisce questa parola: “Atteggiamento di ostinato silenzio atto a non denunciare reati più o meno gravi di cui si viene direttamente o indirettamente a conoscenza; la si commette celando l’identità di chi si è reso autore di un reato o comunque tacendo circostanze utili alle indagini dell’autorità giudiziaria”. Ma l’omertà non consiste solamente nel non denunciare fatti criminosi, nel coprire chi ha commesso un reato, nel non voler collaborare con le forze dell’ordine e con la giustizia… L’omertà più vera e più colpevole sta nel non voler sapere, nel non voler conoscere o riconoscere cose che accadono palesemente, nel chiudere non solo gli occhi, gli orecchi e la bocca, ma nello sbarrare la mente, nel rendere insensibile la coscienza, nell’inaridirsi di ogni sentimento di civiltà… Molti, forse troppi, confondono l’omertà con la solidarietà anche perché il confine che le separa è sottile, quasi del tutto invisibile. In realtà la prima è distante anni luce dalla seconda. La solidarietà è un sentimento che sorge spontaneamente, con forza, con amore, con verità per poi eclissarsi senza nessun clamore; l’omertà, al contrario, è un mezzo per rendere sicura, inindividuabile e quindi non punibile la prepotenza, l’arroganza, il furto, l’omicidio; è uno strumento grazie al quale pochi si nascondono dietro tanti; è una vera sottocultura che permette di far ricadere sugli altri il prezzo dei propri misfatti, che antepone la morte alla vita… L’omertà è, paradossalmente, una “filosofia di vita”, condivisa, difesa e trasmessa ancora da troppi e che sta alla base, alimentandoli di continuo, di tutti quei “sistemi” - io li chiamo così - che contengono e muovono interessi economici e di potere illegali i quali, dietro un’apparenza condivisa e difesa a oltranza, in realtà non creano nulla, ma sfruttano, uccidono e distruggono; “sistemi” che nascono, crescono e si consolidano non nel vuoto dello Stato, quando cioè lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, manca o è debole, ma dentro lo Stato, nelle sue stesse leggi, nelle sue stesse funzioni… Altrimenti non si spiegherebbe, non si capirebbe - ohhh!… Spiegare e capire!… Ecco due parole assolutamente proibite nel mondo dell’omertà! - perché tanti cosiddetti misteri del nostro passato - lontano, recente forse anche già futuro - continuino a essere tali, senza che nessuno riesca o voglia indagare e scoprire la verità vera.
Io sono un giudice solo, come d’altra parte lo sono stati quelli che ci hanno rimesso la loro stessa vita... Anzi dovrei dire io sono solo... Sì, perché la solitudine del giudice, ormai, non è più soltanto una condizione professionale, ma sta diventando sempre più una condizione umana… Il giudice è un uomo solo, anche se a lui si rivolgono in tanti, tantissimi, con fiducia, per avere giustizia… Solo negli uffici dove lavora, dall’organico sempre ridotto, con scarsi mezzi a disposizione e quasi mai senza la possibilità di ricorrere alla cosiddetta collegialità, cioè il contatto diretto e il confronto con altri giudici, almeno per decidere sulle questioni più articolate e più difficili… Solo nell’affrontare un lavoro febbrile, massacrante, pieno di responsabilità complesse e tormentate, prima fra tutte il dover decidere della vita di un’altra persona, colpevole o innocente che sia, e che finisce per assorbirlo totalmente, spogliandolo di tutti i suoi affetti… Solo nel momento in cui deve porsi i cosiddetti problemi di merito e processuali, seminare di dubbi la strada intrapresa, riflettere su tutta la questione in corso, raccogliere dall’esperienza e dalla giurisprudenza tutte quelle argomentazioni capaci di rendere chiara la sua scelta… Solo nel prendere la decisione finale, a cui deve giungere attraverso un percorso ragionato e lucidamente dimostrato nella motivazione, decisione che riguarda la libertà, la dignità, la vita medesima degli altri, anche se colpevoli, perché il giudice non è un giustiziere, ma è colui che amministra la giustizia… Solo di fronte al crimine, senza un’adeguata protezione, spesso abbandonato a se stesso, senza l’aiuto dello Stato, senza l’appoggio della gente che pure si appella a lui.
Sento che è finita… Ne sono certo, ora… La lotta che ho intrapreso contro di loro è finita e io insieme a essa… La sentenza a mio carico è stata già emessa… Sto attendendo il boia da un momento all’altro… E la mia agonia, già iniziata tempo addietro, mi sta divorando gli ultimi attimi di vita… Il mio patibolo sarà proprio qui, davanti al Palazzo di Giustizia, dove ho fatto il mio dovere di giudice… Ma è finita non perché amo la giustizia, non perché sono giovane e neppure perché sono solo… È finita per altri motivi… Motivi che sono incredibili, paradossali, addirittura bizzarri.
È finita perché l’unica cosa che sta dalla mia parte è la legge… Sì!... Proprio la legge, quella con la elle maiuscola, di cui, pure, il giudice è uno strenuo difensore e che applica, con scrupolo e coscienza, ai casi della realtà… È finita perché la legge, sempre di più, non coincide con la giustizia che io amo: la giustizia è una virtù, è l’ordine equo, leale, incorrotto dei rapporti che legano tra di loro gli uomini mentre la legge, sempre di più, è il prodotto del potere, del dominio e dell’arroganza di uomini che portano sul loro volto la maschera della legalità e dell’onestà... È finita perché la legge, talvolta o forse dovrei dire, anzi devo dire, senza timore alcuno, sempre di più, non coincide con la giustizia, ma con l’ingiustizia e trova proprio nell’ingiustizia il terreno in cui germogliare, crescere e diventare forte... È finita perché la legge sta diventando, sempre di più, uno strumento con cui, difendere e diffondere l’illegalità e non il mezzo per affermare e tutelare la legalità... È finita perché la legge, sempre di più, si accanisce su chi è innocente finendo per colpirlo e salva, invece, chi è colpevole… Ed è soltanto per questi motivi così incredibili, così paradossali, così bizzarri eppure così veri, così terribili e così nefasti che io, tra poco, morirò.
**Arrivano due uomini, entrambi con il volto coperto, che uccidono a raffiche di mitra il giudice e poi fuggono.**
Uccidere, mangiare, dormire
Il monologo di un boia
*In uno squallido stanzino, un uomo ancora abbastanza giovane, lo sguardo serio, ma sereno, sta riponendo con cura, in un piccolo armadio, alcuni abiti neri. Poi si siede a un tavolo, apre la sua agenda e annota alcune parole leggendole sottovoce: «Questa è stata la novantacinquesima esecuzione… E anche questa volta è andato tutto bene.» Chiude l’agenda e inizia a parlare.*
Ebbene, sì!… Io sono un boia: colui che ha il compito di eseguire le sentenze capitali... Com’è bizzarra la vita!... I medici hanno il compito di salvare la vita degli uomini; quelli che svolgono la mia professione, hanno invece il compito di toglierla... Vita e morte sono veramente legate l’una all’altra!… A prima vista medico e boia sembrano lontani anni luce l’uno dall’altro; in realtà sono vicinissimi e non solo perché il medico deve verificare che chi il boia ha giustiziato lo sia stato veramente, ma perché entrambi, per poter essere uno boia l’altro medico, devono avere una vocazione di fondo veramente profonda oltre a una professionalità di livello elevato; entrambi, poi, sia pure in modo diametralmente opposto, operano nella legalità; entrambi sono al servizio degli altri svolgendo un lavoro socialmente utile; entrambi sono necessari per rendere sicura e anche migliore la vita di tutti i giorni. Come si potrebbe vivere in un mondo senza coloro i quali si prendono cura della vita degli uomini e senza coloro i quali eliminano, per dare il cosiddetto buon esempio a tutti, chi ha attentato alla vita stessa?
Per secoli il patibolo, sia esso forca, ceppo o ghigliottina, è stato onnipresente nelle vicende dell’umanità. Chi deteneva il potere era l’unico giudice con il compito di sentenziare e di condannare, ma la sola, l’unica mano legalmente autorizzata per porre fine alla vita di un uomo era la mano del boia… Nell’antichità la mia professione, in realtà non esisteva, come d’altra parte non esisteva chi avesse l’autorità a stabilire e applicare la pena capitale. La condanna a morte senza boia poteva avvenire nei modi più disparati, il più frequente dei quali era la lapidazione in occasione della quale a una parte della popolazione, che diventava così boia, era assegnato il compito di eseguire la condanna stessa in nome di tutta la società. È nel Medioevo che nasce la mia figura professionale. Che epoca il Medioevo!... Il boia in quei secoli non si occupava soltanto di eseguire le pene capitali, ma torturava, squartava gli animali morti, provvedeva alla cattura dei cani randagi, al seppellimento dei giustiziati, alla pulizia delle fogne e al controllo dei postriboli. Un po’ per volta la figura del boia venne regolamentata: si definì la sua carica, le furono riconosciuti dei precisi diritti e altrettanti doveri, si stabilì anche che dovesse sempre essere lo stesso uomo, perlomeno fino a quando ne fosse stato capace, a eseguire le sentenze capitali e che dovesse abitare, da solo o con la sua famiglia, fuori dalle mura della città… Che personaggio il boia!... Viveva nell’ombra, dall’ombra usciva per compiere il suo lavoro per poi ritornare nell’ombra. Ignobile, ma anche sacro, detestato, ma non odiato, rifiutato, ma mai abolito… Il boia serviva… Serviva al potere per conservare se stesso; serviva alla giustizia, emanazione del potere medesimo, per spaventare gli uomini; serviva alla società, dominata da pochi individui, per conservarsi secondo le regole dettate da questi stessi pochi individui… Il boia: servitore e uomo di potere, padrone della vita altrui anche se solo per pochi attimi e ultimo lacchè di un meccanismo immensamente più grande di lui… Nel secolo appena passato abbiamo però visto come il boia non sia stato più soltanto una figura isolata, un uomo esecrato per il suo lavoro, ma pur sempre un uomo solo, bensì un’intera organizzazione statale, una parte anche consistente della società, tornando così, paradossalmente, - ma la storia non è forse un eterno ritorno?! - ai secoli più lontani dell’antichità.
