Once I Was
Oltre la storia di Tim e Jeff Buckley
di Francesco Meoni
© 2014. Tutti i diritti sono riservati
Dal buio nascono le note della canzone Calling You.
Dolcemente una penombra avvolge le figure in scena: sembrano inconsistenti, come un sogno.
Un uomo seduto a un tavolo accende una lampada, apre una piccola cassetta di legno con dentro degli oggetti. Legge un foglio.
“Un vento caldo, secco soffia dritto verso me
Il bambino piange e non riesco a dormire
Ma sappiamo entrambi che un cambiamento è in arrivo
Arriverà vicino e ti libererà dolcemente
Ti sto chiamando
So che mi senti
Ti sto chiamando…”
(Ripone il foglio) A volte mi sveglio di notte e sento che qualcuno mi chiama. Sento quel suono liquido insinuarsi da sotto la porta come l’acqua che esce da una vasca. Resto in attesa, ma qualcosa sembra già accaduto. (Una medaglia in mano, la guarda) Mio padre.
(Rivolgendosi al pubblico) Mio padre aveva fatto la seconda guerra mondiale; era stato decorato e, a perenne memoria, aveva convissuto con una calotta d’acciaio nel cranio, per una mina antiuomo – sepolta in Europa – esplosa a poca distanza dalla sua testa, ma che io ho sempre pensato gli fosse esplosa dentro la testa.
Parte una musica dell’epoca.
Sono cresciuto a Bell Gardens nella contea di Los Angeles, al suono della musica di Frank Sinatra, Judy Garland, Ella Fitzgerald, che erano il mondo dorato di mia madre che io divoravo. Intanto sperimentavo le possibilità straordinarie della mia voce imitando autobus e macchine mentre giravo in bici per la città, e prendevo lezioni per imparare a suonare il banjo, che mi era stato regalato.
Nei primi anni ’60 si prediligeva il folk piuttosto che il jazz, io muovevo i miei primi passi come musicista, anche se mia madre aveva progettato per me un futuro da dentista. Con un padre con la placca e una madre fissata col tartaro, è lecito pensare di deragliare, o no? Papà un giorno cadde da un tetto al lavoro, battendo la placca. Da allora si aggravò. Peggio di come stava? Sì. Quella caduta gli fornì la ragione per bere sempre più alcolici. Ovviamente divenne ancora più strambo. Non era esattamente la cosa più normale per i vicini vederlo aggirarsi sul retro nel giardino avvolto da un lenzuolo come una mummia. Va be’ che aveva sempre avuto la passione dell’Antico Egitto, però… In più, il modo in cui mi trattava non accresceva certo la mia autostima. Il minimo che mi diceva era: “Deficiente!”
Comunque, devo confessare, anche se non avevo la placca, bere piaceva pure a me fin da piccolo.
Sono d’accordo con Jeff, quando dice che suo padre e sua madre hanno dovuto tutt’e due sputare merda per colpa dei loro padri. Jeff è mio figlio. Ah, scusatemi non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Tim Buckley. Musicista. Avete sentito parlare di me? No? Be’, allora conoscerete mio figlio Jeff Buckley. Manco lui? Allora di musica ci capite poco, cosa ci posso fare? Fa niente. Ma andiamo con ordine.
Dunque, eravamo agli anni ’60. Imperversava Bob Dylan, almeno questo lo conoscete, no? E noi c’eravamo appena trasferiti ad Anaheim dove cominciai a frequentare la Loara High School. Lì conobbi Larry Beckett e Jim Fielder, compagni di grandi marinate da scuola. Scappavamo a Los Angeles, che ci sembrava un’oasi di musei, gallerie d’arte e locali jazz. Intanto mio padre passava da un’occupazione all’altra. Cioè, da una disoccupazione all’altra. E così, durante l’ultimo anno di scuola fui costretto a trovare lavoro in un ristorante messicano per aiutare i miei genitori. A diciassette anni il mio futuro sembrava segnato: dovevo occuparmi della famiglia, e dopo il diploma iscrivermi a un piccolo college per imparare ad aggiustare i denti dei vicini. Capirete che la musica era la mia unica via di fuga!
Larry cominciò a scrivere testi ed io le melodie. Così iniziammo a suonare ad Anaheim e dintorni. Nel frattempo a scuola conobbi Mary. Anche quell’amore fu un’uscita d’emergenza. Dovevo sfuggire al carattere di mio padre. E lei al carattere del suo. Dopo una notte passata l’uno nelle braccia dell’altra in un parcheggio con lei che mi diceva che era stanca di prendere botte e non voleva più tornare a casa, decidemmo di fuggire, carichi di sogni e di speranze. Devo confessare però che non ero assolutamente convinto di quello che stavamo facendo. Confidai a Larry la voglia di tirarmi indietro, ma ormai non potevo più fermare la corsa.
La torta di nozze fu profetica: entriamo in cucina, il cane l’aveva mangiata quasi tutta. E ora agli ospiti cosa offriamo? Gli avanzi… una bella “torta di can di spagna” e “can diti” disse Larry ridendo… Tanto qualche leccatina di cane non ha mai ucciso nessuno. Finito il ricevimento a casa nostra, salutammo tutti e ce ne andammo in un hotel di Laguna Beach, e per aggiungere un po’ di brivido, con alcune monete facemmo partire il letto a vibrazione. Solo quando capimmo che il letto non avrebbe smesso di vibrare fino al mattino, decidemmo di dormire la nostra prima notte di nozze sul pavimento. E pure questo a ben vedere non fu proprio un segno incoraggiante.
Desideravamo una casa tranquilla, tutta nostra, e una vita familiare che fosse l’opposto di quella che avevamo conosciuto. Io continuavo a lavorare al ristorante messicano, Mary con la pancia sempre più grossa ritornò a scuola, ma fu presto costretta ad abbandonare perché non ci stava più nel banco. No, in realtà abbandonò perché era considerata una ragazza di facili costumi. Anche la nostra band non si può dire che andasse fortissimo, suonavamo cose che nessuno riusciva a ballare e così alle feste non ci ingaggiavano più. Ci chiamavamo i Bohemians. Ma, in quel periodo, altroché sregolatezza! La ripetitività cominciava ad aprire delle crepe enormi nel mio matrimonio. Il desiderio declinante e la gravidanza isterica di Mary aleggiavano pesantemente nell’aria. Sì, isterica; no, non era ancora Jeff. Jeff sarebbe arrivato dopo.
Jeff, mi senti? No, sì, non eri tu. Saresti arrivato dopo, hai capito? No, vedi, perché tu hai scritto che ci eravamo sposati nel 1966 ed eri in arrivo. Be’, non è precisissimo. Ma forse la mamma questa cosa non te l’ha mai raccontata. Poi sul tuo diario hai scritto anche… aspetta, ecco… (Lo prende, legge)
“Tim andò per alcuni concerti a New York e decise che non sarebbe più stato un marito, avevano tutti e due, mia madre e mio padre, diciotto anni o giù di lì… Mica male, eh?”
