PANE E YOGURT
Monologo di
Salvino Lorefice
SCENA: una modesta soffitta, dimora di uno studente universitario.
Lo studente sta leggendo un libro, ad alta voce; è all’impiedi, di profilo, sul lato destro della scena. Dopo aver chiuso il libro si avvicina al centro della scena.
STUDENTE (leggendo): “Mi siedo. Infilo un foglio nella macchina da scrivere. Stappo una birra. M’accendo da fumare”. (Chiude il libro).
(Si rivolge alla platea): Chiudendo il libro pensai che Charles Bukowski era veramente forte.
Gli ultimi soldi inviatomi dai miei genitori erano già finiti e mi trovavo a secco. Ed io dovevo pur mangiare.
Prima di mettere in atto il mio folle piano avevo provato di tutto: cercare un lavoro, saltare un paio di cene rimediando a mangiare pane e yogurt rubati alla mensa universitaria... Avevo persino chiesto in prestito dei soldi, che avevo già speso ma che dovevo pur restituire, prima o poi. Tutto, ma di soldi neanche l’ombra. Ed ho capito cosa significa essere veramente al verde. Ed ho riflettuto a lungo, prima di decidermi a fare quello scellerato passo che mai più rifarei.
Era dalle sette del mattino che aspettavo, leggendo questo libro. Faceva freddo. Eppure, se resistevano quei vecchietti - pensavo - perché non dovevo resistere anch’io? Tanto più che io ero riscaldato dai racconti del vecchio sporcaccione-ubriacone di Los Angeles (accenna al libro, mostrandolo).
Quei vecchietti erano alcuni pensionati che aspettavano l’apertura dell’ufficio postale, un vecchio ufficio postale di periferia di quella vecchia metropoli che è Torino.
Chissà con quale ansia quei vecchietti avevano atteso quel benedetto giorno, quello della loro pensione. Avevano trascorso la loro vita in una fabbrica, in una bottega, in un ufficio o in chissà quale altro buco, e avevano versato contributi, pagato tasse, versato sudore, versato sangue, versato vita, per poi venire a morire di freddo davanti ad uno squallido ufficio postale, in un giorno speciale, quello della riscossione. Alcune settimane fa un vecchio è morto assiderato, mentre aspettava che l’ufficio postale aprisse.
Io ero appostato alcune decine di metri più in là, dietro l’angolo e, tra una Storia di Ordinaria Follia e un’altra, riflettevo sul miglior modo di agire. Poi, finalmente, alle nove meno venti, la saracinesca si alzò e i vecchietti entrarono. Io non mi mossi e continuai ad aspettare.
Dopo circa mezz’ora vidi uscire un vecchietto. Si dirigeva verso di me, con aria allegra. M’è sembrato che fischiettasse, che sorridesse.
Appena il vecchio mi fu vicino, sbucai dal mio nascondiglio e mi diressi verso di lui facendo velocemente alcuni passi per sbarrargli il cammino. Il vecchietto non si rese conto di quel che gli stava per succedere.
“Stia calmo e non faccia l’eroe”, dissi con tono nervoso. Ma l’anziano signore mi guardò con aria impassibile. Era incredulo, sembrava non capire. Avrà avuto una settantina d’anni, forse di più, e indossava un cappotto che aveva già fatto il suo tempo.
“Questa è una rapina”, ritentai (estrae una pistola).
Stavolta il vecchio reagì perché vide la pistola che gli puntavo contro. In realtà era una pistola- giocattolo, ma lui non poteva saperlo. E infatti reagì istintivamente, alzando le braccia.
“Abbassi le braccia”, ordinai trascinandogli giù una manica del cappotto. E abbassò le braccia. Mi guardai nervosamente intorno. Un fruttivendolo guardava nella nostra direzione, rintanato nella sua bottega. Deve aver visto tutta la scena delle braccia alzate e subito riabbassate. Deve aver capito. Forse avrebbe telefonato alla polizia, da bravo cittadino. Io sperai di no.
“Mi dia tutti i soldi”, intimai al vecchio. “Svelto! E non cerchi di fare l’eroe.”