Quanti nei convulsi eventi dell’umanità hanno fatto il lavoro del boia? Non tanti da quello che so, tutti rimasti perlopiù sconosciuti… Ma di due di loro ci sono giunti i nomi e le storie: il francese Charles-Henri Sanson e l’italiano Giovanni Battista Bugatti detto Mastro Titta.
Di monsieur Sanson non ci rimane nessun ritratto, ma di lui abbiamo, comunque, notizie certe, prima fra tutte che apparteneva a una famiglia di esecutori di giustizia francesi che ricoprirono per più di un secolo e mezzo questo ruolo e che avevano assunto il titolo, ereditario, di Esecutore delle alte opere di Parigi. Charles-Henri intraprese la carriera a quindici anni, quando dovette succedere al padre gravemente malato; a trentanove divenne esecutore del re. Allo scoppio della Rivoluzione francese simpatizzò con gli insorti e ottenne il titolo di cittadino, ma senza prendere parte alle vicende. Esercitò, invece, il suo onorato mestiere officiando ed eseguendo materialmente tutte le esecuzioni capitali che si tennero a Parigi: qualcosa come ben 2.918 teste tagliate con la ghigliottina, tra cui quelle del re Luigi XVI, della regina Maria Antonietta e di famosi capi della Rivoluzione, come Danton e Robespierre. A proposito dell’esecuzione di Luigi XIV, una leggenda del tempo volle raffigurare monsieur Sanson come lo strumento della maledizione lanciata da Jacques de Molay, l’ultimo Maestro dei Cavalieri Templari, contro i sovrani Capetingi suoi mortali nemici. Mentre le fiamme del rogo lo stavano avvolgendo, Jacques de Molay, infatti, avrebbe maledetto la dinastia dei Capetingi fino alla tredicesima generazione. E sempre secondo questa leggenda monsieur Sanson, proprio qualche attimo prima di decapitare Luigi XVI, gli avrebbe mormorato: «Io sono un templare e sono qui per portare a compimento la vendetta di Jacques de Molay.»
Mastro Titta, il boia dello Stato Pontificio vanta ben 516 servizi tra suppliziati e giustiziati, tutti riportati nelle sue Annotazioni. Prima di operare Mastro Titta si confessava e si comunicava, poi indossava un bel mantello rosso e andava a compiere la sua opera. Agiva sempre con la sua consueta abilità, sia che mazzolasse, impiccasse, squartasse o decapitasse. Nei periodi di inattività Mastro Titta esercitava il mestiere di venditore di ombrelli a Roma. Abitava sulla riva destra del Tevere, nel rione Borgo al civico 2 di Via del Campanile. I suoi concittadini non lo vedevano molto bene al punto che non poteva mai recarsi in centro dove la sua incolumità sarebbe stata di certo messa a repentaglio: da qui il proverbio in romanesco Boia nun passa ponte che, per esteso significa: Ognuno se ne stia nel suo mondo. Tuttavia a Roma le esecuzioni capitali pubbliche, quelle che venivano ordinate dal papa-re e che, in qualche modo, dovevano essere esemplari per tutti i romani, avvenivano in Piazza del Popolo o a Campo de’ Fiori o in Piazza del Velabro, vale a dire sull’altra sponda del Tevere; Mastro Titta, quindi, doveva, per forza, attraversare Ponte Sant’Angelo per andare a compiere i suoi servizi. Il fatto fece nascere un altro proverbio romanesco, Mastro Titta passa ponte, che stava a indicare il fatto che nella giornata era prevista un’esecuzione capitale.
Lord Byron assistette ad alcune esecuzioni officiate da Mastro Titta lasciando una viva testimonianza:
La cerimonia - compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere dell’ascia, lo schizzo del sangue e l’apparenza spettrale delle teste esposte - è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell’agonia da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi.
Oggi, però… Oggi è diverso dai tempi di Sanson e di Mastro Titta… Sempre di più la pena capitale viene abolita o ridotta… La mia categoria rischia di rimanere senza lavoro, addirittura di estinguersi… E anche oggi, come in passato, tutti mi considerano un mostro non molto diverso da coloro con i quali ho a che fare negli ultimi istanti della loro vita… Tutti o quasi hanno paura di me e mi evitano come se fossi un appestato, un lebbroso… Eppure… Eppure io sono un uomo tranquillo, che ama vivere, che non si arrabbia mai, che conduce una vita normale tutti i giorni, divisa tra uccidere, che per me significa lavorare onestamente, mangiare e dormire… Per me il patibolo, che suscita sempre in tutti un così grande orrore, è soltanto il luogo dove lavoro e l’agonia dei condannati, che nonostante tutto genera sempre pietà e commozione, è soltanto il segno che anche questa volta mi sono guadagnato la giornata e che devo ringraziare Dio per quello che mi dà.
**L’uomo si alza dal tavolo, apre la finestra dello stanzino e osservando un patibolo di giustiziati inizia a canticchiare:
Tutti morimmo a stento
ingoiando l’ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce.
L’urlo travolse il sole
l’aria divenne stretta
cristalli di parole
l’ultima bestemmia detta.
Prima che fosse finita
ricordammo a chi vive ancora
che il prezzo fu la vita
per il male fatto in un’ora.*
L’uomo dei martìri
Il monologo di Farinata degli Uberti
*Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ‘l vedrai.*
È passato molto tempo da quando quel nobile fiorentino venne a trovarmi in questo luogo di silenzio, di tormento e di morte, tra queste tombe scoperchiate e infuocate che lui ha chiamato martìri - mai nome fu più appropriato per indicare la mia sofferenza e di quelli che giacciono vicino a me - tombe poste lungo un sentiero stretto davanti alle mura di una città fiammeggiante. Mi ricordo quando i nostri occhi si incontrarono e quando mi alzai fiero sulla sponda del mio sepolcro mostrandogli il petto e la fronte e disprezzando la pena a cui ero stato condannato; e ricordo ancora quando gli chiesi di fermarsi, solo per un momento, in questo posto terribile e le parole, dure, ma nobili, che ci scambiammo.
Io sono Farinata degli Uberti, capo ghibellino nella città di Firenze, condannato alla pena eterna non solo per essere stato un eretico, ma anche per le mie scelte di vita, fatte da uomo libero: tra la Chiesa e l’Impero scelsi l’Impero, tra la pace e la lotta, optai per la lotta, tra un’esistenza governata dai tonsurati ne preferii una governata dagli uomini con una spada al fianco.
L’uomo che venne qui mi rimproverò dicendomi che ero stato fiero e superbo, che io, Farinata, gli Uberti e i ghibellini giungemmo a tali eccessi, per la nostra sfrenata cupidigia di potere e di ricchezze, da turbare, contro ogni giustizia, la pace e la prosperità di tutta la città di Firenze che, alla fine, fu costretta a cacciarci… Ma a quest’uomo, pure nobile e intelligente, forse o di certo, non so se in buona fede o volutamente, sfuggiva il fatto che anche la parte a me avversa, quella stessa parte con cui lui medesimo si era schierato, aveva fame di potere e
di ricchezze e che la giustizia, la pace e la prosperità di Firenze di cui lui parlava non appartenevano a tutta quanta la città, ma soltanto alla sua parte.
I miei avversari mi combatterono senza sosta e io, per tanti anni, combattei allo stesso modo contro di loro, tanto che per ben due volte li dispersi e li cacciai dalla città… Sono sempre stato mosso da un’unica, grande passione, quella per Firenze, che ho amato in modo sincero e profondo lottando e soffrendo tutta la vita per essa come in un perenne supplizio, forse non molto diverso da quello a cui sono sottoposto, oggi, in questa tomba infuocata; sono sempre stato ghibellino, nella buona come nella cattiva sorte, senza mai vendere la mia arte e passare sotto altri stendardi; ho sempre avuto la piena consapevolezza e la sincera convinzione di essere nel giusto e di operare per il bene; ho sempre combattuto i miei nemici con onore, affrontandoli sempre e soltanto faccia a faccia.
Quando quell’uomo venne qui c’era una cosa che mi turbava e mi turba, tuttora, più della mia sorte, che mi tormentava e mi turba, ancora, più del letto di fuoco dove giacevo e dove giaccio anche adesso: il fatto che gli Uberti non sono stati capaci a conservare, a consolidare le loro vittorie e soprattutto perché non hanno potuto far ritorno a Firenze dopo che erano stati esiliati… Quell’uomo mi disse che anche lui, per ben due volte, aveva subito la stessa sorte, a causa mia, che aveva conosciuto l’umiliazione, l’angoscia e la tristezza dell’esilio, ma che poi, per due volte, era, comunque, tornato nella sua città, nella nostra Firenze... Noi Uberti, invece, a differenza di tanti fiorentini che hanno potuto fare ritorno nella loro città, ne siamo stati banditi per sempre perché i vincitori, non del tutto soddisfatti delle proprie vittorie, hanno fatto leggi durissime e messo in atto la loro vendetta, covata per anni e anni, accanendosi crudelmente contro di me, contro la mia famiglia, che non aveva colpa alcuna: io sono stato condannato come eretico, benché non fossi più al mondo, e le mie ossa riesumate e gettate nell’Arno; mia moglie Adaletta e i miei figli bruciati sul rogo, i nostri beni confiscati, il nostro nome, la nostra stessa vicenda cancellati dalla storia di Firenze… Di tutto ciò, di tutta la mia vita, è rimasto solamente un grande dolore; un martirio e una sofferenza indicibili, continuati anche dopo la morte e rispetto ai quali il sepolcro di fiamme in cui mi trovo adesso è, forse, poca cosa; un dolore forse ancora più grande dell’aver perduto la mia casa e le persone che amavo: la consapevolezza di essere stato odiato così tanto al punto che i miei vincitori sono giunti a negare non solo quello che mi avevano fatto, ma tutto l’odio che essi avevano per me, arrecandomi, così, infinitamente più male.
Eppure… Eppure è stato detto, sostenuto e difeso che le leggi fatte contro di me altro non furono se non la giusta risposta alle mie azioni, che Firenze aveva voluto, con il mio esilio definitivo, salvare se stessa dalla tirannia e punirmi perché gli Uberti, dopo la prima cacciata, invece di ridursi in buona umiltà e di meritarsi, in virtù di lodevoli comportamenti, il richiamo della città, avevano volto le armi contro di essa, insieme a quelle dei suoi più antichi e feroci nemici.
