Non voltarti indietro
di Chiara Boscaro
© 2011. Tutti i diritti sono riservati
SPAZIO
Una stanza vuota, buia.
Fuori, un uomo, davanti a una porta chiusa.
PERSONAGGI
Lei. 27 anni.
Lui. 30 anni.
PRIMO GIORNO
Stanza vuota e chiusa, semibuia. Un lavandino. Una radio accesa. Un fornelletto da campeggio e una caffettiera sul fuoco. Lei è sola e rannicchiata sull’unica sedia. Fa avanti e indietro, per controllare quando sale il caffè. Cammina a volte trascinandosi, a volte veloce, a scatti. Guarda nel vuoto.
LEI: (tra sé) Che poi, non è che tu ne abbia bisogno. È un qualcosa da fare, è un qualcosa che controlli. Sviti la parte superiore, svuoti l’imbuto, sciacqui la caldaia e la riempi d’acqua nuova fino alla valvola, non di più, apri il barattolo, ne prendi due cucchiai, pareggi la superficie senza disperdere polvere – non perché venga più buono, ma per non disperdere polvere, ché ne trovi sempre in giro, ché si brucia sul bordo… non ci riesci davvero, a farlo pulito, non ci riesci – poi giri giri giri e metti sul fuoco. Vivace ma non troppo, se no si brucia pure lì. Non sei capace di aspettare, è inutile. Apri subito il coperchio per vedere quando sale. È che ci mette un sacco, a salire. E non sei capace di fare finta di niente, è inutile. Sei tu. Continui a guardare, come una scema, come se così dovesse farlo prima – il fischio – ma non lo fa, non lo fa mica. Si prende tutto il tempo del mondo e non fischia subito, ma dopo cinque. Sei. Tanti minuti. E non sa mai del caffè del bar, vero, non ha la schiuma, vero, sa di bruciato. Non lo sai fare, è inutile.
Fischio della caffettiera. Lei aspetta qualche secondo, poi si alza e raggiunge il fornelletto. Spegne il fuoco e torna a sedersi rannicchiata. Lui bussa alla porta chiusa. Lei non reagisce.
(tra sé) Ha un buon odore, il caffè. Impregna tutto, cancella tutto. È che lo riconosci sempre, è un odore caldo. L’odore che c’è al mattino. È un continuo risveglio, come una specie di…
Lui bussa alla porta. Lei non dà segno di aver sentito. Si alza, va al fornelletto, solleva la caffettiera e versa il caffè a terra. Poi prepara di nuovo la caffettiera e la mette sul fuoco.
LUI: Sono io.
LEI: Al mattino, in piazza si sente quell’odore, anche se non è quello. È che non è come questo qui, l’odore. Quello non è bruciato, quello è del bar, è buono, e poi sparisce, dopo un po’. Quella è la fine della mattina, è il segnale. In casa no, invece. In casa resta, se non ci metti un altro odore sopra.
LUI: Lo so che sei lì dentro.
LEI: Che poi, è un odore che un po’ inacidisce, quando diventa freddo. Rimane nell'aria, nella stanza, amaro. Ma basta riscaldare la stanza, basta il sole, e lui torna, come, lui torna indietro.
LUI: Apri. (Bussa alla porta. Insistentemente)
LEI: (udibile) Sono fuori a comprare le sigarette.
LUI: Non fare finta di non conoscermi.
LEI: Tra cinque minuti.
LUI: Mi apri, per favore?
LEI: No, grazie.
LUI: Mi sento un idiota, qui a parlare con la porta.
LEI: È blindata.
LUI: È diversa. L’hai messa nuova.
LEI: Questa non la butti giù mica, me l’ha promesso il tipo del negozio.
LUI: Vorrei parlare con te. Come due adulti. E magari senza una porta di mezzo, ecco.
Lei non risponde. Si alza e torna a controllare il caffè.
Mi devi delle spiegazioni.
LEI: (torna a sedersi. Poi, tra sé) La cosa che ti piace di più è quando si svuota l’imbuto, prima di prepararne uno nuovo. Si estrae l’imbuto e si rovescia.
LUI: Mi mandi via senza una parola, una spiegazione…
LEI: Meglio se stai sul lavandino, che tu lo fai cadere sempre.
LUI: Ti do due mesi, non mi faccio sentire perché hai bisogno di pensare, startene da sola, eccetera, come dicevi tu.
LEI: Prendi l’imbuto, lo giri e soffi nel buco, con una mano sotto.
LUI: Due mesi, lo hai detto, no? E poi?
LEI: Se sei brava, ti trovi un cilindro perfetto, umido e lucido, nero, che non si sgrana, e poi lo butti via e quando cade tra gli altri rifiuti, allora sì, lì si sgrana, e torna polvere.
LUI: Non una chiamata, niente. (A bassa voce) Sto male.
LEI: Polvere nera, senza odore. Morta.
LUI: Ti diverti? (Piccola pausa) Sto male.
LEI: Adesso sono molto impegnata.
LUI: Posso aspettare.
LEI: Ascoltami.
LUI: Io non capisco, non ce la faccio, forse sono stupido, non lo so.
LEI: È… finita.
LUI: Cosa?
LEI: Non si dice così?
LUI: Ma perché?
LEI: Non basta?
LUI: No, che non basta. Cosa vuol dire, “è finita”? Ma guarda questa, “è finita”, lei dice… “è finita”, e punto.
LEI: Vai via. È meglio così.
LUI: Dovrai uscire, prima o poi.
LEI: No.
LUI: Dove vuoi che vada, non vado via da solo.
LEI: Ti ho detto tutto quello che volevi sapere.
LUI: Niente di quella roba aveva senso, maledizione. Dimmi perché non vuoi stare con me. E basta. Me lo devi.
Silenzio.
Non mi offendo.
Silenzio.
Hai un altro? Stai con un altro?
LEI: Ridicolo.
LUI: Scopi con qualcun altro. Ho ragione.
