Entro i limiti della media europea
oratorio in nero per le morti bianche
(così le chiamano)

di

Nino Romeo

premio Calcante 2010
promosso da SIAD Società Italiana Autori Drammatici

Pubblicato su "Ridotto" maggio 2010

 


UOMO DI SPALLE
Bastardi
Assassini
Chi mi ridà mio figlio bastardi
Guardate assassini
Assassini
Pagherete caro assassini bastardi
Pagherete tutto bastardi

Per tutta la durata della pièce, l’ UOMO DI SPALLE ripeterà le stesse battute, a volte intercalandole alle parole della DONNA DAL VOLTO CUPO, a volte incidendole nei suoi silenzi.

DONNA DAL VOLTO CUPO

Avanza lentamente. Scuote la testa per dissentire. Poi, come rispondendo a qualcuno
Io? Perché io? Proprio io…

Rivolgendosi a qualcuno
Un’altra, un altro.
Meglio un altro un’altra non io!

Rispondendo a qualcuno
Io adatta? Adatta io a che?
Per chi?

Rivolta a qualcuno
Adatto tu semmai
t’esprimi bene
lingua battente.

Indicando
Lei ha fatto le scuole
non s’accartoccia con le parole
e nemmeno tartaglia.

Rivolgendosi a qualcuno
Tu finanche
che lo dicono i maschi
ognuno si squaglia
soltanto a guardarti
pur se modesta d’aspetto.

Rivolgendosi a qualcuno
Oppure tu, donna di vaglia
come tu stessa ti chiami
che sai stare a petto a tutti
e t’impunti
e t’impatti il mondo intero se vuoi.
Perché io allora?
Perché
chiederlo a me.

Rivolta a qualcuno
Dici che vado bene così?

Rivolta a tutti
Dite che vado bene così?
Come sono così?
Ditelo voi
perché io non lo so.
Non sono mai stata così.
Non m’avete vista così mai.
Mai così.

Rivolta a qualcuno
Dimmelo tu come sono.
Alza uno specchio e rimandami a parole
quella che ora sono.
Io non lo so.
Una veste sono.
Questa veste
sola parte che è mia.
Le sue grinze le uniche
che mi danno certezza.
Con la mano l’agguanto e la strizzo
l’attorciglio da quando l’indosso
dodici ore, non più.
La veste una pelle
che s’appiccica addosso
che m’avverte
di ciò che sono da dodici ore appena
mette in mostra da dodici ore a qui
quella che sono
e non so.
Ma quanto sta sotto
alla veste alla scorza alla pelle
come non mio
non più.

Rivolta a tutti
E voi dite
che vado bene così?
Come sono così?
Questo braccio guardate lo stringo
cingo il busto
pizzico la coscia
la natica batto.
Tutte parti non mie
non più.
Come non ci fosse contatto
con la mano che stringe o schiaffeggia.
Potrei ficcare una scheggia dentro le carni
e scavare.
Sensibilità zero.
Solo dolore alle ginocchia
che sopportano il peso
di quattr’ossa.
Allora perché
chiederlo a me?

Rispondendo a qualcuno
Vero.
È vero.
Passato di mente
dissolto.
Come tutte le cose importanti
che avremmo dovuto fare
fare insieme
io e lui insieme
dissolte
nella memoria
e nel futuro.
Ora tu mi ricordi che
-è vero!-
ieri era l’ultimo giorno;
oggi cacciato licenziato;
prima spremuto pressato
poi cancellato dal registro
un numero in meno
un nome di meno sul mastrino dei ruoli.
Il suo nome tra altri
venticinque in tutto
da far sparire in un clic del computer
risucchiati dalla voragine
della memoria nascosta.
Non più presenze operative.
Non più forza lavoro.
Non più maestranze attive.
Tutto questo non più.
Una lettera a casa
per tutti la stessa
una penna che taglia
la pressione di un dito sul tasto.
Via.
Il gelo lui
se lo portava dentro
da quella lettera.
Gelo che infreddava le dita
e io le stringevo
per portare calore.
E i capezzoli dritti
che coprivo coi miei
e strofinavo contro i miei
per portargli tepore.
Per tutta la notte gli alitavo sul collo
anche i respiri irregolari del sonno.
Momentaneo ristoro.
Perché quando io non c’ero
se non gli stavo accanto
era gelo soltanto
che gli cagliava il sangue e lo irrigidiva
in un pensiero unico e primo.
Non il cruccio dell’incertezza.
Non l’assillo di andare a cercarsi un lavoro.
Il pensiero unico per lui era
che potesse essere tutto
così
facile.
Facile per una macchina sorteggiare un nome.
Facile per un’altra macchina
stampare una lettera.
Facile per una lingua incollare una busta.
Facile che quella busta arrivasse a lui.
Facile togliere il pane a lui, a me, al figlio
per un giorno, un mese, un anno
non importa il tempo;
la facilità con cui tutto ciò accade
quella
lo rodeva nell’intimo.
Pensiero unico e primo per lui
questo: null’altro.
E dietro il pane, la macchina, la busta
lui vedeva
-le vedeva davanti
davanti ai suoi occhi-
non un volto vedeva
vedeva sagome tante sagome.
E la moltitudine secca i volti
sagome anche quelli
profili d’uomini che non distingueva
che non lo conoscevano
che di lui nulla sapevano
ma che stavano dietro
al pane alla busta alla macchina.
Una lesina puntuta
gli scavava pertugi al cervello
un’immagine unica
che gli correva davanti
un pensiero primo.
E la notte…
La lesina approfondiva
l’immagine accelerava
il pensiero primo ribatteva se stesso.
“Perché è così facile? Perché è così facile?”
Era il suo rap.
E il ritmo era
lo scrollare di testa.