Di tutto questo esiste però un altro volto, un volto che i vincitori hanno nascosto subito, preoccupandosi immediatamente di scrivere la storia secondo la versione di chi ha vinto… Ma questa volta a scrivere la storia è un altro... È chi ha perso... È Farinata degli Uberti.
A Montaperti… In quel giorno del settembre 1260 insieme a me, contro i miei nemici, non vi erano soltanto cavalieri tedeschi, ma anche altri italiani, altri toscani, in primis quelli di Siena e di Pisa, e soprattutto altri fiorentini: gente, quest’ultima, che poi, con l’inganno e il tradimento, ha fatto ritorno tranquillamente in città anche perché i nuovi padroni di Firenze hanno perdonato tutti, tranne Farinata degli Uberti.
A Empoli... Avvenne pochi giorni dopo Montaperti. I ghibellini senesi e pisani chiesero ai legati del re Manfredi di Svevia di mettere ai voti la proposta, folle e orrenda, di radere al suolo Firenze: e ciò soltanto perché questi uomini temevano che l’esistenza della città fosse un pericolo od un ostacolo per i loro affari. Io, soltanto io, tra tutti coloro i quali venivano da Firenze, mi opposi con tutte le mie forze a una proposta così insana e così terribile e alla fine convinsi il re Manfredi: la città non sarebbe stata toccata. I fiorentini, però, dimenticarono presto questo mio gesto: dimenticarono come io, Farinata degli Uberti, non fui, in quell’occasione così importante, così vitale per la sopravvivenza stessa di Firenze, uomo di parte, ma cittadino magnanimo, che di nascosto, a Montaperti, aveva pianto quando aveva visto il torrente Arbia arrossarsi di sangue fiorentino; come del resto, proprio la mia Firenze, che tanto amai e amo ancora, non ha mai voluto imparare e ricordare che fare giustizia non significa soltanto punire il male, ma anche riconoscere e premiare il bene e che molto può e deve essere perdonato a chi ha molto amato.
Il silenzio dell’amore
Il monologo di una vedova
*In una camera del Centro Oncologico di un grande Ospedale una donna sta vegliando il suo uomo in fin di vita. È la notte di Natale, fuori fa freddo e nevica. I medici e gli infermieri se ne sono andati mentre le luci sono spente o soffuse. La donna, piangendo di tanto in tanto, si rivolge all’uomo ormai in uno stato di totale incoscienza.*
Ti prego, non lasciarmi sola… Non te ne andare questa notte… È la notte di Natale, la notte in cui Gesù è nato… Nessuno deve morire nella notte di Natale… Neppure l’uomo più cattivo del mondo... Aspetta!... Aspetta ancora qualche anno, tanti anni prima di morire!... Aspetta che io sia pronta per seguirti… Lo sai… Lo sai che non sono capace a fare nulla senza di te, senza la tua presenza così forte… Lo sai che non potrei vivere da sola.
Ascoltami!... Ascol-ta-mi… Ti ricordi?!… Ti ricordi quando mi venne in mente di ristrutturare il nostro piccolo appartamento?... Tu… Tu non eri d’accordo… Mi dicesti subito che non ne valeva la pena perché il palazzo era vecchio e perché meritavamo entrambi una casa migliore… Il problema… Il problema era che non avevamo soldi abbastanza per comperarne una nuova… Dai e dai, però, ti ho convinto… Anzi, alla fine, paradossalmente, eri più entusiasta di me… Eri… Eri così felice nel vedere quel piccolo buco, eppure così importante per noi, diventare, giorno dopo giorno, più bello… E poi… Poi ti ricordi quel sabato mattina di settembre quando andammo insieme a scegliere i mobili nuovi? Ehh!?... Ti… Ti ricordi?... Acquistammo una cucina, una sala con salotto, una camera da letto… Eri contento come un bambino!
E… Ti ricordi quella volta quando salvasti mio cugino Gianni che voleva investire tutti i suoi risparmi nell’acquisto di quella villetta a schiera al mare?… Tu… Tu capisti subito che si trattava di una truffa, glielo dicesti, ma lui non ci credeva… Allora… Allora una domenica mattina ci recammo tutti e tre in quella località balneare dove le villette erano in costruzione… Ma al posto del cantiere trovammo soltanto una specie di discarica, con qualche escavatore arrugginito e una gru ridotta a uno scheletro metallico… Gianni… Gianni si mise a piangere: era furibondo con chi aveva cercato di fregarlo, arrabbiatissimo con se stesso per essere stato così ingenuo e felice per lo scampato pericolo… A pranzo, in quella trattoria, non fece altro che ringraziarti e ripetere quanto ero stata fortunata a sposare un uomo intelligente e buono come te.
Io… Io ti ho sempre amato… Mi capisci?... Ti ho sempre amato… Non credo che un’altra donna abbia potuto amarti come ti ho amato io… Anche se non abbiamo avuto figli… Tu desideravi tanto averne!… Ma io… Io non ho mai voluto… Perché… Perché temevo che potessero diventare come te… Mi hai capito bene?!… Come te!
Sì!... Io… Io l’ho sempre saputo!… Non sai quante prove schiaccianti contro di te, un po’ per volta, ho raccolto e Dio mi perdoni se non ho rivelato tutto alla Polizia che avrebbe potuto così fermarti e… E impedirti di uccidere tante volte!… Sì!!!… Ho sempre saputo che tu, dietro l’apparenza di un tranquillo impiegato, che tutte le mattine, ben rasato, in giacca e cravatta e con la borsa in pelle marrone, andava al lavoro con la metropolitana, eri l’omicida, il serial killer, quello che tutti chiamavano Il mostro che per alcuni, lunghi anni, ha terrorizzato la nostra città rapendo e assassinando dodici donne e cinque bambine: sceglievi le tue vittime tra quelle infelici che vendono il loro corpo sulla strada e tra le creature innocenti dell’asilo o delle scuole elementari, le uccidevi con pugnali, rasoi, mannaie, forbici e poi, talvolta, le mutilavi usando le stesse armi o l’acido… E saresti andato avanti ancora per chissà quanto tempo, continuando a farti beffe della Polizia, di tutta quanta la città, se quel maledetto - forse dovrei dire benedetto! - mostriciattolo non fosse penetrato dentro di te e non avesse iniziato a prenderti la vita, ogni giorno un po’ di più, fino a oggi.
Hai commesso i tuoi delitti sempre a ottobre e a novembre… E la sera, la sera del giorno dopo che avevi ucciso, in casa, appena finito di cenare, ogniqualvolta mi parlavi di Baudelaire, cosa inaspettata da te, da un contabile, e soprattutto dei poeti maledetti, di Verlaine e di Rimbaud… I tuoi occhi si illuminavano di una luce strana, folle e triste allo stesso tempo, che solo in quel momento scorgevo in te, e la tua bocca assumeva una piega crudele che mi faceva enormemente paura… Ma non ti dicevo mai niente, anzi pendevo dalle tue labbra, perché piena di amore per te… Mi piaceva sentire la tua voce quando mandava a memoria, con tanta passione, dei versi che, alla fine, ho imparato anch’io a memoria… Ascoltami:
I lunghi singhiozzi
dei violini d’autunno
mi feriscono il cuore
con monotono
languore.
Ansimante
e smorto, quando
l’ora rintocca
ricordo
i giorni antichi
e piango;
e me ne vado via
nel vento ostile
che mi trascina
di qua e di là
come la foglia
morta.
Sei contento che la so anch’io, vero?… Dimmi che sei contento!… È la tua poesia… La poesia che amavi così tanto… Che recitavi dopo che avevi ucciso!… Tu… Tu non ci credi, vero?... Non ci credi che io so, che ho sempre saputo quello che facevi?!... Non puoi crederci!... Non ci vuoi credere!… Allora… Allora, guarda! (tira fuori dalla borsa alcuni ritagli di vecchi quotidiani locali)… Guarda!… Sono soltanto alcuni dei tanti titoli di giornali che, senza mai fare il tuo nome, hanno parlato di te, ti hanno celebrato, esecrato, odiato… Forse era quello che tu desideravi: essere qualcuno, anche se solo davanti a te stesso, essere uno famoso, non un impiegato anonimo.
Il Corriere del Mattino
Prostituta assassinata con tredici pugnalate.
L’omicida ne ha poi deturpato orrendamente
il corpo con dell’acido.
Ultimissime
Terribile delitto sconvolge la nostra città:
rapita e uccisa con un rasoio bambina di sette anni.
Si teme l’esistenza di un maniaco.
L’Informazione
Il mostro è tornato:
prostituta massacrata a colpi di mannaia.
Città News
Orrore! Il mostro di nuovo in azione:
rapita e uccisa con delle forbici
una bambina di nove anni.
Tu… Tu non hai mai sospettato che io sapevo... Mi hai sempre ritenuta una donna poco intelligente, poco svelta, incapace di capire e soprattutto di conoscerti fino in fondo… O forse… Forse mi amavi anche tu, come ti amavo e ti amo ancora io, talmente tanto che non volevi, per amore, che io sapessi che tu eri un assassino spietato: perché se lo avessi saputo alla luce del sole sarebbe stato un dolore troppo grande, insopportabile, sia per me che per te, un macigno che ci avrebbe schiacciati… Ecco!… L’amore, il vero amore, va oltre ogni cosa, oltre la vita, oltre la morte… L’amore non è soltanto passione, gioia e clamore… L’amore è anche dolore, tristezza e silenzio… Ed è nel silenzio che esso vive per tutta una vita e nel silenzio muore senza, forse, mai morire del tutto… Come è accaduto a me… Come, forse, è successo anche a te.
Già! La vita e la morte… Sono accomunate da una sola cosa: la sofferenza… In tutti questi anni in cui ti sono stata accanto ho sempre sofferto, forse non molto diversamente da adesso: ho sofferto per me, per te… Ho sofferto per tutti e due… Un lungo martirio, un indicibile calvario che ho sopportato solo perché sorretta dall’amore silenzioso che avevo per te.