LEI: E continua a insistere, pure.
LUI: Voglio solo sapere. Così mi metto il cuore in pace. Cosa devo fare, maledizione?
LEI: Per il tuo bene…
LUI: Seh, come no… “Fidati non è colpa tua se non ti dico niente, è per difenderti” eccetera, eccetera…
LEI: Vattene.
LUI: Non fare la bambina.
LEI: Non fare il paternalista!
Pausa.
LUI: Non ci credo. Vuoi davvero lasciarmi qui fuori? Cos’è? Hai paura? Di cosa? Mi conosci. Non sono arrabbiato, voglio solo capire. (Bussa) Smettila, non è divertente, davvero. Apri. (Piccola pausa) Apri, ho detto!
Il caffè comincia a salire per l’ennesima volta. Lei si alza.
Buio.
SECONDO GIORNO
Lui è ancora dall’altra parte della porta. Ha una maglietta diversa. Lei sta rovesciando il caffè. Lui bussa.
LUI: Fammi entrare.
LEI: Sono in giardino, non sento.
LUI: Guarda che stavolta non me ne vado.
LEI: Invece sì.
LUI: Aspetto qui finché non apri la porta.
LEI: Accomodati.
LUI: Tanto non ho impegni. Un sacco di tempo libero. Mi sono portato pure la sedia.
LEI: Ce l’ho anch’io.
LUI: Ti diverti molto, vero? (Pausa) Rispondi. (Pausa) Ti diverti a lasciarmi qui fuori come un idiota? (Pausa, lui avvicina il volto alla porta) Parla, maledizione! Vieni qui! Che cos’è questo? Caffè? E magari vorresti pure due pasticcini. Sul tuo bel divano, col tuo buon caffè, due anzi facciamo tre biscottini e la televisione accesa, e il volume al massimo per coprire quell’idiota di fuori che parla da solo. No? Ma che vuoi farci? Non vale neanche la pena chiamare la polizia, è un poverino…
LEI: Io non la guardo la televisione.
LUI: Ho vissuto con te. Proprio là dentro. Te lo ricordi? Perché ti ho ridato le chiavi, se no…
LEI: Serratura nuova, te lo ricordi?
LUI: Che è successo?
LEI: Serratura nuova, vita nuova.
LUI: Ti sono entrati i ladri? Te lo dicevo, di stare attenta, che dovevamo mettere le grate, che al primo piano uno non ci mette niente a entrarti in casa, ma non li leggi i giornali?
LEI: Non ho paura dei ladri.
LUI: E allora cosa…? Hai paura di me?
Lei rimane in silenzio.
Ho fatto tutto quello che mi hai chiesto. Non ti ho cercata. Non ti ho disturbata, hai visto, non sono più venuto qui. Mi hai visto?
LEI: No.
LUI: E allora cosa… perché?
Lei rimane in silenzio.
Ti ho mai fatto qualcosa di male? Che hai contro di me?
Lei rimane in silenzio.
Sì, ma come faccio a difendermi se non so neanche di cosa mi accusi?
LEI: Lasciami in pace.
LUI: Lasciami in pace… Lasciami in pace… Lasciami in pace… questa è una pazzia, ma cosa vuoi da me?
LEI: Io non ti ho chiesto niente.
LUI: (battendo rabbiosamente i pugni sulla porta) Apri questa maledetta porta o la sfondo davvero. Cosa penseranno i vicini, eh? (Grida sul pianerottolo) Eh? Che ne pensate del pazzo che grida davanti all’interno 7?
LEI: Abbassa la voce. Per favore.
LUI: No!
LEI: Mi dispiace.
LUI: Perché?!
LEI: Non gridare. Ci sentono.
LUI: Dimmi almeno perché.
LEI: Non capiresti.
LUI: Ma mettimi alla prova, no?
Lei non risponde.
Sono io… Ti ricordi? Hai detto che mi volevi bene, che mi amavi, l’hai detto, c’ero quando l’hai detto. Tu mi volevi bene.
LEI: (a bassa voce) Non sai niente.
LUI: Non sento. Cosa hai detto?
Lei si alza in silenzio.
Rispondi. Cosa hai detto?
LEI: Niente.
LUI: No, hai detto qualcosa, l’ho sentito, ripetilo!
LEI: Ho detto che non sai niente. Punto. Fine. È stato bello. Breve ma intenso. Peccato. Addio.
LUI: Mi prendi in giro?
LEI: Auguri.
LUI: Basta! Apri questa porta o giuro che… Mi senti? Io… Guarda che… (strattona la maniglia della porta)
LEI: Non gridare! (A bassa voce) Non gridare… non gridare… tutti gridano, tutti, sempre. Non possiamo parlare normale, non possiamo stare in silenzio? Per favore. (Pausa) Lasciami in pace. (Lentamente va verso la porta, vi appoggia una mano, poi la schiena e scivola fino a sedersi a terra)
LUI: (tocca la porta, cerca di sentire cosa succede dall’altra parte) Cosa succede? Cosa stai facendo? Fammi entrare, non capisco dove sei. Cosa succede?
Lei piange. Lui ascolta.
Ehi… sst… tranquilla. Non ti do fastidio. Non è successo niente. Aspetto. Aspetto qui. Stiamo in silenzio, se vuoi. Siamo io e te. Sono solo io…
LEI: Vai via.
LUI: Vado via. Basta. (Esita) Torno domani, va bene?
Lei non risponde.
Va bene? Torno domani mattina.
Silenzio.
LEI: Sì. (Continua a piangere)
Buio.
TERZO GIORNO
Lui fuori dalla porta. Altri abiti. Ha una sedia. Bussa, poi va a sedersi.
LEI: Non posso aprire. Sono piccola.
LUI: Basta con questo gioco. Non è divertente.
LEI: No, la mamma non c’è. Ripassi più tardi.
LUI: Te l’ho già detto, non ho preso impegni, ci sei solo tu. Ah, giusto. E la porta.