Già, hai chiuso proprio così: “Mica male, eh?” Un’ironia lanciata con una fionda dritta al bersaglio. Ahi ahi, Jeff. Mi hai fatto male.
(Torna a parlare al pubblico) In quel periodo tramite un amico avevamo conosciuto Herb Cohen, un tipo burbero che faceva il manager. Gli facemmo ascoltare le nostre canzoni e lui ci propose di firmare un contratto. Tra me e Herb Cohen si stabilì una particolare simpatia. Fu lui che mi disse di liberarmi del gruppo per iniziare la carriera da solista; e fu sempre lui a propormi di andare ad abitare da Jim, il mio amico, mentre mia moglie sarebbe andata a casa sua per badare alle sue bambine. Così – davvero era pazzesco – io e Mary ci vedevamo durante il giorno e alla sera tornavamo separati alle nostre residenze. In quello stesso periodo, alla fine di un concerto, conobbi Jane. Iniziammo a passare diverso tempo insieme… più di notte che di giorno… E così, mentre la mia vita professionale faceva un balzo in avanti, la mia vita privata si complicava sempre di più.
Avevo bisogno di andare a New York, sembrava ci fosse una casa discografica interessata alla mia musica, e chiesi a Jane di accompagnarmi. D’altra parte Mary non poteva, aveva le bambine di Cohen. Così, io e Jane andammo a vivere insieme e cominciai a suonare in qualche locale.
Musica.
Ero pazzo del fermento artistico di quella città. La musica sgorgava dalle finestre, dalle strade, dalle case: era tutto un concerto. A New York conobbi Lee Underwood, che sarebbe diventato il mio chitarrista. Dopo due mesi decidemmo, con Lee e la mia compagna, di tornare a Los Angeles in una casa sulle colline di Hollywood insieme a Jim.
No, non si parlava molto della tua imminente nascita, Jeff. Voglio essere sincero con te. Ero più preso dall’imminente nascita del mio primo disco. Vedi, un giorno parlando con Lee gli dissi che, tra la possibilità di ritornare da tua madre o di seguire il mio naturale destino, avevo deciso di… va' be’, lo sai… Insomma Jeff, non sono andato via perché non m’importasse di te, che stavi per arrivare, ma semplicemente perché la mia vita musicale era agli esordi. E poi non riuscivo più a sopportare tua madre. Ero troppo giovane per avere zavorre, troppo libero per i doveri, le responsabilità. A quel tempo ogni cosa mi sembrava possibile. In realtà non abbandonai te, abbandonai Mary. Sì, ci eravamo sposati ancora adolescenti e tutta quella faccenda, te incluso, era solo una roba di ormoni. Nella mia vita in quel momento non c’era posto per un figlio. Ma Mary decise di tenerti. E così, due giorni dopo la nascita del mio primo disco Tim Buckley sei nato anche tu. (Da uno spartito, legge)
“Il segno dei pesci vola in cerca del tempo
E mi parla del mio bambino
Avvolto in storie amare e tanta tristezza,
Implora un sorriso
A lei non ha mai chiesto di essere la sua montagna
Non ha mai chiesto di volare
E l’occhio le porge amore
E le dice di non piangere”.
OK Jeff, questa l’ho cantata nel mio secondo disco, non nel primo, hai ragione, ma la sostanza non cambia. Ero devastato, ero volato via, non potevo essere una montagna per nessuno. Avevo deciso di parlarvi nell’unico modo in cui ero capace, attraverso la mia musica. (Canta I Never Asked to Be Your Mountain)
“I never asked to be your mountain
I never asked to fly
Remember when you came to me
And told me of his lies
You didn’t understand my love
You don’t know why I try
And the rain was falling on that day
And damn the reason why
The flying Pisces sails for time
And tells me of my child
Wrapped in bitter tales and heartache
He begs for just a smile
O he never asked to be her mountain
He never asked to fly
And through his eye he comes his love
And tells her not to cry
She says: ‘Your scoundrel father flies
With a dancer called a queen
And with her stolen cards he plays
And laughs, but never wins’”.
…No (interrompe la canzone), non è così, Mary…
Io non ho mai chiesto di essere la tua montagna, chiaro? Sì, d’accordo, va’ bene, sono solo un lurido egoista!
Ecco avevo usato la parola maledetta, l’appiglio che li avrebbe messi al riparo nella loro nicchia: “egoista”. Una semplice parola per rimuovermi dalla loro vita. D’altronde non posso biasimarli perché in parte “egoista” lo sono stato davvero.
Però, Jeff, è stata una gioia postuma ma preziosa quando ho ascoltato le parole del tuo diario che parlava di noi. Come hai scritto di preciso? (Lo legge)
“Con un padre come quello, non sorprende che Tim avesse paura di tornare da me. Paura di essere mio padre. Questo perché l’unico modello di padre per lui era un folle squilibrato con una calotta d’acciaio in testa… Credo che dovesse essere un casino spaventato al solo pensiero di poter diventare come mio nonno. E di trattarmi allo stesso modo in cui suo padre aveva trattato lui e la sua famiglia. Puoi immaginare il tormento?”
Pausa.
Fred Neil. Quanti ricordi.
Vi stavo raccontando il mio primo disco: be’, andò male. Vendette poco, 20.000 copie, dicevano che come esordio era “interessante”, solo interessante. Decisi di tornare a New York e cominciarono tempi duri, soldi zero, si faceva la fame. Tutto questo mi distruggeva l’anima, nessuno che sapesse vedere la bellezza della mia musica, che sapesse amare i miei pensieri. Ma l’incontro con un nuovo produttore illuminò un po’ il buio in cui ero piombato. Anche assistere alle prove di Fred Neil mi confortò. Mi piaceva la sua duttilità nello sperimentare, sapeva esaminare lo stesso pezzo da più punti di vista, sapeva correre dei rischi.
“Ascoltami bene” diceva Herbie Cohen “a te serve qualcosa che passi in radio, perché non puoi fare queste stronzate da artista del cazzo. Insomma le tue pippe cervellotiche fattele nel cesso di casa tua!” Diceva che i miei pezzi facevano pensare troppo. Allora io e Larry ascoltammo alla radio la Top 40. Dopodiché componemmo una fiaba pop sulla marijuana, ma il pezzo era una vera cagata e così decidemmo: “Basta, mai più compromessi commerciali”.