Ti... Ti ho parlato per tutto questo tempo, ma il mio discorso è stato soltanto un lungo monologo… Il monologo di una donna ormai vedova… Eppure io so che tu, fino a questo preciso momento, mi hai ascoltato e… Oh Dio!... Sono diventata pazza!... Non so più che cosa dico!… Ma… Ma io ti prego lo stesso… Non lasciarmi sola… Non te ne andare questa notte… È la notte di Natale, la notte in cui il Salvatore è venuto al mondo per perdonarci e per salvarci… Nessuno deve morire nella notte di Natale… Neanche l’uomo peggiore del mondo… Neanche tu.
Non sono un mostro,
non ho odiato, non ho ucciso
Il monologo di Adolf Eichmann
*Israele, Carcere di Ramla, ore ventitré e trenta di giovedì 31 maggio 1962. Un uomo di mezza età, seduto su una branda, sta fissando il pavimento della cella in cui è rinchiuso. Sa che tra pochi minuti verrà impiccato. All’improvviso inizia a ripercorre, a voce alta, alcuni momenti della propria vita domandandosi il motivo della condanna.*
C’è un posto nella città dove sono cresciuto - è un laghetto per la precisione - che in qualsiasi stagione dell’anno è sempre azzurro, anche in pieno inverno. Da bambino spesso ci andavo con mia madre e tutte le volte lei mi diceva che lì era caduto un pezzo di cielo e che il paradiso aveva lo stesso, identico colore… Il paradiso!... I bambini credono al paradiso e all’inferno, al bene e al male e si pentono, senza nemmeno sapere il perché, tutte le volte che commettono qualche azione soltanto perché qualcuno gli ha detto di non commetterla… Io, forse, non sono mai stato bambino… Non ho mai creduto al paradiso e all’inferno, non ho mai creduto al bene e al male, sono sempre stato un uomo serio e corretto, non mi sono mai pentito di nulla perché non ho mai avuto nulla di cui pentirmi e per il semplice fatto che non ne ho mai sentito la necessità… E allora, perché, oggi, sono qui, in questa cella e perché, oggi, alcuni uomini riuniti in un Tribunale mi hanno condannato a morte?... Perché?
Mostro! Ecco la prima accusa che questo Tribunale ha formulato contro di me… Io sarei un mostro, il responsabile di sei milioni di morti… Quale mostro?!… Il mostro è ben altro da me… È colui che sta al di fuori di ogni mondo, è colui che non ha regole, è colui che vive nel disordine… Io, invece, sono appartenuto coscienziosamente, coerentemente e lealmente al mio mondo, al mondo in cui mi sono ritrovato, al mondo in cui mi sono riconosciuto; avevo ventisei anni quando mi sono iscritto al Partito Nazionalsocialista perché ritenevo profondamente iniqua la sorte che l’Europa aveva riservato al mio paese, la Germania, e perché ero fermamente deciso a fare qualcosa per cambiarla; come membro del Partito ho sempre osservato le sue regole, le ho attuate ogni giorno e in base a quelle ho dato senso e ordine alla mia vita… Mi è stato detto di essere poco intelligente, di non avere mai avuto delle idee mie, di aver accettato in maniera passiva ciò che altri mi hanno detto e indotto a fare… Non è vero… Poco dopo il mio ingresso nel Partito sono entrato a far parte delle SS, dove ho fatto carriera fino a diventare tenente colonnello e dove ho maturato la mia esperienza in materia di ebraismo tanto da diventare capo dell’Ufficio per le Questioni Ebraiche… E quando mi è stato detto che bisognava lottare contro gli ebrei, ho subito capito che cosa dovevo fare e mi sono immediatamente impegnato perché sapevo di avere le qualità per agire in quel modo; non sono mai stato un subalterno che eseguiva degli ordini, ma pensavo direttamente a quegli ordini e prendevo parte alla loro realizzazione.
Odio! Ecco la seconda accusa… Io non ho mai odiato gli ebrei… In verità, io non ho mai odiato nessuno… Con l’odio non si può vivere, non si può lavorare, non si può fare nulla… Io ho sempre fatto il mio dovere con serenità, con tranquillità, con attenzione, con scrupolo in tutti i luoghi dove i miei superiori mi hanno inviato: a Vienna, a Praga e poi, durante la guerra, in Francia, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Danimarca, in Italia, in Ungheria e in Unione Sovietica… Posso soltanto ammettere e riconoscere la responsabilità di aver messo in atto - come, comunque, deve fare ogni soldato in tempo di guerra - ordini che anche io avevo in mente e che anche io consapevolmente attuavo, ma che sempre, in ogni momento in cui essi venivano dati, erano inappellabili, non si potevano minimamente discutere, né obiettare in alcun modo; e non posso, adesso, per una questione di dignità, di coerenza - sarebbe facile nella mia situazione! - scagliarmi contro il mondo di cui facevo parte e in cui mi riconoscevo pienamente, contro i suoi uomini con i quali ho condiviso tutto, in particolare nei momenti più difficili, contro le sue leggi, contro tutto ciò che mi ha aiutato a realizzarmi, a dare un senso compiuto, un significato alla mia vita.
Uccisioni! Ecco la terza accusa… Io non ho ucciso proprio nessuno. Nessuno!... Questo Tribunale ha affermato che io ho provocato la morte di milioni di ebrei organizzando deportazioni da quasi tutti i paesi europei verso campi situati presso località della Polonia dove sono avvenute uccisioni in massa... Località chiamate Auschwitz, Bełżec, Chełmno, Majdanek, Sobibór, Treblinka, i cui campi, in realtà, dipendevano esclusivamente dai loro comandanti e dove io sono stato solo di passaggio o delle quali, addirittura, ho letto soltanto i nomi sulla carta geografica… Questo Tribunale mi ha accusato di aver partecipato a un incontro, indetto dai miei superiori, nel corso del quale sarebbe stato deciso di procedere all’annientamento degli ebrei che vivevano in Europa; la verità è che, in quell’incontro, al quale io stesso presi parte, si parlò soltanto di lavoro in campi e di costruzione di strade nei territori dell’Est europeo, attività che avrebbero dovuto svolgersi nei modi più opportuni e con una direzione adeguata; questo Tribunale mi ha anche accusato di essere stato l’organizzatore, l’amministratore di una efficientissima macchina di sterminio; in realtà il mio compito è stato semplicemente quello di procedere alla requisizione dei treni, usati poi da altri, che dovevano trasportare gli ebrei verso la Polonia e di pianificarne gli spostamenti in base alle capacità ricettive dei campi; questo Tribunale mi ha accusato, poi, di tante altre cose: di aver deciso della sorte degli ebrei che abitavano in Europa, ma essa era già stata decisa dal nostro cancelliere Adolf Hitler in persona; di aver comandato i reparti speciali di eliminazione, ma essi, in realtà, dipendevano dai miei superiori; di essermi occupato direttamente dell’approvvigionamento dei trasporti per le deportazioni verso l’Europa orientale, ma, in effetti, esso era compito dei comandanti delle SS.
E allora, che cosa vuole questo Tribunale da me?... Perché mi ha convocato in giudizio e mi ha condannato a morte?... Io non sono un mostro, non ho odiato, non ho ucciso… Eppure io, Adolf Eichmann, ufficiale tedesco che ha combattuto nella seconda guerra mondiale, sono additato come un mostro, sono odiato e per questo sarò ucciso… Impiccato!... Il patibolo mi attende e tra poco mi strapperà alla vita; ma la mia agonia, che tra poco finirà, è iniziata prima, quando sono stato portato davanti a questo Tribunale con l’accusa di essere un mostro, di aver odiato e ucciso, e mi ha già ammazzato, anche se sono ancora vivo… E tutto questo perché?... Solo perché la mia esistenza e quello che ho fatto hanno coinciso con il crimine e con la morte, che erano le regole, i fondamenti del mondo a cui appartenevo?
**Aula del Tribunale di Gerusalemme, alcuni giorni prima.
Pubblico Ministero
Ma insomma, lei, allora, era solo un semplice fattorino?!
Eichmann
Io facevo soltanto il mio dovere, come tutti i soldati in tempo di guerra... Soltanto il mio dovere e non ho proprio nulla di cui rimproverarmi… Proprio nulla.
Pubblico Ministero
Li vede questi documenti? Lo sa che cosa sono, Eichmann?... Sono degli ordini di deportazione che portano la sua firma.
Eichmann
La mia firma non aveva alcun valore decisionale. Era procedura che essa servisse esclusivamente per rendere esecutivo l’ordine dei miei superiori: di Himmler, comandante in capo delle SS o di Müller che dirigeva la Gestapo o di Heydrich o, dopo la morte di quest’ultimo, di Kaltenbrunner, che guidarono, prima l’uno, poi l’altro, l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich.
Pubblico Ministero
E le pare poco mettere la propria firma su documenti del genere?
Eichmann
E va bene!... Ammetto che la dizione “per ordine di” prima della firma, per le disposizioni vigenti all’interno della Gestapo, andava messa sempre, anche se l’ordine proveniva direttamente da me e non dai miei superiori… E poi… Che cosa vuole, signor giudice! È passato così tanto tempo!… Dopo tutti questi anni non ricordo più certi particolari.
Pubblico Ministero
Eichmann!... Non sente nulla dentro di sé?... Non si sente responsabile della morte di tanti innocenti?... Dov’è la sua coscienza?
Eichmann
I problemi di coscienza riguardano soltanto il sovrano, chi è a capo dello Stato... Io non ebbi fortuna e il capo del mio Stato, la Germania, ordinò le deportazioni. La mia parte fu quella assegnatami da Himmler, comandante delle SS… Dovetti obbedire… Vestivo un’uniforme e c’era la guerra… Per l’insubordinazione il codice penale militare delle SS prevedeva la morte… Io ricevevo degli ordini e a malincuore dovevo eseguirli.
Pubblico Ministero
Quindi l’unico colpevole di questa tragedia immane è stato Adolf Hitler?! Eppure un uomo non avrebbe mai potuto fare tutto da solo, voglio dire senza contare sulla collaborazione, sull’appoggio incondizionato, cieco di tanta altra gente… Di gente come lei, Eichmann.