Solo allora mi resi conto che la mia educazione faceva sì che gli dessi del lei. Lo stavo rapinando della sua pensione, ma gli davo del lei. E quel “non faccia l’eroe ”, poi!
“Sbrigati, dammi i soldi,” farfugliai. Il vecchietto esitò e mentre, lentamente, prendeva i soldi dalla tasca interna del cappotto, avvolti in un fazzoletto, i suoi occhi luccicarono. E, sempre con gesti lenti, esitanti, mi porse il malloppo. Il malloppo!
“E’ la mia pensione di due mesi”, disse il nonnetto con un filo di voce. E tirò su per il naso. Io, incurante di quelle parole, presi i soldi e li contai. Chissà perché, ma li contai. Erano dodici banconote da centomila e qualche biglietto da mille. Tornai a guardare il vecchio. Ho la minima,” sussurrò il vecchio. “ Io e mia moglie ci campiamo due mesi.” I suoi occhi si erano arrossati. “Per il freddo”, pensai. Ma una lacrima gli si stava gonfiando. Ci guardammo a lungo negli occhi. “ Lasciami almeno i soldi della luce e del gas.” …La luce e il gas, sì!
A questo portava il mio alto Quoziente d’Intelligenza che tanto spesso vantavo di possedere? Questo voleva dire essere libero? Avevo arricchito la mia cultura per poi ridurmi a rapinare cadenti pensionati? Nella mia mente passarono veloci mille pensieri, tra cui delle tenere parole in favore di quell’essere così indifeso, così pietoso, più vittima del Sistema di quanto lo fossi io.
“Mi stai davanti nonnetto. Piangi, ma senza lacrime. Hai un nodo alla gola, ma ti dai un contegno – cerchi di darti un contegno. Molti altri alla tua stessa età hanno pensioni d’oro. Il loro riposo vale più del tuo?”
“Tieni i tuoi soldi”, gli dissi. Ero di mezzo secolo più giovane di lui, questo poteva bastare per farmi sentire più ricco senza bisogno di doverlo rapinare.
Venivo da un paesino e avevo già capito che in una metropoli è più facile perdersi che perdercisi. In quel momento ne avevo avute le prove.
Porsi i soldi al vecchio. Lui mi guardò. Poi fissò il denaro che gli porgevo. Poi tornò a guardarmi, infine si decise a prendere i soldi.
Ed io misi le mani e la pistola nelle tasche del giaccone.
Pistola e libro, a sfiorarli nella stessa tasca. Aveva vinto il libro.
“Non è con un milione che risolverò i miei problemi. Non ruberò più ai pensionati. Coraggio, nonno”.
Dissi queste parole per rassicurarlo, per fargli vivere serenamente gli ultimi anni o mesi, o giorni della sua vita. E fu a quel punto che vidi le lacrime spuntare dai suoi occhi. Lo vidi sfogarsi. Singhiozzava come un bambino e barcollò, tanto che dovette appoggiarsi al muro. Le braccia penzoloni, i soldi in una mano e il fazzoletto nell’altra.
Quando fui sicuro che non cadesse, presi ad allontanarmi e, prima di svoltare l’angolo, riuscii ad intravedere una macchina della polizia. Era ferma, e un poliziotto stava parlando col fruttivendolo, il quale indicava il vecchietto piangente. E piangendo ormai a dirotto, il pensionato mi guardava allontanarmi.
Il giorno dopo, nella “Cronaca Cittadina”, era riportato il “singolare episodio”. Il vecchietto aveva dichiarato che il mancato rapinatore aveva il viso coperto e che, quindi, non aveva potuto fornire alla polizia nessun indizio.
Quel giorno, nonostante il freddo intenso, io avevo il volto scoperto, e il vecchio mi aveva visto bene in faccia. Quella dichiarazione era stata la sua maniera di ringraziarmi. Forse. Il fruttivendolo, invece, si vantava di averlo salvato, di aver messo in fuga il rapinatore.
Buttai via il giornale, pensai che ero ancora senza soldi, diedi un calcio ad una lattina vuota e sputai rabbiosamente per terra. Anche quel giorno avrei mangiato pane e yogurt “prelevati” dalla mensa universitaria.
(BUIO).