LEI: Non sei stanco di stare lì fuori?
LUI: Ho una sedia.
LEI: Non si dicono le bugie.
LUI: Giuro.
Pausa.
LEI: Hai freddo?
LUI: Scusa?
LEI: Freddo. Tu non senti freddo, lì?
LUI: No. Non credo. Forse c’è un po’ d’aria, uno spiffero.
LEI: Ecco. Non l’hanno sistemata.
Pausa.
LUI: Ma cosa, la finestra al terzo piano? Quella del corridoio?
Pausa.
LEI: Non mi ricordo.
LUI: Guarda che basta salire e controllare. Se proprio non vuoi far fatica chiami l’amministratore e chiedi.
LEI: Ah. Hai ragione. Devo chiamare l’amministratore, giusto. Ho freddo.
LUI: (sorride) Allora forse è la tua, la finestra rotta.
LEI: È impossibile.
LUI: Che ne dici di offrirmi un po’ del tuo caffè?
LEI: Non ho dove versarlo.
LUI: Te le ho regalate io, le tazze. Quelle colorate. Stanno su nel mobile, in alto.
LEI: Non mi servivano più.
LUI: Be’, ma saranno ancora lì, no? Prova a guardare.
LEI: Non ce l’ho più, il mobile. Non ho più niente.
LUI: (è triste) Erano un regalo. (Pausa) Perché hai…
LEI: Perché non sei al lavoro?
LUI: (in contropiede) Be’, ho preso qualche giorno.
LEI: Mi dispiace. (Pausa interrogativa) Cioè. Non so se vale la pena, tenuto conto che, be’, stai lì fuori e basta.
LUI: Voglio solo vederti. Poi ti lascio in pace.
LEI: Perché?
LUI: Perché no?
LEI: Puoi trovarti un altro posto. Qualcosa di meglio.
LUI: Cosa vuol dire? Qui sto bene.
LEI: No. Tu non lo vuoi. Devi ascoltarmi. È tutto diverso, tutto diverso ora.
LUI: Certo, andrebbe meglio con un buon caffè, ché c’è pure la finestra rotta al terzo piano. Ma insomma, non si può avere tutto.
LEI: Non scherzare.
LUI: Dovrò pur passarlo il tempo, in qualche modo.
LEI: Forse dovevi andare via. Questi giorni, intendo. Invece di stare lì fuori. Per rilassarti un po’. Per staccare.
LUI: Per staccare, eh?
LEI: Perché sei tornato?
LUI: In che senso?
LEI: Le tue cose te le ho ridate tutte.
LUI: Sì. A parte le tazzine.
LEI: E allora cosa vuoi?
LUI: Devo per forza volere qualcosa?
LEI: Noi non stiamo insieme.
LUI: Non posso passare del tempo con te? Non posso parlare con te?
LEI: Sì, ma… che ci guadagni? Non ti fa male?
LUI: No.
LEI: Ma dopo tutto quello che è successo…
LUI: Sei sempre tu.
LEI: Sì, ma noi abbiamo… ti ho detto di andartene via, che non ti volevo più, abbiamo litigato, tu ti sei messo a urlare…
LUI: C’ero anch’io. Mi ricordo.
LEI: Te ne sei andato sbattendo la porta che si sono svegliati pure i vicini.
LUI: Certo. Ti comportavi come una pazza.
LEI: Eri arrabbiato e anch’io.
LUI: Non un bel momento, sono d’accordo. Ma ti perdono. Ora fammi entrare, che facciamo pace e ci dimentichiamo tutto.
LEI: (è irritata dalla frase di Lui ma, dopo un sospiro, continua) Magari qui non ti trovi più così bene, magari dovresti davvero essere… be’, da un’altra parte.
LUI: E tutta quella roba del crescere insieme eccetera, eccetera?
LEI: Non capisci.
LUI: Se me ne vado alla prima incomprensione, addio.
LEI: Quello che sto cercando di… è… Che palle! Perché continui a insistere?
LUI: Capisco che ti stai prendendo gioco di me. Quello che non capisco, davvero, è il perché. Tu sei intelligente, e tutto questo è… stupido. È così stupido.
LEI: Come ti permetti di dirmi cosa è stupido e cosa no?
LUI: Qualcuno dovrà pur farlo.
LEI: Noi non stiamo insieme.
LUI: Prendila come una gentilezza. Un regalo, anzi. Dovresti ringraziarmi.
LEI: Vai via.
LUI: No.
LEI: Ma non lo vedi, che questa cosa non va da nessuna parte?
LUI: È un momento di difficoltà, una pausa di riflessione, una minuscola crisi di assestamento, ecco. Ma stiamo bene. (Pausa) Staremo bene.
Silenzio.
Noi ci dobbiamo stare, insieme. Lo dicono tutti.
LEI: Io non l’ho mai detto.
LUI: Sentila… “Io non l’ho mai detto”. Adesso non lo vedi, ma capirai. È per il tuo bene. Io ti amo.
LEI: Dio, quanto è banale.
LUI: Che hai detto? Non ci credi?
LEI: Non mi interessa.
LUI: L’hai deciso tu.
LEI: Be’, sì. Potresti rispettare quello che voglio? Una volta, mica sempre. È che è una cosa che si fa in due. Guarda, te lo rispiego. Di solito – di solito, eh? – funziona così. Io ti parlo, tu mi parli, beviamo del vino – o dell’altro, a scelta – scopiamo, facciamo sette otto figli e poi, puff!, finisce la poesia. Morta. Tu ti abboni a una rivista di motori e io due volte l’anno mi faccio l’agopuntura.
LUI: Non dico questo.
LEI: Non lo vuoi più?
LUI: Si può sapere che diavolo ti ho fatto?
LEI: Hai qualche nuova banalità per me?
Lui non risponde.
Perfetto. Non abbiamo più niente da dirci. Il contratto è sciolto. Puoi cercarti un’altra. O un gatto. Come vuoi.