Eichmann
Bisogna distinguere bene tra quelli che lei chiama collaboratori… Himmler e Kaltenbrunner, l’altro comandante delle SS, erano colpevoli - loro sì! - perché avevano un certo potere di veto, avrebbero potuto bloccare certe decisioni o ridimensionarne i contenuti… Diversa era la situazione dei subordinati, di quelli, come me, che non potevano fare altro che obbedire, nient’altro che obbedire.
Pubblico Ministero
Eichmann!... Non ha mai provato alcun rimorso pensando che i trasporti ferroviari, l’unico ambito in cui lei dice di aver avuto autonomia decisionale, servivano a portare alla morte migliaia e migliaia di innocenti?
Eichmann
Dovevo svolgere il compito assegnatomi utilizzando proprio i trasporti ferroviari perché avevo prestato giuramento. Le decisioni, non mi stancherò mai di ripeterlo, venivano prese tutte dai miei superiori… Io mi sono sempre considerato innocente e ho potuto così trovare la mia pace interiore.**
Traditore, assassino e codardo
Il monologo di Marco Giunio Bruto - Variazione
su temi dal Giulio Cesare di William Shakespeare
*Città di Filippi, tarda sera del 22 ottobre del 42 a.C. In un accampamento romano, immerso nel silenzio, un uomo, chiuso nella sua tenda, sta scrivendo alla fioca luce di un lume. All’improvviso ha un forte sussulto, smette di scrivere e fa un lungo, profondo respiro. Subito dopo si alza dallo scrittoio, esce dalla tenda, fa qualche passo, infine si ferma a contemplare il cielo e la luna. Rimane assorto nei suoi pensieri per un momento, poi parla.*
Tutti mi chiamano e mi chiameranno, per sempre, traditore, assassino e codardo… Soltanto traditore, assassino e codardo… Senza avermi prima conosciuto, senza aver prima compreso le ragioni del mio gesto, senza aver prima pensato che, talvolta o sempre, bisogna fare la cosa sbagliata per la causa giusta, senza comprendere che la vita e la morte vanno sempre di pari passo e non si escludono mai a vicenda.
Per diverso tempo la mia mente e il mio cuore sono stati tormentati da pensieri contrastanti e da passioni discordi, che, alla fine, nonostante cercassi di attribuirli a cause non ben definite o a motivi che io stesso mi sforzavo di capire, di individuare o addirittura di inventare, non trovandoli, sono sempre ritornati alla loro vera origine, alla loro reale fonte… Un coacervo di idee e di emozioni che mi hanno indotto a tenere un comportamento strano, poco gentile nei confronti dei miei amici più cari, i quali non hanno potuto fare a meno, all’inizio, di farmelo notare, successivamente, di rimproverarmi e di richiamarmi, con un certo, sano vigore, al mio consueto stile di vita… Il fatto è che per tutto quel tempo io ho avuto paura che Roma, che il suo popolo potesse eleggere re Caio Giulio Cesare e ciò è stato per me motivo di terribile angoscia, un indicibile incubo a occhi aperti, un supplizio atroce… Anche il nobile Cassio ha provato questo sentimento, forse, addirittura, in maniera più grande e più grave di me… Al punto dare che se il Senato avesse eletto Cesare al trono regale, egli si sarebbe liberato dalla schiavitù con il suo stesso pugnale perché in certi momenti della vita gli dei rendono forti i deboli e nessun vincolo terreno può frenare la forza dello spirito. E ho tremato, disgustandomi nello stesso tempo, quando il nobile Casca mi ha riferito di quella infantile e orrenda commediola al santuario del Lupercale nel corso della quale Marco Antonio, per ben tre volte, offrì a Cesare la corona regale che egli, per ben tre volte, rifiutò, ma ogni volta in modo sempre più blando e sempre meno convinto… E il popolo di Roma, o meglio la plebe di Roma, ogni volta applaudì e alzò le proprie luride mani in segno di tripudio.
Più di una volta, nel passato più lontano, ma anche in quello più recente, ho detto chiaramente che se fosse stato messo in gioco il bene generale, il bene di tutta Roma io, Marco Giunio Bruto, sarei stato disposto a mettere il mio onore in un occhio e la mia morte nell’altro e li avrei guardati entrambi con lo stesso sguardo: perché, fondamentalmente, amavo e amo, oggi, di più il nome dell’onore come d’altra parte temevo e temo, tuttora, molto di meno la morte.
Ora mi domando: perché sono diventato un congiurato? Perché ho cospirato contro Cesare? Qualche giorno prima del fatto, dichiarai apertamente che avrei preferito essere un oscuro villano piuttosto che sapermi figlio di Roma nelle dure condizioni che quei tempi minacciavano di volerci imporre. E poco dopo seppi che il nobile Cassio aveva detto: «Ora i romani hanno muscoli e nervi come i loro antenati; ma, ahimè, morto è invece lo spirito dei nostri padri e noi siamo governati da quello delle nostre madri, e insomma il giogo che tolleriamo di portare fa capire a noi stessi che siamo soltanto delle femmine.»
Ecco! Sono diventato un congiurato perché non riuscivo a tollerare né l’idea di per sé, né, soprattutto, il fatto che il popolo di Roma fosse diventato così debole, così apatico e così poco virile da sottomettersi a un solo uomo, da accettare ogni condizione che gli veniva dettata da un solo uomo, da trasformarsi, esso, popolo conquistatore, in popolo conquistato, sottomesso a un solo uomo al quale, addirittura, non aveva né pensato, né osato opporsi. E in tutto ciò ho trovato le ragioni, i motivi per congiurare contro Cesare senza aver bisogno di nessun altro sprone. Il nobile Casca, parlando di me e dell’impresa che ci accingevamo a compiere, disse: «Egli si trova in luogo molto alto nel cuore del popolo. E se fossimo soltanto noi a compiere l’impresa, essa potrebbe suonare perfino oltraggiosa, ma se anch’egli vi consentisse, come per una preziosa alchimia, trasformerebbe ogni cosa in virtù e in merito.»
Traditore!... Traditore di Cesare! Così sono chiamato c così mi chiameranno!... Eppure… Eppure non sono io il vero traditore!... Ahh! Ahh! Ahh!... Già!... Non sono io il traditore!... Mi metto, solo per un momento, nei panni o meglio nella testa e nel cuore di tanti uomini e allora anch’io sarei naturalmente portato a ritenere Marco Giunio Bruto un traditore… Ma… Ma poi, lasciando da parte le emozioni scomposte della prim’ora, mi renderei conto, con un ragionamento tanto elaborato quanto immediato, che il vero, il solo traditore non è Bruto, ma Cesare! O meglio… O meglio... Ehh!... Se Bruto ha tradito l’uomo Caio Giulio Cesare, ma qui le questioni personali non c’entrano nulla e per niente c’entra il fatto che io ero suo figlio adottivo - ciò è ben chiaro a tutti! - Caio Giulio Cesare, mirando a un potere illimitato, ha tradito ignobilmente Roma, ne ha deturpato le tradizioni secolari, ne ha offeso la dignità… Un brivido terribile mi prende e tutto l’affanno dell’umanità mi assale quando penso a Cesare come a un tiranno della vicina Grecia o all’ultimo scellerato re della gente di Roma! E sorrido, pur rabbrividendo un’altra volta, nel ricordare le parole di Marco Antonio che celebrò davanti al popolo che si accalcava nel vedere noi e il corpo senza vita di un tiranno, di un traditore, i meriti di quest’uomo: le sue vittorie, conseguite per se stesso e non per Roma; le sue lacrime, finte e non vere, versate, come a teatro, per i poveri; il suo celebrato testamento destinava a beneficiari cittadini di Roma, in verità poche dracme e qualche lembo di terra.
Adesso mi chiedo: perché Cesare è stato ucciso? Che cosa aveva quest’uomo di così grande, di così straordinario per salire a una tale altezza capace di provocare ciò che è accaduto? Forse, forse nulla!... Il grande Cesare non aveva nulla in più degli altri uomini se non la dote innata di capirli nel profondo del loro cuore e della loro mente… Egli non sarebbe mai diventato un lupo se non si fosse accorto che i romani altri non erano se non delle pecore… Non sarebbe mai stato un leone se i romani non fossero stati dei cerbiatti. Il nobile Cassio affermò: «Vi sono pure dei momenti in cui gli uomini sono padroni del loro destino: la colpa non è nelle nostre stelle ma in noi stessi, se non siamo altro che dei sottoposti. Bruto e Cesare. Che cosa c’è in questa parola: Cesare?»
Eppure… Eppure i giorni e le notti precedenti la sua morte non furono come tutti gli altri, ma giorni e notti densi di fatti terrificanti e incredibili: un vento furibondo sradicò delle querce robustissime, le onde del mare si gonfiarono e salirono così in alto che sembrava toccassero le nuvole del cielo, si scatenò una tempesta di gocce infuocate, uno schiavo alzò la mano sinistra che si tramutò in una fiaccola, in Campidoglio apparvero, dapprima, un leone minaccioso, poi un corteo di donne dall’aspetto spettrale… E infine un uccello notturno si posò nel foro, ululando e stridendo… Fu come se la natura avesse voluto ammonirci per quello che avremmo fatto di lì a poco oppure, oppure, ne sono convinto, darci un segnale, spronarci ancora di più verso il compimento della nostra azione, aiutarci, a modo suo, a vincere le nostre ultime resistenze, i nostri ultimi dubbi, i nostri ultimi timori... E farci capire, chiaramente, che Cesare era un essere del tutto simile agli eventi terribili di quei giorni e di quelle notti e, quindi, un uomo pericoloso, nefasto, orrendo: un uomo da uccidere per il bene di tutti, per il bene di Roma… E allora… Allora compresi chiaramente anche che cosa significassero quelle meteore luminosissime sibilanti nell’aria… Il loro messaggio non poteva essere più chiaro: «Bruto, tu dormi; svegliati e cerca di riconoscere te stesso.» E io: «Deve forse Roma vivere nel terrore di un solo uomo? Parla, colpisci, raddrizza! O Roma, io ti prometto che, se sia possibile raddrizzare qualcosa, la tua preghiera sarà esaudita interamente per mano di Bruto!» Già! Fare il bene di Roma!... Io… Io, non mi stancherò mai di ripeterlo, non ho mai avuto nulla di personale contro Cesare… Mi sono opposto a lui soltanto per difendere Roma, soltanto quando ho visto e capito che Cesare stava abusando delle sue doti e della sua fortuna, quando ha permesso ai suoi sentimenti di prevalere sulla ragione, quando ha separato la pietà dalla potenza.