Era il 1967 e a maggio iniziarono le registrazioni del mio secondo album. Il momento non avrebbe potuto essere migliore per il capolavoro che avevo in mente. Per Goodbye and Hello l’etichetta mise in preventivo anche le cosiddette spese per il giardinaggio, ovvero 250 dollari destinati all’acquisto di erba per i musicisti durante le registrazioni… E proprio per droga fui arrestato prima di un concerto. Ci fermarono per un controllo, avevamo due bustine con 20 grammi di marijuana, uscimmo su cauzione pagata da Herbie. Anche Herb aveva il fumo, ma che gli usciva dalle orecchie… (Ride) Era furioso. Malgrado la pubblicità per l’accaduto, il mio secondo long playing non andò oltre le 50.000 copie vendute, dunque guadagno scarso, e così i concerti divennero l’unico modo di fare un po’ di soldi. Oltretutto mi davano la possibilità di improvvisare e sperimentare, che era esattamente ciò di cui avevo bisogno in quel periodo.
All’altro versante, quello privato, avevo poco tempo da dedicare. Nei primi tre anni di vita di Jeff, a casa feci apparizioni occasionali. Una volta li portai tutt’e due, lui e sua madre, sulla spiaggia di Malibu. Avevamo una gran coperta addosso, e ce ne stavamo lì senza parlare, al vento.
Quei silenzi probabilmente avrebbero fatto da incubatrice al tuo dolore, vero Jeff?, a queste parole amare che non mi hai mai detto. (Sempre dal diario)
“Non avere un padre per me non è stato un problema – ripetevo orgoglioso – ma probabilmente sbagliavo. Ho sempre recitato la parte del bambino forte che sapeva cavarsela da solo. Cercavo di tacitare nel petto una sorta di caverna abitata da un’eco perenne: “PERCHÉ, PERCHÉ, PERCHÉ?” E alla fine mi ero convinto che doveva essere colpa mia, forse non ero stato abbastanza bravo, non ero un bambino abbastanza buono, abbastanza intelligente. Così la mia vita aveva incominciato a ruotare intorno a quel buco, un buco che sarebbe toccato a te riempire! Ho fatto della rabbia il mio approccio alla vita.
Sì, Ron è stato mio padre, non Tim, Ron… formalmente è così… intimamente no, non può essere così, avrei preferito a quel punto sapere di essere figlio di una persona morta, o che mi avesse abbandonato per sempre, ma Tim era lì tra noi, con la sua musica, negli occhi di mia madre, lui era lì tra noi, viveva nella stessa città, un fantasma che scardinava la mia vita nel profondo. Lo affogavo nel dolore dell’abbandono, cercavo di zavorrarlo con il peso del suo egoismo, per farlo scomparire sempre più in basso, sempre più giù. Ma lui era lì tra noi…”
(Chiude il diario) Certo, lo capisco Jeff, continuano a farmi male le tue parole e so che probabilmente c’era un desiderio di vendetta, ma anche di verità nel dire che il tuo vero padre è stato Ron: era lui che ti teneva in braccio, che ti portava al parco. Era lui che comprava tanti dischi: Cat Stevens, Chicago… Mary cercava di farti ascoltare la mia musica ma non sembravi molto interessato, eri piccolo e anche il tuo patrigno sembrava non gradire la mia evanescente presenza, le mie note, i versi delle mie canzoni.
Musica della canzone Once I Was. Legge il testo.
“E anche se hai dimenticato
Tutti i nostri stupidi sogni
Mi scopro a cercare
Attraverso le ceneri delle nostre rovine
Per i giorni in cui abbiamo sorriso
E le ore che correvano selvagge
Con la magia dei tuoi occhi
E il silenzio delle nostre parole
E a volte mi domando
Appena per un istante
Ti ricorderai di me?”
(Canta)
“Once I was a soldier
And I fought on foreign sands for you
Once I was a hunter
And I brought home fresh meat for you
Once I was a lover
And I searched behind your eyes for you
And soon there’ll be another
To tell you I was just a lie
Sometimes I wonder
Just for a while
Will you ever remember me?
And though you have forgotten
All of our rubbish dreams
I find myself searching
Through the ashes of our ruins
For the days when we smiled
And the hours that ran wild
With the magic of our eyes
And the silence of our words
Sometimes I wonder
Just for a while
Will you ever remember me?
Ever
Rembember me”.
Once I Was era nostalgia, era già il passato, come l’album che la conteneva. Ormai c’era attesa per il seguito di Goodbye and Hello. Pressioni dalla parte della casa discografica, mi ricordavano che c’era necessità di vendere e di pezzi che potessero essere trasmessi in radio, ma io non volevo scendere a compromessi. Volevo rischiare, improvvisare, catturare la bellezza della spontaneità. Ecco, questo sarebbe stato Happy Sad, il mio nuovo disco!
Vedi Jeff, a quel punto l’idea di te e di me, un padre e un figlio, non suonava più così estranea, ma provavo tristezza. Il vecchio Buckley, tuo nonno, era in carcere e mia madre, a causa del suo evidente squilibrio mentale, s’era separata da lui e io ero lì, tra un genitore e un figlio, inutile all’uno quanto all’altro. Dream Letter, che avevo inciso nel nuovo disco, era il mio modo per rompere il silenzio, per dare voce alla mia assenza.
Musica di Dream Letter. Legge il testo.
“Signora, il tempo se ne vola via
Ho pensato al mio passato
Oh, ti prego cara, ascolta le mie vuote preghiere
Dormi nei miei sogni, stanotte
Stanotte voglio conoscere solo te e mio figlio.
Oh, è un soldato o un sognatore?
È il cocco della mamma?
Ti aiuta quando può?
E ti chiede mai di me?
Proprio come un soldatino
Ho combattuto guerre
Che il mondo mai conoscerà
Ma non le ho mai vinte con clamore
Non ci son folle attorno a me.
Ma quando mi capita di pensare
Ai vecchi tempi
Quando l’amore era qui per restare
Mi chiedo se ci abbiamo mai provato.
Oh, cosa darei per abbracciarlo”.
Secondo alcuni il mio deragliamento artistico cominciò da qui, da quest’album. Dicevano che mi ero innamorato del mito dell’artista fallito e incompreso. Era l’estate di Woodstock, di Crosby, Stills, Nash & Young, dei Led Zeppelin, ma io sentivo che non avevo nulla da spartire con loro. Provavo indifferenza nei confronti del rock. In quella primavera anche il legame con Jane andò a rotoli…
Il vento aveva preso nuovamente a soffiare, bisognava mollare gli ormeggi, sperimentare… viaggiare verso nuove galassie… così è nato il disco successivo, Lorca. “Questo sono io” dissi “questa è la mia musica”. Ma ormai anche il rapporto con l’Elektra, la mia etichetta, era al capolinea. Dicevano che la mia musica era poco fruibile, che vendeva poco e si era diffusa la voce dei miei esperimenti indisciplinati, e anche del mio espandermi con erba e acidi. Ma quello lo facevano tutti. Solo che io arrivai a sniffare un po’ di eroina.