Pausa.
LUI: Sei seria?
LEI: Sì. (Sospira) No. (Pausa) Non lo so più.
LUI: Lasciami entrare. Un momento.
Pausa.
LEI: Non voglio che mi vedi.
LUI: Chiudo gli occhi, se è solo questo.
Pausa.
LEI: Davvero?
LUI: Non ti fidi?
LEI: No.
LUI: Per favore.
LEI: (in silenzio, molto lentamente, si avvicina alla porta, scuotendo la testa) Giura che non guardi.
LUI: Giuro. (Chiude gli occhi)
Lei apre la porta lentamente, cauta. Lui è sorpreso, apre gli occhi e la guarda.
Scusa.
Lei tenta di chiudergli la porta in faccia, ma lui si frappone.
Lasciami entrare.
LEI: Hai giurato.
LUI: Per favore.
LEI: Avevi giurato.
LUI: Scusa, non ce l’ho fatta. Non ti vedo da due mesi, non mi ricordo nemmeno che faccia hai!
LEI: Vattene via! ’Fanculo, vai via!
LUI: (spinge la porta più forte) Cosa ti costa? È un momento. Dai. Solo un minuto. Ormai sono qui, cosa cambia? (Pausa) Lasciami entrare! Perché mi fai questo? (Riesce a infilarsi nella stanza)
Lei si ritira in un angolo, in posizione fetale, la testa tra le mani. Lui si guarda intorno, ammutolito.
LEI: Sorpresa. (Pausa) Che hai? Non ti piace?
LUI: (per rompere il silenzio) È solo… è tutto un po’…
LEI: Vuoto?!
LUI: Bianco. (Pausa) Ma va bene, mi va benissimo se… se ti piace.
LEI: Mi piace.
LUI: È bianco.
LEI: È pulito. E vuoto. Puoi dirlo, che è vuoto.
Silenzio.
LUI: Non sei più venuta al lavoro.
Silenzio.
E tua sorella? Ti ha cercato. Dice che non rispondi mai.
LEI: Hai visto abbastanza. Ciao.
LUI: Non ti lascio qui da sola.
LEI: Potevi pensarci prima.
LUI: Mi avevi detto di andarmene. Ero arrabbiato… deluso. (Pausa) Ti rispettavo.
LEI: E adesso invece hai deciso che non mi rispetti più. Bravo, complimenti.
LUI: Cosa è successo, me lo vuoi dire?
LEI: Non ti riguarda.
LUI: Ti voglio bene. Per cui sì, mi riguarda. (Pausa) Tu… tu ti sei chiusa qui dentro. Tu… tu ti stai nascondendo?!
LEI: Non è…
LUI: È vero.
LEI: (finge sarcasmo) Sei… eccessivamente melodrammatico, te l’hanno mai detto?
LUI: Sei sparita. Non rispondi al telefono.
LEI: Staccato.
LUI: Al computer non ti trovano mai.
LEI: Venduto tutto.
LUI: Bastava dirlo, se avevi bisogno di soldi.
LEI: Non c’entra.
LUI: Sono venuti a suonarti, era come se fossi partita senza avvertire nessuno.
LEI: In un certo senso.
LUI: Lo sai come funziona. I casini li hanno tutti. Hanno tutti casini più grandi, lamenti più forti, tutti hanno cose per cui lamentarsi. O li ascolti un po’, condividi i tuoi casini e dici che sì, i loro sono più grandi e incasinati e imperdonabili e tutto, o la gente se ne va. E tu scompari. “Ma che fine ha fatto, poi? Ah, boh. Sai che non lo so? L’hai più vista? Proprio no.”
LEI: Mi controlli.
LUI: Mi sembra il minimo!
LEI: Io non te l’ho chiesto. Non ti ho mai chiesto niente.
LUI: Potevi. È a questo che serve. Essere in due.
LEI: Sto da Dio già così, grazie.
LUI: Quanto tempo è che non dormi?
LEI: Va tutto bene.
LUI: Certo.
LEI: Sono affari miei.
LUI: Ti voglio bene. (Pausa) Quanto tempo è che non dormi?
LEI: (esita) Un po’.
LUI: Hai solo questa sedia?
LEI: Ho buttato qualcosa.
LUI: Sì… E pure tutto il resto.
LEI: Non mi servivano. C’era sporco.
LUI: (critico) Lo vedo. (Pausa. Si guarda intorno) Non puoi dormirci, su questa sedia.
LEI: (stupita) Be’… no.
LUI: Hai un materasso, un qualcosa per coprirti? (Pausa, si guarda intorno, non vede niente di utile) La prossima volta ti porto…
LEI: Sto bene.
LUI: Certo, ma comoda starai meglio. E poi che hai mangiato fino adesso? Scatolette? Non apri più neanche le finestre. Guarda. Tutto sigillato. Questo posto puzza di cadavere.
LEI: Vai via.
LUI: Avrai deciso di fare piazza pulita – “via i mobili, via tutto, cambio vita” – poi ti sei distratta e hai lasciato a metà. Tipico. Cos’è questo buio? C’è il sole, fuori.
LEI: Vai via. Davvero.
LUI: La costanza non è mai stata la tua qualità.
LEI: Non avrei dovuto farti entrare.
LUI: Non è quello che vuoi? Il compagno perfetto.
LEI: Non funziona.
LUI: Potresti aiutarmi.
LEI: Perché? Mi sembrava che stessi andando così bene…
LUI: Cosa è successo qui?
LEI: Volevo fare qualche cambiamento. Roba estetica. Minimalismo.
LUI: E ti sei fatta prendere un po’ la mano…
LEI: Ecco, sì.
Pausa.
LUI: Non me ne andrò.
Pausa.
LEI: Guardami. (Pausa) Guardami!
Si osservano a lungo.
LUI: Ho visto. (Pausa. Sospira) Non so neanche come dirlo… mi interessa se tu non… Se sei così, ci deve essere un motivo. Devi dirmelo, ti proteggerò.