Assassino!... Assassino di Cesare! Così sono chiamato e così mi chiameranno!... Ma… Ma non sono io il vero assassino!... Ahh! Ahh! Ahh!.. Non sono io l’assassino!... Di nuovo immagino di essere nella mente e nell’animo di molti uomini e allora anch’io mi sentirei portato, per natura, a considerare Marco Giunio Bruto un assassino… Poi, però… Mettendo in un angolo i sentimenti immediati, capirei, con una riflessione complessa e rapida insieme, che il vero, il solo assassino è proprio Caio Giulio Cesare. È stato lui a uccidere le libertà di Roma! È stato lui a farsi capo assoluto di Roma! È stato lui a sostituire la grande Repubblica con un potere personale!... Quell’uomo voleva diventare un sovrano!... Quante cariche, quanti onori e quanti privilegi ha accumulato prima che lo fermassimo!... Godeva della Tribunicia postestas a vita, sicché la sua persona si doveva considerare sacra e inviolabile; si fregiava del titolo di imperator cioè di comandante degli eserciti a cui egli aveva concesso grandi benefici e che, per riconoscenza, gli assicuravano il potere; era pontefice massimo; era dittatore a vita; aveva allargato il Senato mettendovi dentro tanti uomini di sua fiducia e aumentato in maniera sconsiderata i burocrati, tutti uomini a lui devoti… Ecco chi era Caio Giulio Cesare! Ecco chi era l’uomo che abbiamo ucciso!... Ma lo abbiamo fatto con le migliori intenzioni: siamo stati dei sacerdoti sacrificali, non dei sicari; ci siamo levati contro lo spirito di Cesare, e nello spirito degli uomini non c’è sangue; abbiamo ucciso con coraggio ma senza ira; abbiamo agito affinché il nostro proposito apparisse necessario e non mosso dall’odio e noi venissimo chiamati purificatori e non assassini… Le nostre mani erano lorde di sangue, ma i nostri cuori colmi di pietà.
Ricordo perfettamente le mie parole di quel 15 marzo del 44 a.C., giorno delle Idi di marzo:
Siate pazienti fino alla fine. Romani, cittadini e amici! Udite le ragioni della mia causa e restate in silenzio, in modo che possiate udire. Credete a me per il mio onore, e abbiate rispetto del mio onore, così che possiate credere. Giudicatemi nella vostra saggezza e risvegliate tutto il vostro ingegno, così che possiate giudicar meglio. Se qui, in mezzo a questa folla, c’è un qualche caro amico di Cesare io dico proprio a lui, che l’amore di Bruto per Cesare non era meno del suo. E se questo amico richieda perché Bruto si sia sollevato contro Cesare, questa è la mia risposta: che non amavo Cesare da meno, ma che amavo Roma di più. Preferireste voi forse che Cesare fosse ancora in vita e che voi foste dannati a morire tutti schiavi, o preferite che Cesare sia morto, per vivere tutti uomini liberi? Che Cesare mi amasse, è ragione ch’io pianga per lui; che la fortuna gli sia stata benigna, fu causa che ne provassi piacere; che fosse coraggioso è cosa per la quale lo onoro; ma che fosse ambizioso mi fece forza a ucciderlo! E quindi qui ci sono lacrime per il suo amore, gioia per la sua fortuna, onore per il suo coraggio, e morte per la sua ambizione.*
Ora siamo qui, in questo posto così lontano da Roma. Con me, con noi ci sono altri romani, coloro che ci hanno compreso fin dall’inizio e ci hanno seguito fino in fondo, fino alla fine. E domani dovremo fare la guerra contro altra gente che, come noi, è nata a Roma. Che cosa terribile! Che cosa terribile!... Quanto sangue romano verrà sparso su questi campi!
Codardo!... Sono chiamato anche così e così mi chiameranno perché dopo la morte di Cesare sono fuggito!... Invece… Invece io non sono un codardo!... Ahh! Ahh! Ahh!... Sì!... Rido!!!... Caio Giulio Cesare ha pagato con la vita la sua ambizione smodata, ambizione che, se non ci fossero stati i nostri pugnali, avrebbe condotto Roma alla catastrofe… Anch’io sto per pagare con la mia vita, ma non l’ambizione, né la ricerca del potere e nemmeno la cupidigia dell’oro, ma soltanto il grande amore che ho sempre avuto per Roma. Della sorte che mi attende io non ho paura e non mi considero un fuggiasco perché sono pronto ad affrontare coloro che, in fondo, non amano Roma e non sono molto diversi da Cesare… E anche questo è un atto d’amore per Roma.
Sono un uomo colpito da tanti mali… Ma nessuno sa sopportare il dolore meglio di me... Portia, la mia compagna di tutta una vita, è morta. Non potendo più sopportare la mia lontananza, sconfortata dalla crescente potenza di quelli che sono diventati i miei nemici, è impazzita e approfittando della lontananza delle sue ancelle ha inghiottito del fuoco... E poi quell’apparizione, che mi ha fatto gelare il sangue nelle vene e drizzare i capelli e che mi ha dato appuntamento proprio in questo luogo… Non so come andrà la giornata di domani, ma mi rimane estremamente facile intuirlo. Io non entrerò mai a Roma in catene: questa è per me una certezza perché il mio spirito è troppo grande. Perciò so che cosa dovrò fare... Come del resto so che domani si concluderà l’opera iniziata alle Idi di marzo e che verrà posta fine a questa storia, la quale mi ha illuso che il bene potesse essere visto e compreso al di là dell’apparenza, facendomi così soffrire per oltre due anni e trasformando la mia vita in un lungo supplizio e in un logorante tormento.
**Colline di Filippi, pomeriggio del 23 ottobre del 42 a.C.
Bruto
[…] Io te ne prego, Stratone, resta ancora per un tratto vicino al tuo signore. Tu sei un giovane degno. La tua vita ha avuto sempre attorno a sé un qualche sapore di gloria. Tieni dunque ben ferma la mia spada e volgi il tuo volto dall’altra parte, mentre io vi corro incontro. Vuoi, Stratone?
Stratone
Datemi prima la mano: addio, mio signore.
Bruto
Addio, buon Stratone. [si getta sulla spada] Cesare, sei placato alfine. Io non t’ho ucciso a metà così volentieri. [muore]**
Mi chiamano tiranno… Ma non sanno perché
Il monologo del generale Santos Banderas
*Nel salone presidenziale di un grande palazzo, tappezzato da un’imponente biblioteca piena di vecchi volumi e da macabre litografie, un uomo solo, in divisa militare, seduto su una grande poltrona simile a un trono e con un libro in mano, sta meditando ad alta voce. È il dittatore di un piccolo non meglio conosciuto Stato latino-americano, che con una rivoluzione interna ha da poco rovesciato il governo dispotico che lo guidava. Al vecchio regime se ne è però sostituito un altro altrettanto totalitario.*
Tiranno!… Ecco come mi chiamano, ecco come chiamano il generale Santos Banderas… E questo solo perché sono il capo di uno Stato, solo perché sono uno che ha il potere… Che cosa vuol dire avere il potere? Vuol dire disporre della capacità, della facoltà, ovvero dell’autorità di agire, esercitata per fini personali o collettivi… Io sono a capo di una nazione che dopo mezzo secolo si è liberata dal giogo della schiavitù, che ancora impera in tante altre parti di questa nostra America latina... Sì, perché un regime che opprime un popolo, che gli nega la libertà, la giustizia, i diritti fondamentali, la vita stessa, può avere tanti nomi, ma di schiavitù si tratta… Ebbene le catene sono state finalmente spezzate e la luce è apparsa scacciando il buio… Ma allora perché su questa poltrona, dove prima sedeva un tiranno, siedo adesso io, che tutti chiamano allo stesso modo?
Tiranno!… È una parola ormai desueta, che si legge solo nei libri di storia, solo nelle opere del passato… Come nel Trattato per il governo di Firenze di Girolamo Savonarola (apre il libro e legge):
Tiranno è nome di uomo di mala vita, e pessimo tra tutti gli altri uomini, che per forza sopra tutti vuole regnare, massime quello che di cittadino è fatto tiranno. Perché, prima, è necessario dire che sia superbo, volendo esaltarsi sopra li suoi equali, anzi sopra li migliori di sé e quelli a’ quali piú tosto meriteria di essere subietto: e però è invidioso, e sempre si contrista della gloria delli altri uomini, e massime delli cittadini della sua città; e non può patire di udire laudare altri, benché molte volte dissimuli e oda con cruciato di core; e si allegra delle ignominie del prossimo per tal modo, che vorria che ogni uomo fussi vituperato, acciò che lui solo restassi glorioso.
Tiranno!... Questa parola mi fa tornare in mente personaggi incredibili del passato, tra cui uno veramente “unico nella sua specie”: l’imperatore Caligola… Che tipo!… Lo devo ammettere: straordinario, a modo suo, così folle da essere geniale, così creativo da diventare mostruoso… È passato alla storia per delitti e scelleratezze di vario genere - veri o presunti aggiungo io perché chi ha il potere viene sempre additato come un folle, come un mostro - tra cui quella, famosissima, di aver nominato senatore anche il proprio cavallo: in realtà egli era ben consapevole di ciò che faceva e con quel gesto volle dimostrare ai membri del Senato romano il disprezzo che nutriva nei loro confronti al punto che chiunque, anche un animale, attraverso l’esercizio del potere imperiale, poteva diventare senatore. Caligola poi poneva sullo stesso piano cose importanti, come le finanze, la morale pubblica, la politica estera, le leggi agrarie e cose futili, come che cosa indossare, che cosa mangiare, che cosa leggere… Caligola è un simbolo del potere, ma anche un emblema della libertà, quella associata all’esercizio del potere stesso: secondo l’imperatore potere e libertà dipendevano dalla sua fantasia, dalla sua immaginazione ed erano illimitati, poiché reputava che fossero illimitate la sua stessa fantasia e la sua stessa immaginazione in quanto doti di un imperatore, fra l’altro considerato anche un dio; lui, il padrone di Roma, poteva fare quello che sognava di fare: praticava di fatto un grande potere disponendo, a sua scelta, della vita degli altri e decidendone, allo stesso modo, la morte: ciò perché il suo potere altro non era se non la piena emanazione e la palese dimostrazione della sua illimitata fantasia. Inoltre diceva che la liberazione immediata dall’infelicità terrena, cosa peggiore della morte medesima, a cui ogni uomo, lui compreso, era stato condannato, poteva avvenire in ogni momento della vita, in virtù del suo stesso potere di imperatore, semplicemente con un colpo di gladio… Egli era solito dire: «Non è necessario aver fatto qualcosa per essere condannati a morte»; «L’uomo veramente felice è il condannato alla pena capitale perché non ha più nessun pensiero della vita, perché ha finito di soffrire.»