L’eroina fu in un certo senso inevitabile. Era per eccellenza la droga del Jazz. Miles Davis, Chet Baker, Fred Neil… L’eroina aveva anche la reputazione di confortare, rilassare chi ne faceva uso, creando una condizione di pace e serenità quasi fetale. Avevo il padre in carcere, una moglie divorziata, un figlio da mantenere, il mio rapporto con Jane era a pezzi, ma soprattutto la casa discografica e il mio manager odiavano la piega astrusa che aveva preso la mia musica. Continuavo a chiedere perché i miei dischi non vendevano, mi veniva risposto che erano stronzate perché non erano commerciali. Ero affranto. C’è invece chi dice che mi fossi avvicinato alla droga per paura di perdere mio figlio. La mia ex moglie Mary stava per sposarsi con Ron e probabilmente sarebbe andata a vivere in Australia. No, non fu questo il motivo, anche se la cosa mi turbava molto, infatti proposi a Mary una riconciliazione, un confronto che potesse placare quel malessere che avevo raccontato in Dream Letter. Ma Mary si era offesa per la tenera descrizione del bambino, diceva che era una favola che raccontavo alla gente. Il bambino aveva un bisogno quasi patologico di essere accettato, amato ed io invece me ne venivo fuori con una canzone ipocrita per farmi compatire dal mondo.
Mi sentivo in mare aperto, stavo affogando, non vedevo più nessun approdo davanti a me, solo acqua. Acqua. La mia vita sembrava fare acqua dappertutto: non ero un buon figlio, non ero un buon padre e forse non ero nemmeno un buon musicista. Volevo solo annullare quel tormento, sentivo che dovevo lasciare alle spalle pensieri pesanti e respirare. Ecco: sì, la droga fu un sospiro che mi alleggeriva e così il consumo crebbe in modo proporzionale alle mie angosce.
Sì, Jeff, hai ragione. Ci fu un’altra cosa in quel periodo che mi fece bene oltre alla droga. L’incontro con Judy e con suo figlio Taylor. È vero, il mio nuovo matrimonio con Judy sembrò pacificare la mia inquietudine. E forse è come l’hai descritto tu. (Legge dal diario)
“Quando Tim si innamorò di Judy e di Taylor, riempì di nuovo le loro vite: Judy sentì che il suo cuore era stato riaperto e rimesso a nuovo e Taylor si risvegliò. Fu quell’amore che li liberò dal gelo della loro tragedia. E fu il loro amore a liberare mio padre, dalla sua colpa”.
Il piccolo Taylor doveva essere aiutato a superare il trauma della morte del padre. Era con i genitori quando avvenne l’incidente in Messico. Io mi presi cura di loro. Nello stesso periodo, visto che il rapporto con l’Elektra si era concluso, firmai un contratto con un’altra casa discografica gestita da Frank Zappa e ancora da Herb Cohen… ma i nuovi produttori, guarda caso, volevano qualcosa di più commerciale e dunque nacque Blue Afternoon.
Musica della canzone Blue Melody.
In quella occasione ebbi modo di raccontare il mio dolore di figlio, la mia voragine.
“Un mattino d’estate venni cresciuto
Un mattino d’estate venni lasciato…”
(Canta)
“Well I was born a blue melody
A little song my mama sang to me
It was a blue melody
Such a blue
You’ve never seen
There ain’t no wealth
That can buy my pride
There ain’t no pain
That can cleanse my soul
No just a blue melody
Sailing far away from me
One summer mornin’
I was raised
But I don’t know
One summer morning
I was left
But I don’t know
One summer morning
So all alone
Late in ev’ning
I’ll sing in your dreaming
Down from the mountain
Along with the breezes
So close inside
Love grew smiles
So if you hear that blue melody
Won’t you please send it home to me?
It’s just my
Blue melody
Callin’ far away to me”.
Anche grazie a canzoni come Blue Melody le recensioni furono discrete. Ma lo shock fu quando, dopo quattro mesi, uscì Lorca, un album troppo avanti nel tempo, per palati fini, anche se il vero giro di boa – il più funesto per i produttori – fu Starsailor. Era il mio terzo disco in un anno, un LP difficile. Doveva essere il baluardo della mia indipendenza, dal Pop, dalle classifiche, e dai freni alla creatività. Furono in troppi a rimanere sorpresi da quel cambio di direzione …anche voi. Lo vedo… Certo non è musica per tutti. Ai concerti la gente sembrava presa alla sprovvista. I fans qualche volta mi urlavano: “Dai, facci ascoltare un vecchio pezzo!”. Ed io rispondevo: “Non sono più quello, se non sei soddisfatto, puoi anche toglierti dai coglioni!”. Ero rabbioso, non volevo cedere di un millimetro. Ero un fiume in piena, sentivo di aver cambiato pelle e la droga assunta in dosi sempre maggiori assecondava questa mia nuova dimensione.
Comunque Starsailor si rivelò un disastro commerciale, un vero fallimento. Herbert Cohen continuava a ripetermi: “Questa è masturbazione in pubblico, i tuoi ultimi dischi sono pieni solo di urla e puttanate, è un comportamento autodistruttivo del cazzo”. Ma io non avevo cambiato genere musicale, semplicemente usavo la musica come una sorta di tappeto volante in grado di portarmi verso nuovi orizzonti. Ma chi ha detto che la musica deve essere divisa per generi? La musica è musica, è già lì, pronta per essere trovata, stesa per terra, violentata, stuprata. Mi divertivo a suonare in quel modo, ma ormai l’asprezza del mio nuovo repertorio allontanava sempre di più il pubblico, i concerti avevano luogo in bar e piccoli locali della costa californiana, i compensi erano a volte di soli 50 dollari contro i 2000 di poco tempo prima. Avevo sempre amato gli alcolici fin dall’adolescenza, ma dopo l’ultima sciagura discografica e i recenti rovesci finanziari presi ad annegare il dolore e la confusione in dosi sempre più massicce di liquori e narcotici. La mia carriera, la mia musica e il mio conto in banca erano sull’orlo del baratro: mi consideravano un artista finito, avevo due famiglie da mantenere, ero frustato e depresso. E avevo appena compiuto venticinque anni.
Una sera, seduto a un tavolo in un bar con Dan, piansi tutte le lacrime di una vita. Piansi le lacrime di mio padre, piansi le lacrime di mio figlio.
Parte la musica di Calling You.
Immaginai cosa provasse nella sua impotenza, lui come me cercava solo attenzione e mi apparteneva. Ma come potevo essere stato così sordo? Continuavo a sentire quel suono liquido insinuarsi da sotto la porta come l’acqua che esce da una vasca e quel richiamo dolce che lentamente si andava svelando.
Ti ho chiamato tante volte anch’io nella solitudine della mia disperazione.