LEI: Tu mi “proteggerai” da “cosa”?
LUI: Basta.
LEI: Non ho bisogno di te.
LUI: Non sei in grado di deciderlo, non in questo momento.
LEI: Cominci a essere ripetitivo.
LUI: Ti sto aiutando.
LEI: Voglio stare da sola. Leggi le mie labbra. Sola.
LUI: Sei cambiata.
LEI: Ma se te l’ho detto io prima!
LUI: Di cosa hai paura?
LEI: Di niente. Sono stanca.
LUI: Non puoi vivere qui dentro. Siamo seri.
LEI: Smettila di decidere per me.
LUI: Non darmi del paternalista. Non provarci. Davvero, andiamo avanti.
LEI: È inutile.
LUI: Dammi una possibilità. Fammi provare.
LEI: E cosa fai? Mi arredi casa. Mi riempi il frigo. Va bene, mi compri il frigo e poi lo riempi. E poi? La mancia? Lo vedi? Che fai? Mi tratti già come una… come una… La vedo, sai? Ce l’hai giù lì, negli occhi.
LUI: Stai calma.
LEI: C’è, anche se fai finta di non guardarmi.
LUI: Cosa? Cos’è che vedi?
LEI: Ti faccio pena? Provi pena per me? Rispondi!
LUI: No.
LEI: Chi te l’ha detto? Da chi l’hai saputo?
Lui rimane in silenzio. Non sa cosa fare.
Sono stanca.
Pausa.
LUI: (esita) D’accordo. Va bene.
Lui cerca di prenderle una mano, ma lei si sottrae. Lui esce. Poi torna dentro con la sedia.
Così domani stiamo più… (si guarda intorno) comodi. (Pausa) Ciao. (Esce)
Lei guarda nel vuoto, è esausta.
Buio.
QUARTO GIORNO
Lui fuori dalla porta. Altri vestiti. È passato un giorno.
LUI: (bussa. Ha una scatola) Non sei all’ufficio postale. E neanche al Polo Sud. Né a giocare a scacchi. Mi fai un caffè?
LEI: Non ho tazze.
LUI: Sono passato dal supermercato.
Lei mette la caffettiera sul fuoco, va ad aprire, e senza dire una parola torna all’interno. Lui la segue e si chiude la porta alle spalle. Appoggia accanto alla caffettiera una confezione di bicchieri di plastica. Il caffè bolle. Lei lo versa in un bicchiere e glielo porge. Lui si guarda intorno cercando la sedia che ha portato il giorno prima. È ribaltata, in un angolo.
Tu non lo prendi?
LEI: Non mi piace.
LUI: (è stupito) Ne bevi almeno tre al giorno, dopo ogni pasto.
LEI: No.
LUI: E pure a metà mattina. Com’è che dici tu… “Più è nero più è cattivo più…”
LEI: Non mi ricordo.
LUI: Lo dici sempre. Continui a ripeterlo. Lo dici a tutti quelli che incontri. Lo bevi solo se fa schifo. A me lo hai ripetuto almeno dieci volte. Ma proprio minimo, eh? E così, di colpo non ti piace più?
LEI: Non mi piace. Non riesco a berlo.
Lui poggia il caffè a terra, va a prendere la sedia e la sistema accanto all’altra. Le porge la scatola. Riprende la tazza, poi si siede e sorseggia il caffè. Lei poggia la scatola a terra.
LUI: C’è il sole, oggi.
LEI: Davvero?
LUI: Perché non usciamo?
LEI: Non mi piacciono gli insetti. E poi devo pulire ogni cosa. C’è sporco.
LUI: Già, e il bianco è un colore impegnativo.
LEI: Entrano… un sacco di cose, da fuori.
LUI: È vero. L’aria.
LEI: Anche.
LUI: La luce.
LEI: (sbuffa) È sopravvalutata.
LUI: I profumi.
LEI: Mi fanno venire il mal di testa.
LUI: E le voci. C’è il mercato, oggi, te l’ho detto?
LEI: Non me lo hai detto.
LUI: Non hai voglia di fare qualcosa? Qualcosa fuori di qui.
LEI: No.
LUI: Ho voglia di fare delle cose con te.
LEI: Bevi il caffè.
LUI: Sto bevendo il caffè. Da solo.
LEI: Vedo.
LUI: Andiamo al parco. Ci sdraiamo al sole.
LEI: Non ho sonno.
LUI: Be’, io dormo e tu guardi il cielo. Oppure, che so, parliamo. Potremmo addirittura parlare, già, che non lo facciamo da mesi.
LEI: Noi stiamo parlando.
LUI: Usciamo. Andiamo a una mostra. A teatro. A fare la spesa.
LEI: (ferita) Non ti piace qui?
LUI: No.
LEI: Puoi andare via.
LUI: Non è questo. Quello che sto cercando di… è che…
LEI: Cosa?
LUI: Non so. Pensavo di… tirarti fuori, ecco. Pensavo che ti avrei tirato fuori.
LEI: Tirarmi fuori?
LUI: Da… lì. Dove sei adesso. Hai capito.
LEI: No, non capisco.
LUI: (si alza e vaga) Così è impossibile. (Pausa) Non vuoi sapere cosa c’è nella scatola?
LEI: No.
LUI: Sono delle cose per te. Se hai freddo. Cose così. Cose da mangiare. Cose. (Pausa) Stavamo bene insieme. Lo dicevano tutti, che insieme stavamo bene. Che eravamo nati, per stare insieme. Ci invidiavano.
LEI: Credo di sì. Più o meno.
LUI: Litigavamo troppo spesso?
LEI: Non mi ricordo.
LUI: Ho alzato la voce con te? Per questo hai paura?
LEI: No.
LUI: Cercavi sempre di farmi mangiare roba scaduta.
LEI: Già.
LUI: Origliavamo i vicini che scopavano.
Pausa.