Ora… Io… Generale Santos Banderas… Mi chiamano tiranno, mi odiano e mi disprezzano… Solo perché sono il capo di uno Stato, solo perché sono uno che ha il potere… Ma io non sono come quegli uomini che nel corso dei secoli, a tutte le latitudini del mondo, hanno esercitato arbitrariamente il loro potere!... Io non sono né crudele, né folle... Anche se mi chiamano tiranno.
Io appartengo a un gruppo di uomini che ha fatto la rivoluzione, che ha lottato per avere un mondo migliore: un mondo di libertà, di giustizia, di diritti... Un mondo dove tutti i sentimenti meschini e crudeli siano domati e dove ogni sana passione debba essere ridestata dalla legge; dove si possa beneficiare della libertà pacificamente, nel godimento di ognuno e nel rispetto di tutti; dove le differenze nascano soltanto dall’uguaglianza e dove la giustizia stia al di sopra di tutti; dove i diritti basilari siano tutelati e dai quali nulla può prescindere; dove ognuno debba sentirsi degno ed essere felice quando si pone al servizio di tutti gli altri; dove l’economia e il commercio siano fonti di ricchezza per tutti e non solo per pochi.
Eccolo!... Questo è il nuovo mondo!... O meglio dovrebbe esserlo!… O ancora avrebbe dovuto esserlo!… In realtà esso non è molto diverso da quello che ci siamo lasciati alle spalle… E io non faccio altro che domandarmi il perché… Forse perché gli uomini sono fatti tutti della stessa, identica pasta e non sono diversi gli uni dagli altri… Forse perché non sono abbastanza maturi o non vogliono esserlo per imparare a essere migliori di coloro che sono venuti prima… Forse perché hanno smesso di cercarsi e di parlarsi o forse non hanno mai iniziato a farlo… Forse perché non sono abbastanza capaci o non hanno il coraggio e la forza per diventare veramente uomini.
Io lo so… Io lo so che questa nazione ha conquistato la libertà, la giustizia e i diritti fondamentali e so che non può assolutamente perderli… So anche che essa non è ancora pronta per vivere e per godere con equilibrio, con saggezza e con serenità queste grandi conquiste… Se gli uomini e le donne di questa nazione non vengono tenuti a freno con strumenti efficaci e se non vengono educati, la libertà, nelle loro menti e nei loro cuori ancora infantili, diventa disordine, la giustizia si muta in vendetta, i diritti si trasformano in abusi… Così l’ordine, che è stato il fine primo e ultimo del nostro combattere, quell’ordine, armonioso ed equo, così necessario per il vivere, per il crescere e per il prosperare, verrà messo in grave pericolo. È, quindi, per il bene, soltanto ed esclusivamente per il bene di questi uomini e di queste donne che io governo con autorità e con forza, con quell’autorità e con quella forza che appartengono al ruolo che ricopro e che scaturiscono dal ruolo che esercito… È soltanto ed esclusivamente per il loro bene che io faccio leggi rigorose che possono apparire esagerate, addirittura terribili… Ed è, quindi, soltanto ed esclusivamente per il loro bene che io amministro la giustizia con severità, senza alcuna indulgenza verso chi è colpevole, verso chi attenta al nostro ordine, al nostro mondo… Nessuno sa meglio di me, che governo uno Stato, quali schiaccianti responsabilità il mio compito mi affida, quali scelte dolorose mi obbliga a fare, quanto male mi costringe a fare per avere tanto bene!... Ecco, allora, il punto!... Ecco, allora, la spiegazione di tutto!... Ecco perché mi chiamano tiranno… Ma non sanno perché.
Maximilien Robespierre, l’Incorruttibile, un altro cosiddetto despota, nel momento più drammatico della Rivoluzione francese, quando la Rivoluzione stessa era in gravissimo pericolo, nel suo Discorso del 5 febbraio 1794 davanti alla Convenzione Nazionale disse (apre un altro libro e legge):
Bisogna soffocare i nemici interni ed esterni della Repubblica, oppure perire con essa. Ora, in questa situazione, la massima principale della vostra politica dev’essere quella di guidare il popolo con la ragione, e i nemici del popolo con il Terrore. Se la forza del governo popolare in tempo di pace è la Virtù, la forza del governo popolare in tempo di rivoluzione è a un tempo la Virtù e il Terrore. La Virtù, senza la quale il Terrore è cosa funesta; il Terrore, senza il quale la Virtù è impotente. Il Terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile. Esso è dunque una emanazione della virtù. È molto meno un principio contingente, che non una conseguenza del principio generale della democrazia applicata ai bisogni più pressanti della patria. Si è detto da alcuni che il Terrore era la forza del governo dispotico… Il vostro Terrore rassomiglia dunque al dispotismo? Sì, ma come la spada che brilla nelle mani degli eroi della libertà assomiglia a quella della quale sono armati gli sgherri della tirannia. Che il despota governi pure con il Terrore i suoi sudditi abbrutiti. Egli ha ragione, come despota. Domate pure con il Terrore i nemici della libertà: e anche voi avrete ragione, come fondatori della Repubblica. Il governo della rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannia.
Ecco! Questo è il potere… Lo dice uno che lo esercita e che per questo è chiamato tiranno… Ma avere il potere non significa solamente avere l’autorità ed esercitarla, con tutto ciò che questa azione comporta… Avere il potere significa anche dover difendersi da tanti, tantissimi nemici, che si annidano come serpenti velenosi soprattutto tra i cosiddetti amici e, per questo, non poter mai abbassare la guardia anche solo per un istante… Significa non poter vivere come una persona normale che la sera rientra a casa dove lo attendono volti amici che l’amano… Significa soprattutto essere condannati alla solitudine e alla peggiore delle condanne: l’infelicità… Sì! Perché anche il tiranno è un uomo, con i suoi sentimenti, le sue debolezze, le sue stanchezze, la sua umanità che, in virtù del ruolo che ricopre, deve però sempre reprimere… Che differenza potrà mai esserci tra la condizione di chi è condannato al patibolo e la mia condizione di essere solo e infelice in questo mondo, pur avendo il potere nelle mani?... Tra l’agonia di coloro i quali vengono giustiziati e la mia sofferenza, che non suscita in nessuno né interesse, né pietà?... E sono sempre più convinto che la vita e la morte si scambiano spesso le parti: la vita non regala gioie, ma dolore e sofferenze al punto da essere odiata; la seconda libera l’uomo dandogli la pace, al punto da essere anche desiderata… Ehh!... Mi chiamano tiranno… Mi odiano e mi disprezzano… Io, generale Santos Banderas, capo di questo piccolo, sconosciuto Stato dell’America latina, poco più di un lembo di terra affacciato sull’Oceano... Dovrebbero, invece, chiamarmi benefattore e amarmi: non garantisco, forse, con la morte, come faceva Robespierre, l’esistenza del nuovo mondo che è nato dalla rivoluzione e non compio anche atti di generosità, come faceva Caligola, donando, sempre attraverso la morte, la liberazione dall’infelicità terrena?
Il Quinto rovesciato
Il monologo di un killer
(vedi testo già pubblicato)
Quando una donna uccide un uomo
Il monologo di Charlotte Corday
*Parigi, carcere della Conciergerie, pomeriggio del 17 luglio 1793, Anno I della Repubblica. Una giovane donna, alta e sottile, molto graziosa e delicata, carnagione rosa, occhi azzurri e capelli biondi ondulati seminascosti da una piccola cuffia, sta scrivendo su un logoro foglio. Ogni tanto alza lo sguardo verso la piccola finestra dalla quale penetra, rotta dall’inferriata, la luce del sole d’estate e le giungono le urla e i rumori della Rivoluzione che imperversa a Parigi e in tutta la Francia. Da oltre tre giorni questa giovane donna langue in una delle più terribili prigioni della capitale; la sua colpa è gravissima: ha ucciso un uomo, un uomo importante, uno dei principali capi della Rivoluzione francese e per questo delitto è stata subito arrestata e processata dal Tribunale Rivoluzionario che in pochi minuti l’ha condannata a morte. Ecco la sua testimonianza mentre attende di essere portata alla ghigliottina.*
Tutte le donne legano il loro nome a quello dell’uomo che più amano nel momento più bello della vita di entrambi; io, Marie Charlotte Corday d’Armont, ho invece legato il mio nome a quello dell’uomo che più odiavo nel momento della sua morte… Sono nata in un villaggio vicino alla città di Caen venticinque anni fa da una famiglia aristocratica, ma povera. Ho sempre avuto, fin da piccola, un’anima virile ed entusiasta e non è passato giorno della mia vita in cui non abbia alimentato questa mia anima con il cibo dell’eroismo leggendo, oltre a Corneille di cui sono la pronipote, la grande storia dell’antichità. Gli eroi di Plutarco, eterni protagonisti da imitare in ogni luogo e in ogni tempo, e la Roma repubblicana, potenza capace di assicurare la pace, la libertà, la sicurezza e la concordia tra gli uomini rimuovendo tutte le cause dei conflitti, sono sempre stati i miei ideali e il mio modello di vita. Mi sono subito infiammata per ciò che la Rivoluzione ha portato, soprattutto la speranza concreta di un’esistenza umana diversa e migliore per i francesi, e ne ho salutato, con passione, la venuta; sono stata repubblicana ancor prima della Rivoluzione, quando ancora c’era il re, quando ancora tutte le cose in Francia non si muovevano da mille anni; ho trasformato il mio abbattimento, la mia delusione, il mio dolore in risolutezza quando ho visto la Rivoluzione spargere sangue innocente e trionfare i peggiori nemici della Repubblica; e in quel momento mi sono convinta che, per la seconda volta dopo la Pulzella d’Orléans, a un’altra donna Dio e la Storia avessero riservato la gloria e assegnato il compito di liberare la Francia dal male.