Purtroppo, Jeff, neanche tu eri destinato ad avere pace. Ron aveva una relazione con un’altra e si separò da Mary, malgrado fosse di nuovo incinta, e la prima vera figura paterna nella tua vita se ne andò. Seguirono anni difficili, altri uomini e altre liti. Immagino cosa provassi, e anche le tue parole lo testimoniano. (Di nuovo dal diario)
“Mamma era disperata per le difficoltà di tirare avanti da sola con me e mio fratello. Per integrare i magri guadagni ci mettemmo ad allevare animali da cortile, tra galline e oche apparve anche un tacchino che con sinistra preveggenza chiamammo Cena. Il suo destino era segnato come il mio. Mia madre mi faceva rabbia ma anche una gran pena quando, dopo l’ennesima separazione, diceva: ‘In qualunque posto possiamo stare tutti e tre insieme, quella è la nostra casa’… Partivamo con un numero impressionante di sacchetti. Le valige non sapevamo neanche che cosa fossero.
La musica rappresentò una fuga dal caos domestico. Un po’ com’era accaduto a mio padre qualche anno prima. I miei nonni, quel Natale del ’79, mi regalarono una chitarra, la prima canzone che imparai a suonare fu My Sharona”.
Si sentono gli accordi di My Sharona.
“Attraverso quello strumento mi incamminavo verso i sogni di Tim, provando a sentire con le dita ciò che aveva provato lui. Ero sulle tracce di mio padre per accorciare le distanze? Non lo so, forse era semplicemente una sfida per dimostrare che non avevo bisogno di lui. A quindici anni esibivo un impressionante talento musicale, ero consapevole ma anche molto spaventato, avevo le sembianze di mio padre, la sua voce, ma volevo la mia vita ben separata dalla sua, così decisi che sarei stato un chitarrista, non un cantautore. Era stato lui a perdere qualcosa non volendomi nella sua vita, non io!”
In effetti, Jeff aveva del talento, anche lui aveva lasciato la California per New York, sembrava rincorrermi (anche se guai a chi glielo diceva), ma il girovagare era lo stesso. Le inquietudini pure. Anche se non mi cercava o non ammetteva di cercarmi, sentiva l’odore dei luoghi che avevo attraversato.
Una volta entrò in un negozietto dove vide Dream Letter, il disco dal vivo che aveva ascoltato in anteprima pochi mesi addietro. Forse per il dolore, forse per il fastidio, uscì immediatamente…
Quella volta avevi scritto una lettera a un mio fan, vero Jeff? Eccola qua.
“Ho cercato di credere che mio padre mi amasse davvero, ma ho dei dubbi, desiderava vedermi, di questo sono certo, ma ha avuto paura per troppo tempo. Era solo un ragazzo che andava per la sua strada: va bene, lo capisco, ma come può un bambino impedirti di fare dei dischi, non voleva farsi incastrare dalla mamma? Niente coinvolgimento? Capisco tutto, ma amore per me, per suo figlio? No, questo non sa che cosa significhi”.
Il nuovo album, Greetings from L.A., fu un classico disco inciso per guadagnarsi da vivere: ero stato costretto a mettere in catene il mio cervello ed era nata una specie di rock radiofonico, fu una sterzata netta verso il commerciale, dovevamo vendere alla grande. I miei fans erano sempre meno, e sempre più disorientati. Nel frattempo stavo tentando di bere poco, anzi quando avevo i concerti non bevevo affatto. Cercavo di credere in quel Tim Buckley più morigerato, ma la mia vena creativa si inaridiva di giorno in giorno. Era questo il prezzo da pagare ai compromessi? Stavo così quando incisi il mio LP successivo, Sefronia, e mi sentii ancora più morto senza la mia chitarra a dodici corde mentre registravo. Non volevano che suonassi. Cantavo da solo dietro un vetro come un pesce in un acquario. La mia voce era fagocitata dal dolore. L’alcool e le droghe… sì, avevo ripreso… fecero il resto. Dicevano che avevo problemi psichici da borderline.
Come sarebbe successo a Jeff, la mia stranezza veniva incasellata in “sospetto di soggetto bipolare”. Io avevo solo il male dentro, una cosa che mi si era appiccicata addosso nel corso della vita e aveva smussato gli angoli della mia bocca sorridente. Mi accanivo con rabbia contro me stesso, contro il mio talento, certo non aiutò il fatto che Sefronia vendette ancora meno dell’album precedente. Malgrado questo, trovavo la forza di sperare ancora iniziando a registrare Look at the Fool, il mio nono album, ma in verità alternavo momenti di ottimismo a cupa disperazione, come scrissi a Lee Underwood. (Legge) “Siamo ciò che siamo, sappiamo ciò che sappiamo e non ci sono parole per la solitudine, la nera, aspra, dolorosa solitudine che nella notte rosicchia le radici del silenzio. La nostra fama va perduta, i nostri nomi vengono dimenticati, la nostra energia ci viene sottratta come terra di scavo mentre la sera stiamo qui e il fiume scorre. Se perdi la rabbia, perdi la musica”.
Già, se perdi la rabbia, perdi la musica… Perdere per perdere, preferii perdere Herbert Cohen e ritornai a suonare nei club.
Fu proprio in quel periodo…
Ricordo che tu, Jeff, sei venuto per la prima volta a un mio concerto. Nel camerino ti sei seduto sulle mie gambe come se lo avessi sempre fatto, eri eccitato e curioso, poi sei rimasto con me qualche giorno. Era l’occasione di entrare in contatto. Ma la lunga attesa aveva impietrito la voce a entrambi. Avevi solo otto anni Jeff, ricordi? Hai passato le vacanze di Pasqua da noi, forse ti aspettavi che ti dedicassi più tempo, e in verità avrei dovuto, ma non lo feci. Quei pochi giorni passarono in fretta e tu giocasti con Taylor, il figlio di Judy, io mi sentivo protetto in un qualche modo, forse volevo evitare che un tempo dedicato solo a te scoperchiasse ciò che avevo sepolto per anni. Prima che tornassi da tua madre, ti regalai una scatola di fiammiferi con il mio numero di telefono, almeno saremmo stati un po’ più vicini… ma credo che tu pensassi ad altro, ti sentii ripetere solo la parola “fiammifero”: il seguito di quella parola lo avresti portato a lungo nel segreto del tuo cuore. (Torna a leggere dal diario)
“Papà è stato terribile, era strano perché spesso avevo pensato a me come un fiammifero, e a te che lo usi gettandolo via. Così quando, dopo quei pochi giorni passati insieme, in cui ti avevo conosciuto un po’ di più, mi hai salutato scrivendomi il tuo numero di telefono proprio su una scatola di fiammiferi, ricordo che mi si è gelato il sangue. Un freddo interiore che non mi sarebbe passato neanche se tutti quei cerini fossero stati accesi contemporaneamente. Ne accesi otto, era il numero dei compleanni che non avevo festeggiato con te, e li spensi in silenzio. A te sembrò un gioco infantile, in verità era il mio modo di festeggiare tutti i compleanni della mia vita con mio padre… Non sapevo quando ti avrei rivisto…”
Ora capisco quanto ti sia sentito solo, ero preso come sempre da me, dai miei sogni, dalla mia musica, forse non reggevo il confronto con te che eri in attesa di un gesto, di una risposta da parte mia. Verrà il tempo, mi dicevo, verrà il tempo in cui sarai più grande e avrò modo di spiegarti. Mi sono distratto, mi sono perso, ammaliato com’ero dal canto delle sirene. Forse pensavo proprio questo quando ho scritto Song to the Siren, mi sentivo inchiodato a un destino ineluttabile che dava senso alla mia vita rendendola impermeabile agli altri. (Canta Song to the Siren)
“Long afloat on shipless oceans
I did all my best to smile
‘Til your singing eyes and fingers
Drew me loving to your isle
And you sang
‘Sail to me, sail to me
Let me enfold you
Here I am, here I am
Waiting to hold you’
Did I dream you dreamed about me?