LEI: (ricorda) Lei urlava “Gesù salvami”.
LUI: Vero. (Ride) Vedi? Eravamo felici.
LEI: Non mi ricordo.
LUI: Lo dici tu.
LEI: Sì. È così.
LUI: Cosa è successo due mesi fa?
LEI: Niente.
LUI: Balle. Cosa ti hanno fatto?
LEI: Davvero.
LUI: È colpa mia? Ho fatto qualcosa che ti ha delusa? Ti ho fatta arrabbiare?
LEI: No.
LUI: Mi hai tradito?
LEI: Che c’entra?
LUI: Puoi raccontarmi tutto. Puoi fidarti. Pensavo l’avessimo passata, quella fase.
LEI: Anch’io.
LUI: E perché non lo fai? Ti ho già detto che ti amo. Non mi interessa quello che nascondi, ho deciso, è uguale. Racconta e poi ripartiamo da zero.
LEI: Mi stai confondendo la testa. Smettila.
LUI: Ehi. Non voglio forzarti a fare niente, ma se c’è qualcosa è il momento per dirmelo. Non ti… Voglio solo che tu stia bene… (Cerca di toccarla, di accarezzarla) Tu… devi avere solo il meglio, solo il bello…
LEI: (reazione improvvisa) Non toccarmi! (Si sottrae con violenza al contatto. Si rifugia in un angolo, le spalle al muro, rigida)
LUI: Scusa…
LEI: Vai via!
LUI: Non volevo… non sapevo che…
LEI: Via.
LUI: Non volevo farti niente. Bastava dire, mi dicevi di no. Non farei mai una cosa che non vuoi. Io…
Lei lo guarda impaurita. Lui si avvicina, non sa che fare, Lei si tira ancora più indietro.
Io… sì. Io… torno domani. (Esce)
Lei trema, rigida.
Buio.
QUINTO GIORNO
Lui fuori dalla porta. Bussa. Ha una coperta colorata e nuovi abiti. Lei apre in silenzio e torna a rannicchiarsi sulla sedia. La radio è sempre accesa.
LUI: (resta sulla soglia) Non voglio entrare. Non entro. Voglio solo lasciarti questa. (Le mostra la coperta) Se hai bisogno di… se ti senti un po’… ecco, mi piace pensare di essere lì con te. Boh, non lo so neanch’io. Te la metto qui. (Indica un punto appena oltre la soglia, ma non poggia la coperta. Ricomincia a parlare per colmare il silenzio ritmato dalla radio. È agitato, ansioso. Sbotta) Non volevo farti male. Scusa. Non pensavo che fossi… così. Non avevo capito. Scusa. Non ti tocco, non ti… non cercherò di… mi spiace se ti dà fastidio. Non è mai stato così, pensavo che anche adesso… non dico che tu dovessi… che noi dovessimo… non lo davo per scontato, certo, non sono così, ma avevi detto che mi volevi bene eccetera, eccetera e insomma. Un abbraccio, era solo un abbraccio, ma non ti tocco più, se ti senti… (volta le spalle alla porta) se non vuoi vedermi più, basta che me lo dici. Non adesso adesso, se… puoi prenderti del tempo. Ma puoi dirmelo, lo capisco se non vuoi vedermi. Sono… non ho capito niente. Di te, del tuo… come si dice… del tuo problema? No, non è “problema”, non è quella la parola, ma… hai capito. Hai capito, no? (Pausa) Tieni questa. Oggi fa freddo e tu non hai niente, lì. Copriti un po’, ti prenderai un qualcosa. Mi preoccupo, se fai qualcosa di stupido e rischi di prenderti un qualcosa. Che poi magari non è niente, ma io mi preoccupo lo stesso, e mi sento uno stupido, vorrei sapere come stai ma non te lo chiedo per paura di stare male, o di fare male a te, o… insomma poi stiamo male tutti e due e… hai capito, no? (Pausa) Ti voglio. Scusa, non in quel senso, ma… (Pausa) Dovrei andarmene. Adesso vado via, ma ti voglio troppo, davvero, per lasciarti così, senza sapere dove andrai domani, cosa mangerai, se ti farà bene – e no, il pop corn non è dietetico e neanche salutare – ma in realtà la verità è che… So solo che non dormi e sono due mesi che ti nascondi qui dentro e tutto quello che faccio è sbagliato… e… d’accordo, vado via. Capisco che ti faccio male, rimanendo qui. Ma vorrei fare qualcosa, qualsiasi cosa, per te. Ho bisogno di te. E, maledizione, non riesco neanche a guardarti in faccia. (Pausa) Non dici niente? (Pausa) Hai ragione.
Entra nella stanza, raggiunge la sedia senza guardare Lei in faccia. Le avvolge la coperta attorno alle spalle. Lei trasale.
Ciao. (Si ritira verso la porta camminando all’indietro, esce)
LEI: Ha un buon odore, il caffè. Impregna tutto, sai? Cancella tutto.
La porta rimane aperta.
Buio.
SESTO GIORNO
La porta è ancora aperta. Lei è ancora nella stessa posizione. Lui entra deciso. Ha un’altra maglietta.
LUI: Ci ho pensato. Sarei un codardo se me ne andassi adesso, giusto? Sparire così, quando basterebbe insistere un attimo, essere pazienti. La pazienza è la virtù dei forti eccetera, eccetera e aiuta gli audaci… no? E non ti ho dato neanche il tempo per pensarci e rispondermi e sono stato debole. (Pausa) Ora non posso più sbagliare, giusto? Posso aspettare tutto il tempo che ti serve e quando sarai pronta tu, invece, ti ascolterò. Si fa così, giusto? Non accetto un no come risposta, mi devi dire tutto e poi staremo insieme per sempre eccetera, eccetera.
LEI: Tu sei pazzo.
Lui prende la scatola e la apre.
Cosa stai facendo?
Lui ne estrae una spugna e vari flaconi. Va al lavandino. Lei lo guarda con sospetto.