Jean Paul Marat, l’estremista della Montagna, la fazione dei tiranni, il tribuno del popolo, il giornalista che dalle colonne del suo giornale L’Ami du Peuple incitava sempre e soltanto al massacro e alla morte: ecco il mostro, ecco il male che doveva essere cancellato. Che cosa dire di quest’uomo, di quest’essere? Mi è bastato, oltre che sentire i racconti terribili degli amici girondini e assistere alle loro assemblee, leggere le parole scritte direttamente dal mostro sul suo giornale… Un misogino: Le donne e i bambini non devono prendere parte alle decisioni perché sono rappresentati dai capi di famiglia; un tiranno: La libertà non può essere concessa a tutti; io non sono uno di quelli che reclamano l’indefinita libertà delle opinioni; un folle sanguinario: Per difendere il suo avvenire l’uomo ha il diritto di attentare alla proprietà, alla libertà, alla vita stessa dei suoi simili; per sottrarsi all’oppressione ha il diritto di opprimere, incarcerare, massacrare.
Il 9 luglio, dopo aver ottenuto il passaporto per Parigi, un po’ di denaro da mio padre e aver prenotato un posto sulla diligenza, sono partita alla volta della capitale. Vi sono arrivata l’11 e ho preso alloggio all’Hotel de la Providence, un nome veramente appropriato per quello che mi ero preparata a fare. Il 13 mattina ho acquistato alle Gallerie del Palais-Royal un coltello da cucina con una lama lunga dodici centimetri; alle sette di sera di quello stesso giorno sono stata ricevuta dal mostro, in Rue des Cordeliers, al civico 18: era in bagno, una stanza debolmente illuminata, immerso in una strana vasca a forma di scarpa, dalla quale emergevano soltanto parte del busto, le braccia e la testa avvolta in un logoro straccio; davanti a sé aveva una mensola grezza di legno colma di fogli scritti e di lettere. Ho atteso che mi interrogasse sulla situazione in Normandia, che mi chiedesse i nomi dei deputati della Convenzione Nazionale rifugiatisi a Caen e che li scrivesse. E dopo averli annotati ha detto, con il tono violento e arrogante di chi è sicuro della propria vendetta: «Prima di otto giorni andranno tutti alla ghigliottina.» Allora l’ho colpito.
Pochi attimi dopo sono stata arrestata. Quando sono uscita dalla casa del mostro, dove era rimasto il mio coltello lordo del suo sangue nutritosi tante volte del sangue di tanti francesi, legata e stretta tra le guardie, una folla minacciosa mi ha circondato, ma non ha osato toccarmi. Mi hanno condotta in prigione e lì mi hanno perquisita. Sotto il vestito, tra le altre cose, mi hanno trovato un foglio su cui avevo scritto il mio Appello ai francesi amici della legge e della pace:
Francesi! Voi conoscete i vostri nemici… Alzatevi! Marciate! Che la Montagna annientata non abbia più fratelli né amici! Ignoro se il cielo ci riserva un governo repubblicano, ma non può donarci un montagnardo per capo, se non altro per l’eccesso delle sue vendette […]. O Francia! Il tuo riposo dipende dall’esecuzione delle leggi; non ho nuociuto affatto uccidendo Jean Paul Marat: condannato dall’universo, lui è fuori dalla legge. Quale tribunale mi giudicherà? Se sono colpevole, Alcide lo era allora quando distruggeva i mostri!
O mia patria! Le tue disgrazie mi spezzano il cuore; non posso offrirti che la mia vita! E rendo grazie al cielo della libertà che ho nel disporne; nessuno perderà nulla con la mia morte; non mi ucciderò. Io voglio che il mio ultimo respiro sia utile ai miei concittadini, che la mia testa portata attraverso Parigi sia un segno di ripresa per tutti gli amici della legge! Che la Montagna vacillante veda la sua sconfitta scritta col mio sangue! Che io sia la loro ultima vittima e che l’universo vendicato dichiari che io ho ben meritato la mia umanità! Del resto, se si volesse vedere la mia condotta in un’altra ottica, me ne preoccuperei poco.
Che all’universo sorpreso questa grande azione sia oggetto d’orrore o d’ammirazione.
Il mio spirito, poco interessato di vivere nella memoria, non considera affatto il rimprovero o la gloria.
Sempre indipendente e sempre cittadina,
il mio dovere mi basta, tutto il resto è niente.
Forza, dovete pensare solo a uscire dalla schiavitù!
Questa mattina presto, 17 luglio, è iniziato il processo davanti al Tribunale Rivoluzionario... Mi hanno sommersa di domande e a tutte ho dato una risposta… Ho detto, a voce alta, che nella Francia non ci doveva essere più posto, né tempo per un mostro come Jean Paul Marat; che Marat, il mostro, non era l’amico del popolo, come lui stesso, attraverso il suo famigerato giornale sempre denso di orrori e di violenze, voleva far credere, ma il suo più pericoloso nemico; che uccidendolo volevo far cessare i disordini in tutta la Francia ed evitare la guerra civile; che avevo maturato questa idea fin da quando i girondini, i deputati del popolo, erano stati proscritti; che avevo voluto uccidere un uomo per salvarne centomila, uno scellerato per salvare degli innocenti.
Il Tribunale Rivoluzionario ha voluto leggere anche la lettera che ieri ho scritto a mio padre per spiegargli il perché della mia azione:
Perdonatemi, mio caro papà, di aver disposto della mia esistenza senza il vostro permesso. Ho vendicato delle vittime innocenti e ho evitato altri disastri. Il popolo, un giorno non più abusato, si rallegrerà di essersi liberato di un tiranno. Se vi ho fatto credere che sarei andata in Inghilterra, è perché speravo di mantenere l’incognito, ma ne ho riconosciuto l’impossibilità. Spero che non vi tormenterete. In ogni caso, credo che avrete dei difensori a Caen. Io ho scelto un avvocato, ma un tale attentato non permette difesa, è solo per formalità. Addio, mio caro papà, vi prego di dimenticarmi o piuttosto di volermi raggiungere nella mia sorte, poiché per questa causa ne vale la pena. Abbraccio mia sorella che amo con tutto il cuore e la mia famiglia. Non dimenticate questo verso di Corneille: il crimine fa la vergogna e non il telaio! Sarò giudicata domani alle otto. Questo 16 luglio.
Mi sono preparata al mio gesto con fermezza, con serenità compunta, con sicurezza al punto che ho stupito i miei giudici o meglio dovrei dire i miei carnefici tanto che essi hanno pensato che avessi dei mandanti o perlomeno dei complici... Addirittura uno di essi è stato scandalizzato, più che dal mio operato, dal fatto che avessi viaggiato da sola, senza l’indispensabile accompagnatore… Già!... Una donna ha fatto tutto ciò!... Forse è proprio questo il punto di tutta la questione, il problema, il dramma: una donna ha osato, da sola, pensare e fare una cosa da uomini come uccidere; ha osato viaggiare da sola; ha osato occuparsi di politica, cosa riservata solo agli individui di sesso maschile; ha osato, con un gesto di per sé intrepido ma ancora più eroico perché commesso da una donna, togliere la vita a un uomo, non a un uomo qualsiasi, ma a Jean Paul Marat… Il tribuno Chabot, accorso appositamente per vedermi, ha detto di me: «Questa donna ha l’audacia del crimine dipinta sul volto, sembra capace dei più grandi delitti; è uno di quei mostri che la natura, di tanto in tanto, crea per la disgrazia dell’umanità.»
La giuria del Tribunale Rivoluzionario, spaventata, ha votato frettolosamente la mia condanna a morte. In quel momento non ho pensato a me, bensì alla Rivoluzione che sta cambiando la Francia, ma che ha provocato anche tanti lutti, che sta affossando le ragioni per cui è nata, prime fra tutte il rispetto della vita e la libertà e che potrebbe andare avanti senza pretendere, come tributo da versare alla Storia, che gli uomini debbano per forza soffrire e morire.
**Arrivano gendarmi e sanculotti. Uno di loro taglia i capelli alla giovane condannata e le fa indossare un mantello rosso, l’abito riservato ai parricidi: Charlotte ha ucciso uno dei padri della Rivoluzione e ora, essi, i cosiddetti rivoluzionari, si sentono tutti orfani e non capiscono che in realtà sono stati liberati da un patrigno crudele e assetato di sangue. Pochi attimi dopo Charlotte Corday è sulla carretta, in piedi e con le mani legate, che la sta conducendo al patibolo. Scoppia un temporale; il suo viso brilla per la pioggia e il mantello bagnato rivela il suo bellissimo corpo di donna mentre tutt’intorno si levano urla barbare e sguardi feroci. Sale da sola le scalette che la portano faccia a faccia con la ghigliottina, da sola si stende a pancia in giù sulla tavola basculante, da sola infila la testa nella lunetta. Il passo verso la morte è brevissimo, ma ciò non impedisce a Charlotte, ancora una volta, di pensare.**
Penso che questi ultimi giorni della mia vita, in particolare questi ultimi attimi, non siano stati, pur nel loro abominevole orrore, momenti di sofferenza, ma di gioia; sono stati il coronamento di un desiderio appagato con la cognizione ferma, serena e sicura di aver cercato e raggiunto, sia pure attraverso un delitto, un bene infinitamente più grande; sono stati il prezzo che ho voluto e dovuto pagare per dare pace e una nuova vita alla Francia ridotta a un immenso patibolo e costretta a una lunga agonia. E con questa consapevolezza, io, Marie Charlotte Corday d’Armont, muoio felice.