Were you here when I was fox?
Now my foolish boat is leaning
Broken lovelorn on your rocks
For you sing
‘Touch me not, touch me not
Come back tomorrow
Oh my heart, oh my heart
Shies from the sorrow’
I am puzzled as the oyster
I am troubled as the tide
Should I stand amid your breakers?
Or should I lie with death my bride?
Hear me sing
‘Swim to me, swim to me
Let me enfold you
Here I am, here I am
Waiting to hold you’”.
E le sirene esercitarono lo stesso effetto su di te, quando diversi anni dopo ti ammaliarono e ti fecero suonare a quel famoso concerto. Avresti voluto resistere Jeff, lo so, ma dovevi legarti all’albero maestro. Il loro potere era troppo forte.
Già, perché in quel periodo a New York, le porte della musica sembravano chiuse per Jeff. Non riusciva a svoltare, malgrado si desse da fare in tutti i modi per suonare. Per mantenersi, per un periodo aveva lavorato come commesso, come centralinista, era frustrato e si sentiva fallito, aveva la consapevolezza che nella sua vita ci sarebbe stata la musica o niente, e la salvezza arrivò dalla più improbabile delle fonti: Herb Cohen, dal quale si era mantenuto a distanza. Herb gli fece una proposta allettante, si offrì di aiutarlo a registrare un nastro di canzoni originali. Nella sua situazione l’offerta di Herb rappresentava in quel momento l’unica reale possibilità di incidere la sua musica. Poi arrivò una telefonata da parte di un’amica di Cohen e l’invito a suonare una mia canzone a un concerto.
In quell’occasione non passò inosservato né il talento né la rabbia di Jeff, quelle strazianti parole di abbandono di I Never Asked to Be Your Mountain, erano una vendetta nei miei confronti. Aveva voluto evitare per anni di essere associato a me e ora ecco che l’industria discografica s’interessava a lui per il suo cognome. Probabilmente era il contrario di ciò che desiderava, ma dopo quel concerto, anche se non immediatamente, la sua carriera decollò.
Cominciò a spopolare al Sin-é, un piccolo locale nel Village a New York. Il successo gli esplose tra le mani. Quando firmò per la Columbia forse era più spaventato che felice…
Per promuovere Live at Sin-é, il suo primo disco, un EP, ovvero una raccolta di cover e alcune sue canzoni originali, lui e la sua band erano partiti per una tournée nel Nord America e in Europa. Jeff era stato definito l’evento più importante della scena londinese. Visto il discreto successo, la sua casa discografica aveva avviato una campagna promozionale per il suo primo album completo: Grace. E fu così che lui scelse proprio il Sin-é per dare un ultimo saluto ai vecchi fans, proponendo tutti i suoi pezzi migliori, anche quelli che avrebbero fatto parte del nuovo disco, come Dream Brother ad esempio, che era chiaramente un’altra freccia avvelenata in serbo per me.
Parte la musica.
“Fratello di sogno
Con le lacrime sparse per il mondo
Non essere come colui che mi ha fatto diventare così vecchio
Non essere come chi ha lasciato
solo un nome dietro di sé
Perché ti stanno aspettando, come io ho aspettato il mio
E non è mai arrivato nessuno…”
Ed è Jeff ora che canta, interpretando Dream Brother.
“There is a child sleeping near his twin
The pictures go wild in a rush of wind
That dark angel he is shuffling in
Watching over them with his black feather wings unfurled
The love you lost with her skin so fair
Is free with the wind in her butterscotch hair
Her green eyes blew goodbyes
With her head in her hands
And your kiss on the lips of another
Dream Brother with your tears scattered round the world
Don’t be like the one who made me so old
Don’t be like the one who left behind his name
’Cause they’re waiting for you like I waited for mine
And nobody ever came…
I feel afraid and I call your name
I love your voice and your dance insane
I hear your words and I know your pain
With your head in your hands and her kiss on the lips of another
Your eyes to the ground and the world spinning round forever
Asleep in the sand with the ocean washing over”.
Con il suo ultimo spettacolo al Sin-é, Jeff stava per dire addio non solo agli spazi creativi di un tempo, ma a tutta una vita: entrava a far parte di un gioco più grande certo, ma anche più temibile e opprimente. Ormai aveva spiccato il volo: 400.000 copie di Grace, ma soprattutto i concerti e quel magnetismo da angelo dannato che rapiva il suo pubblico. L’incanto però si era rotto presto, e cominciava a provare astio contro i funzionari della Sony. Appena si era preso la sua libertà, ad esempio quella di sperimentare dal vivo, ecco che qualcuno veniva a ricordargli che un recinto esisteva, e che non poteva certo permettersi di danneggiare le vendite… e bla bla bla…
Ahi… ahi, Jeff, anche questo mi ricorda qualcosa… Che smacco però… io avevo cercato in tutti i modi di far conoscere la mia musica, avevo inciso nove dischi ed ero rimasto un cantautore di nicchia, tu invece, che sembravi schivare la celebrità, con un solo album avevi conquistato una fama planetaria.
Jeff di nuovo, stavolta canta Grace.
“There’s the moon asking to stay
Long enough for the clouds to fly me away
Well it’s my time coming, I’m not afraid to die
My fading voice sings of love,
But she cries to the clicking of time
Of time
Wait in the fire…
And she weeps on my arm
Walking to the bright lights in sorrow
Oh drink a bit of wine we both might go tomorrow
Oh my love
And the rain is falling and I believe
My time has come
It reminds me of the pain
I might leave
Leave behind
Wait in the fire…
And I feel them drown my name
So easy to know and forget with this kiss
I’m not afraid to go but it goes so slow”.
Tim riprende.