LUI: Vieni qui.
Lei si avvicina lentamente, sospettosa. Lui avvicina una sedia al lavandino.
Togliti i vestiti.
Lei si volta di scatto, spaventata.
Non ti tocco. Siediti.
Lei non si muove.
Siediti. Devi fidarti.
LEI: Ma se…
LUI: Non parlare.
LEI: E cosa faccio allora?
LUI: Togliti i vestiti e siediti. Da qualche parte dobbiamo pur cominciare.
Lei toglie canotta e pantaloni. Poi si siede, ma è tesa. Lui inumidisce la spugna e la passa delicatamente sulla pelle della ragazza. Poi le lava i capelli.
Troppo calda?
LEI: È strano.
LUI: Non te lo aspettavi.
LEI: Anche. Forse.
LUI: Respira.
LEI: Cosa?
LUI: Ti dimentichi sempre, quando sei nervosa.
LEI: No, è più… La sensazione.
LUI: Ti piace?
LEI: È diverso.
Pausa.
LUI: Sei bella.
Lei rimane in silenzio, ma si irrigidisce.
Davvero. Sei più bella di quello che credi.
LEI: Smettila. Non è divertente.
LUI: Ma io lo penso.
LEI: Così peggiori solo le cose. Volevo risparmiarlo almeno a te, lo facevo per te e…
LUI: Sssst. Non me ne vado. Come si dice… Ho vacillato, ma non me ne vado.
LEI: Tu sei pazzo.
LUI: Perché?
LEI: Ma perché ti sei incancrenito su questa cosa. Per orgoglio spero, non per altro, ma non serve. Credimi, non serve il tuo aiuto, né la carità o altro.
LUI: Se volessi fare la carità ti darei dei soldi e me ne andrei via con la coscienza pulita.
LEI: Fallo. Si sta rompendo il fornelletto. Puoi regalarmene uno nuovo.
LUI: Che cosa ridicola.
LEI: Come… una specie di… una buonuscita. Se ti serve. E poi amici come prima.
LUI: Non provare a ripeterlo.
LEI: E tu vattene.
LUI: No.
LEI: Sì.
LUI: No.
LEI: Sì.
LUI: (repentino) Ti ha fatto male?
LEI: (risponde senza accorgersene) Sì.
LUI: Lo ammazzo.
LEI: Sì. Certo.
LUI: Chi è?
LEI: Se lo incontro di nuovo vi presento, OK?
LUI: E come… non voglio i particolari, ma come…
LEI: Cazzi miei.
LUI: E per quanto tempo…
Lei lo fulmina con lo sguardo.
Ho capito. Lascio stare. (Pausa) Scusa. (Pausa) Non ti succederà mai più niente di brutto, lo sai? Piuttosto mi faccio ammazzare.
LEI: (noncurante) È già successo. E tu non c’eri.
Pausa.
LUI: Lo so.
LEI: Non puoi fare nulla. Non puoi fare più nulla. È già successo tutto quello che doveva succedere. Sei arrivato tardi. Ti sei perso lo spettacolo, mi dispiace. Niente repliche.
LUI: Non fare così.
LEI: Cosa dovrei fare? Abbracciarti e consolarti e dirti peccato perché non c’eri mentre mi faceva quelle cose che non voglio neanche… Mi spiace, no. Era più facile, quando non c’eri: perché non sei andato a quel paese, lontano? Tu continuavi a startene là a fischiettare, ignaro, banale e mediocre, e io continuavo a fare finta di niente qui, nel mio brodo. Ed erano tutti felici e contenti.
LUI: Sì, va bene, perfetto, ma tu non stavi facendo finta di niente.
LEI: Che ne sai?
LUI: Vivere rattrappita in una stanza che è un frigorifero, tu lo chiami fare finta di niente?
LEI: E ci stavo d’incanto.
LUI: Non vuoi parlarne?
LEI: Io non voglio proprio pensarci, io voglio cancellarmelo dalla testa, dalla pelle, da tutto.
Pausa.
LUI: Qualcuno lo sa?
LEI: Perché?
LUI: Forse dovresti vedere, che ne so (pausa) qualcuno… sei andata da… hai sporto denuncia?
LEI: Sto benissimo. Sono pure dimagrita.
LUI: È sbagliato.
LEI: Mettiti al mio posto e vedi come ci si sente, OK?
LUI: E se ti avesse passato una malattia? Dovevi farti vedere.
LEI: E da chi?
LUI: Un dottore.
LEI: Sì, sei ore di coda al pronto soccorso per sentirmi dire che non dovevo andare in giro da sola nei posti isolati.
LUI: Ma è necessario. Si fa così.
LEI: Volevo solo lavarmi, vestirmi e dormire. Il rispetto dei regolamenti era l’ultimo dei miei problemi.
LUI: E se avessi… dei danni permanenti? Cioè, io non so tanto come funziona, ma… non è una cosa che… a parte la cosa in sé, che non è piacevole e…
LEI: Guarda che c’ero.
LUI: Insomma. Se ci fossero delle conseguenze? Potrebbe essere tardi.
LEI: Fatti miei, no? Tanto a te nessuno ti ha fatto niente.
LUI: Ho capito!!
Silenzio.
Non lo so, non so davvero come fai a tenerti dentro tutto. Non so perché non me ne hai parlato, ero qui apposta.
LEI: E cosa sarebbe cambiato?
LUI: Non so come ti senti, cosa provi. (Pausa) Vorrei abbracciarti e non posso. Vorrei fare qualcosa, qualsiasi cosa, e non so cosa fare. Ho paura di sbagliare e peggiorare le cose. Per te.
LEI: Non puoi fare niente.
LUI: Ci deve essere un qualcosa.