“Sta arrivando la mia ora, non ho paura di morire
La mia voce si dissolve cantando l’amore,
E la pioggia sta cadendo ed io credo
Che la mia ora sia giunta
Mi ricorda il dolore
Potrei lasciarmi
Lasciarmi tutto alle spalle
Aspetta nel fuoco…
E lì sento affogare il mio nome…”
A pensarci ora mi fanno venire i brividi le parole di Grace…
La sua grazia si era sparsa come polline sul mondo. La sua popolarità era cresciuta velocemente: era andato in classifica in Gran Bretagna, era diventato una star in Irlanda, a Parigi aveva vinto un premio prestigioso. L’Europa e l’Australia erano pazze di Jeff, e tutti si aspettavano un seguito. Il piano marketing prevedeva a brevissimo l’uscita del suo secondo album. Quel suo primo disco, Grace, era stato uno squarcio potente, i discografici lo sapevano bene e in alcuni casi lo assecondavano quando puntava i piedi: ad esempio Jeff aveva cercato di tenere in tutti i modi lontano da sé il mio nome, addirittura con una clausola che, se fossero comparse frasi tipo “il figlio di Tim Buckley” in qualche locandina durante il tour, poteva annullare il concerto… Lo so, detta così non fa molto piacere, ma capisco cosa può aver rappresentato per lui, al di là del dolore personale, cercare la sua strada individualmente.
Doveva essere esasperante avere a che fare con quella palla di fuoco dentro di sé, e comprendo la sua reazione quella volta che, in un club di Denver, una schiera di miei ammiratori si assiepò davanti al palco di Jeff gridando per tutto il concerto i titoli delle mie canzoni. Alla fine, irritato e rabbioso al tempo stesso, fu costretto a soccombere: “E va bene ve la faccio”. Mentre arpeggiava le prime note di Once I Was, si rivolse al pubblico con queste parole: “Voglio che sappiate una cosa. Non odio mio padre, anche se qualche volta mi è capitato. È la prima e l’ultima volta che ascolterete questo pezzo, ve lo giuro sul vostro stramaledetto Dio”. A brano concluso, si voltò verso di loro e disse: “Soddisfatti ora? Adesso tenete quella cazzo di bocca chiusa per il resto della serata…”.
Be’, Jeff, hai detto una mezza bugia. Era vero solo in parte, perché l’avevi già suonata a quel famoso concerto. Quella sera nella chiesa di Saint Ann a Brooklyn, non avevi solo fiele per me cantando I Never Asked to Be Your Mountain: quando hai intonato Once I Was, canzone più dolce, meno carica di rabbia, sono venuti i brividi a tutti i presenti, anche se nessuno sapeva ancora chi fossi.
Ancora Jeff, che canta una strofa di Once I Was.
“Once I was a soldier
And I fought on foreign sands for you
Once I was a hunter
And I brought home fresh meat for you
Once I was a lover
And I searched behind your eyes for you
And soon there’ll be another
To tell you I was just a lie”.
All’improvviso, mentre suoni ti si rompe una corda della chitarra e devi finire il pezzo a cappella, lo fai non senza fatica come parlando a un fantasma:
“Sometimes I wonder
Just for a while
Will you ever remember me?
Ever
Rembember me?”
Il pubblico è commosso, resta in silenzio, un’onda lo travolge e porta una rivelazione: dunque lui è il figlio di Tim.
Era un concerto in mio onore. Scusate ma non vi ho detto il perché.
Avevo suonato a Dallas, (sulla musica della canzone Pleasant Street) negli ultimi tempi avevo tentato di farla finita con alcool e droghe, cercavo di ridefinire la mia carriera artistica, erano due anni che ero pulito. Tornai a Los Angeles, ma prima di andare a casa mi feci accompagnare a Venice per salutare un amico, Richard Keeling. Ero rilassato, avevo bevuto in aereo, lo ammetto… forse ero un po’ brillo…
“Non ti ricordi cosa dire
Non ti ricordi cosa fare
Non ti ricordi dove andare
Non ti ricordi cosa scegliere
Ruoti, rubi, senti, t’inginocchi…
giù… giù… giù…
Non ce la facevo ad aspettare
E non vedevo l’ora di ritornare
a Pleasant Street”
(Canta Pleasant Street)
“You don’t remember what to say
You don’t remember what to do
You don’t remember where to go
You don’t remember what to choose
You wheel, you steal, you feel, you kneel down…
down… down… down…
All the stony people
Walking ’round in Christian licorice clothes
I can’t hesitate
And I can’t wait
For Pleasant Street
The sunshine reminds you of concreted skies
You thought you were flying but you opened your eyes
And you found yourself falling back to yesterday’s lies
Hello, Pleasant Street, you know she’s back again
You wheel, you steal, you feel, you kneel down…
down… down… down…”
Casa di Richard era la mia Pleasant Street. Sniffai eroina, forse solo per assaporare di nuovo un momento di oblio, o forse perché avevo bisogno di qualcosa per la mia depressione. Mi addormentai in macchina mentre mi accompagnavano a casa: ero senza forze, la mente sconnessa, poi svenni, era frequente negli ultimi tempi a forza di sedativi. Ero privo di sensi e stavo diventando cianotico, Judy era spaventata, aveva chiamato Richard per sapere cosa fosse successo a casa sua: un infermiere che viveva nello stesso condominio usò lo stimolatore cardiaco, ma il tentativo fallì. Arrivò l’ambulanza e mi portò al pronto soccorso dell’ospedale di Santa Monica, dove il mio cuore cessò di battere alle 21:42 del 29 giugno del 1975. Sono morto a ventotto anni.
Una combinazione letale di eroina e alcool, un’overdose, come velenosamente hai mimato a Parigi durante un concerto a chi ti chiese un mio pezzo. Fatalità, suicidio? scrissero i giornali. Per i miei pochi fans rimanevano domande senza risposta, ed echeggiarono a lungo, così come quella sfilza di perché sul tuo diario:
“Perché? Papà… Perché continui a non rispondermi, ti sto chiamando, lo so che mi senti, ti sto chiamando… ho dovuto accettare ancora una volta… che non ti avrei più rivisto, te ne andasti di nuovo… ma per sempre!!! Io non lo immaginavo quel giorno che ci salutammo alla fermata dell’autobus, ero solo un bambino, perché dovevo pensare di non rivederti più? Erano passati solo pochi mesi da quella Pasqua insieme, ti avevo appena conosciuto… ma questa volta te ne eri andato ancora più lontano, lì non avresti avuto doveri e sensi di colpa, probabilmente pensavi che qui il tuo tempo fosse finito, che la tua musica non servisse più a nessuno… Ma come hai potuto farlo, come hai potuto distruggere te stesso e me? a me servivi, perché mi hai fatto questo? Non dovevi, perché io avevo bisogno di te, delle tue parole, delle tue mani, di quegli abbracci che ti fanno crescere, perché dentro c’è la sicurezza del mondo. Avrei voluto sentire le tue carezze e i tuoi rimproveri, i tuoi no e i tuoi sì, cose semplici che racchiudono l’essenziale. Avrei potuto amarti, lenire il tuo dolore, avrei voluto dirti che ti avrei lasciato libero, che probabilmente anch’io sarei andato via inseguendo i miei sogni, perché… perché non me ne hai dato modo, perché non mi hai dato il tempo?