LEI: Non sei un maledetto dio. Vai via, se non riesci a sopportare che qualcun altro è stato dentro di me, e continua a starci, perché sì, è così. E si diverte, con la “tua donna”. Per questo non dormo: appena chiudo gli occhi sento la saliva, vedo quegli occhi e le mani e la bava, e quell’odore, e lui ansima e grida e poi non posso muovermi e poi mi sveglio e – indovina? – è successo davvero. (Pausa) A me. (Pausa) Bene. Ora lo sai, coscienza pulita, il tuo dovere l’hai fatto.
Pausa.
LUI: Esiste la possibilità che tu…
LEI: Che tenero. Non sono incinta. Ma comunque sarebbero affari miei. E del padre… suppongo.
LUI: Smettila.
LEI: Non saprei come consultarlo per decidere il nome del piccolo… un bel batuffolo biondo con quattro mani, che grida e grida, un mostro con gli occhi sigillati e la gola bruciata e dentro un vuoto. Che bella immagine, eh? Ti piace? Tu come lo chiameresti? Come minimo me ne viene fuori uno che a dodici anni fa il serial killer, con la fortuna che mi trovo.
LUI: Ti prego.
LEI: Non farlo, grazie.
LUI: Voglio stare qui. Con te. Non tagliarmi fuori proprio adesso.
LEI: Per quale motivo? Davvero? Se è perché ti faccio pena, quella è la porta, e poi chiudi. Se è perché ti hanno cacciato di casa e non sai dove andare, evidentemente qui non c’è spazio per tutti e due. Ma ti posso indicare un buon albergo, c’è mio cugino che ne gestisce uno qui dietro, te l’ho mai detto? Non puoi fare niente, niente. La vita va avanti, e ci ha già pensato qualcun altro. A tutto. Io lo trovo quasi rassicurante. E se non ti piace la bambola rotta, pace. Non ti serbo rancore. Se resti qui, o resti a guardare o sei peggio dell’altro. Vattene. Ti do la mia benedizione.
LUI: Io…
Pausa.
LEI: Vattene. Tu puoi farlo, tu puoi ancora pensare che sia una cosa terribile della nostra società, una piaga del mondo, ma non la tua. Non è successo a te. Vai via. Svegliati. È solo un brutto sogno.
Lui pian piano arretra, esce, fugge. Lei ride sguaiatamente.
Buio.
SETTIMO GIORNO
Lui non c’è. Lei, rivestita, prepara caffé per due e aspetta. Spera che lui torni. Alla fine crolla addormentata.
OTTAVO GIORNO
Il pavimento è ricoperto di bicchieri pieni di caffè. Lei è appoggiata alla porta. Appena Lui bussa, Lei apre.
LUI: (non entra nella stanza) Di cosa hai paura?
LEI: Di quello che può entrare.
LUI: Tu l’hai già aperta, la porta.
LEI: Sai cosa mi ha detto un vecchio romantico? “Quando entri in una stanza, porti la soluzione a un problema? No? E allora, forse, il problema sei tu.”
LUI: Che significa?
LEI: Si accettano proposte. (Pausa) Non voglio tornare là fuori.
LUI: Preferisci che vengano a prenderti? Vuoi davvero questo, aspettare qui, con le mani sugli occhi? Aspettare cosa, poi? Non bisogna mica soffrire per forza, sai?
LEI: E se lo volessi? Magari mi piace.
LUI: No. Tu non sei così. Non sei la persona che conosco. (Si corregge) Che conoscevo. Vuoi davvero vivere tutta la tua vita qua dentro, in frigo? A un certo punto inizierai a puzzare, e i vicini si accorgeranno che non ricevono tue notizie da cinque anni.
LEI: In frigo la roba non puzza.
LUI: Da quant’è che non dormi?!
LEI: L'ho fatto.
LUI: Brava. Era ora.
LEI: Ieri ti aspettavo. E non sei arrivato.
LUI: Volevo vedere se venivi a cercarmi.
Silenzio. Lei abbassa lo sguardo. Lui fa spallucce.
Seh. “Ritenta e sarai più fortunato.”
LEI: Scusa?
LUI: Tu adesso vieni con me.
LEI: Non dirmi cosa devo fare!
LUI: Tanto vale parlarsi chiaro.
LEI: Ti odio.
LUI: Se lo pensi davvero, dillo di nuovo. Dimmelo in faccia, però. (Le si para davanti)
Lei rimane in silenzio e abbassa lo sguardo.
Bene. Vieni con me.
LEI: Dove?
LUI: Fuori.
LEI: Loro sono fuori.
LUI: Chi? Loro chi? Continui a parlarne, ma chi sono? Quell’uomo? Un altro? Hai paura che vengano qui?
Silenzio.
Loro sono qui. (Le punta un dito contro lo sterno) Ce li hai già dentro, vuoi capirlo? (Pausa) Devi viverci per forza.
LEI: La fai facile.
LUI: No.
LEI: Che ne sai? Senti quello che sento io?
LUI: Darei tutto per tornare indietro, fare in modo che non succeda eccetera, eccetera, ma non si può. Non guardarmi a quel modo. È vero, non raccontiamoci balle. Ora, io posso anche stare qui a guardare mentre ti sbricioli e mettermi in pace la coscienza… oppure ce ne andiamo via da questo buco e cerchiamo di combinare qualcosa di buono insieme. Però dimmelo, perché non ha davvero senso che stia qui ad aspettarti. Non giudicherò la tua scelta. Solo mi dispiacerebbe un po’ perderti. Non un po’, molto, tantissimo anzi. Ti credevo una persona diversa eccetera, eccetera. Ma è meglio capirlo subito, forse ho sbagliato a giudicare. Capita.
LEI: È uno scherzo?
LUI: Non torno, domani. Per davvero. Ora esco. Puoi seguirmi fuori, o chiudere la porta. (Esce. Si ferma oltre la soglia, non la guarda. Passa diverso tempo)
LEI: Che palle. Ti odio.
Lo raggiunge guardandosi indietro diverse volte. Gli si affianca oltre la soglia. Lui finalmente la guarda.
LUI: Grazie.
Luce.