Ancora una volta mi ritrovavo con le mie domande… ma in questa occasione non avrei avuto alcuna risposta, mi ha fatto molto arrabbiare non esser stato presente al tuo funerale, si erano dimenticati di invitarci… non sarei mai più stato in grado di dirti qualcosa. Per questo usai quel concerto in tuo onore, per darti il mio ultimo saluto”.
Sotto il profilo lavorativo, le cose non erano certo più tranquille per Jeff: l’uscita di Grace, le lunghe tournée, duecentosette concerti uno dietro l’altro, le incomprensioni con la casa discografica rispetto al lancio, la promozione, le interviste con le domande su di me che erano sempre dietro l’angolo l’avevano completamente fiaccato. E adesso che erano passati tre anni da quel primo disco, che comunque aveva venduto 750.000 copie, la Columbia – che aveva investito più di 2.000.000 di dollari – manifestava tutta la sua impazienza. Ma il secondo album non arrivava. Dicevano che lui era cambiato, che si comportava in modo strano, un po’ paranoico, che aveva problemi con il gruppo, e che l’alcool e qualche saltuario approccio alla droga avevano cominciato a essere il suo rifugio.
Era l’ultima tappa di un tuo segreto viaggio all’interno della mia mente? Era questo, Jeff? Oppure era solo per il potere rilassante della droga, a fronte delle pressioni per il tuo secondo album? Cominciato, interrotto, ripreso, ripensato, macerato, risuonato, odiato, amato, mai finito. E tu? Eri sfiduciato, depresso, con il sospetto che qualcosa mandasse chimicamente in tilt il tuo cervello? Alla fine forse ti eri ricordato di quanto fossi stato anch’io condizionato dai discografici e così avevi deciso di mettere un muro tra te e loro, che non fosse la droga, no, bensì la distanza. Dovevi ritrovare un tuo habitat spirituale, artistico, com’eri solito dire: “L’etichetta vuole che tu sia in un certo modo, la gente ti vuole in un altro modo ancora e tu vorresti solo essere te stesso”.
Spinto da questo, avevi deciso di lasciare New York per la più accogliente Memphis. Con te era venuto un produttore importante come Tom Verlaine, avevate provato, inciso del materiale, diversi nastri, ma non eri completamente soddisfatto, eri rimasto lì, avresti lavorato solo e poi mandato i pezzi al gruppo a New York e una volta che tutto fosse stato pronto ti avrebbero raggiunto per le registrazioni. Infatti dopo qualche mese… eccoli in arrivo a Memphis la sera del 29 maggio del 1997. Nell’attesa dell’arrivo dei musicisti e non avendo trovato la sala d’incisione perché non ricordavi la strada, proponi al tuo amico Keith Foti di fare un bagno nel Wolf River. Keith non vuole, prova un pezzo, tu invece vestito cammini verso l’acqua.
Musica di Calling You.
L’acqua ti aveva accolto, l’acqua era nelle nostre vite, nelle nostre canzoni, sento più forte ora quel suono liquido insinuarsi da sotto la porta come l’acqua che esce da una vasca, e quella voce… solo ora la sento con chiarezza… ti sto chiamando anch’io… ti ho chiamato a lungo quella notte dentro il fiume, non mi hai ascoltato, non potevi sentirmi. Se solo avessi potuto interpretare i segni, se solo mi fosse stata data la possibilità, avrei avversato l’acqua in tutti i modi, se solo avessi immaginato, non avrei chiamato una mia canzone The River. Avrei potuto fare di più… non sono riuscito a spiegarti, non ne ho avuto il tempo, non sono riuscito a salvarti, non ne ho avuto il modo. Eppure ho sempre immaginato che esistesse un angelo custode che avesse il potere di intervenire, invece sono qui impotente, e urlo, urlo: è mio figlio quello, ma nessuno mi ascolta, perché? No, no… vi prego, anche lui no, è troppo giovane, no per favore? Avrei dovuto pensarci prima, avrei potuto essere con te prima, questo… questo mi mangia il cuore come se fossi vivo, perché tu lo avevi detto, lo avevi scritto chiaramente nelle canzoni che dovevi incidere:
“Resta con me sotto queste onde stanotte
Sono una bolla nell’acqua che va verso un chiodo
Che mi ha inghiottito e trascinato giù…
Ah la calma sotto quel fiume selvaggio e contaminato”.
Quella notte del 29 maggio, mentre nuotava nell’acqua del fiume, Jeff si sentiva libero, come non gli accadeva da tempo. Il semplice fatto di essere in acqua era già un segno di cambiamento, l’acqua era misteriosa, lo aveva sempre inquietato… ma quella sera era diverso, qualcosa dolcemente sembrava sciogliersi. Ascoltarsi mentre imitava i Led Zeppelin cantando Whole Lotta Love, lo faceva sentire in pace con se stesso. Probabilmente fu fatale l’onda creata dal vaporetto passato vicino, che inghiottì il suo corpo restituendolo solo alcuni giorni dopo. “Fatalità? Suicidio?” scrissero i giornali. Aveva trent’anni. (Un’ultima volta, dal diario)
“Look at the Fool, l’ultimo album di mio padre, Dio mio è insostenibile”.
Hai scritto proprio così.
“Mi viene un gran desiderio di stringere quell’uomo, abbracciarlo, baciarlo e chiedergli: ‘Ti prego Tim, fammi suonare per un po’ nel tuo gruppo così la smettiamo con questa robaccia funky, Starsailor non è stato un fallimento. La sua bellezza è intoccabile, io credo che tu debba smettere di pensare a morire. Ti aiuterò anche se dovessi fallire”.
No, non abbiamo fallito, Jeff. Era il sogno che portavi nel cuore: due musicisti su un palco, la stessa età, un padre e un figlio che cantano il loro destino.
E Tim e Jeff cantano insieme per la prima volta.
“Baby I’ve been here before
I’ve seen this room and I’ve walked this floor
I used to live alone before I knew you
I’ve seen your flag on the marble arch
But love is not a victory march
It’s a cold and it’s a broken hallelujah
Hallelujah, hallelujah, hallelujah, hallelujah…
Well, there was a time when you let me know
What’s really going on below
But now you never show that to me, do you?
But remember when I moved in you
And the holy dove was moving too
And every breath we drew was hallelujah
Well, maybe there’s a God above
But all I’ve ever learned from love
Was how to shoot somebody who outdrew you?
It’s not a cry that you hear at night
It’s not somebody who’s seen the light
It’s a cold and it’s a broken hallelujah
Hallelujah, hallelujah, hallelujah, hallelujah…”
Fine