Rivolgendosi ad uno
Tu
che al lavoro gli stavi accanto
con un sorriso o un motto
l’hai distratto
da quel pensiero primo?
Non credevi che fosse poi
così importante.
E cos’era importante per lui
tu lo sai?
Forse la casa
in cui tornare?
Magari il figlio
da veder giocare?
O la partita a biliardo la sera?
Cose importanti queste tra altre
quando il tempo scorre.
E il tempo scorre per noi
contro di noi.
Ma se il tempo si ferma in un pensiero unico e primo
il figlio la casa il biliardo
s’agguattano; resta
il tempo immobile
e la lesina;
quella sola si muove
avanti e indietro.
Tu questo lo sai?
L’hai mai provato?

Rivolgendosi ad un altro
E tu che ti accompagnavi con lui al mattino
che facevi coppia fissa a scopone con lui
tu hai tentato una risposta
alla domanda che gli palleggiava in testa?

Rivolgendosi ad un altro
Ma eri tu il più adatto,
delegato a rispondere.
Tu
sindacalista acceso
che sai parlare vibrante
parole di peso
alle assemblee e ai crocicchi
ai comizi o in tivù.
Quando attacchi…
e chi ti ferma più!
Gli hai dato risposta?
“Perché è così facile?
Perché è così facile?”
So
cosa dicesti a lui.
Lo ripetesti a me
identico:
«Il sindacato ha le mani legate.
Il governo ci è contro in tutto.
Bisogna limitare i danni.
Salvare il salvabile.
Altrimenti questi chiudono
e ci lasciano tutti col culo per terra.
Ho trattato sino alla spasimo.
Sono volate parole grosse.
Ho tirato fuori i coglioni.
Non sapevano più che rispondere.
Hanno chiamato il capo area.
È arrivato coi suoi tirapiedi.
Profumato come una puttana.
Il suo orologio è il mio stipendio di un anno.
Mi ha detto che il piano di ristrutturazione ne prevedeva cinquanta.
Cinquanta…capite?
Gli ho fatto calare le corna.
Venticinque ne ho salvati.
Venticinque…capite?
Non ho potuto ottenere di più.
Sacrifici necessari.
Ma l’azienda resta qui.
C’è la cassa integrazione.
La cassa integrazione è una nostra conquista
un ammortizzatore sociale.
I venticinque li sorteggerà il computer.
Una macchina non fa distinzioni.
Una macchina non guarda in faccia nessuno.
Resteranno fuori dal sorteggio i rappresentanti sindacali.
Comodo per loro cacciarmi via.
Chi li difende gli interessi dei lavoratori?
Resterò lì a difendere i vostri interessi.»
Ora che ripeto il tuo discorso
ora
mi pare un libro stampato.
Frasi raccattate qua e là
pronte per l’uso.
Parole serbate in saccoccia
e poi tirate fuori
e messe in mano al primo che passa
come una mancia neppure richiesta.
Altre parole diverse da queste
che allora dicesti a lui, che ripetesti a me
rimasticate
e poi soffiate d’impeto
avrebbero dato risposta
forse
alla sua richiesta.
“Perché è così facile? Perché è così facile?”

Rivolgendosi intorno
A te, a te, a te, a te
lui chiedeva.
A chi avrebbe dovuto rivolgere
la sua domanda?
A Tonio il barista?
A Mario il verduraio?
A Giulio della sala biliardo?
O a suo figlio
con i calzoni corti?
C’eravate voi dentro il cerchio
del suo pensiero primo.
Io ero fuori dal cerchio.
Mi sforzavo ad entrarci:
ma ne restavo fuori.
Potevo soltanto
lucidargli la fronte
nettarla
dalla polvere che si alzava e lì si posava
quando la mola affilata dell’assillo
sfregava contro quel pensiero unico.
Riavviare il tempo bloccato:
questo soltanto potevo.
Allora gli dissi:
«Facciamo
che il giorno dopo del tuo ultimo giorno
ti metti in ferie.»
«Ferie forzate.» lui disse.
«Forzato è stato il tuo lavoro
nell’ultimo mese.»
«Forzato è sempre stato il lavoro nella mia vita.»
«Facciamo
che il giorno dopo il tuo ultimo giorno
partiamo.»
«E dove andiamo?»
«A Rapallo.»
«A Rapallo, d’inverno?»
«Costa tutto metà.»
«C’è freddo a Rapallo d’inverno.»
«Ti darò il mio calore.
Tu mi darai il tuo.»
«S’è spenta la brace di dentro.»
«Ci soffierò sopra: si ravviverà.»
«È triste Rapallo d’inverno.»
«Forse che noi cerchiamo allegria?»
«Non c’è nessuno a Rapallo d’inverno.»
«Forse che noi cerchiamo compagnia?»
«Cosa cerchiamo a Rapallo d’inverno?»
«Una possibilità.»
«Cosa andiamo a fare a Rapallo d’inverno?»
«Andremo a vedere il mare
ad ascoltare il mare.
Passeggiate lungo la spiaggia
orme sulla sabbia che rimarranno impresse per giorni
sino a che l’acqua
di cielo o di mare
non le cancelli.
Andremo a letto presto la sera
ci sveglieremo tardi al mattino.»
«È tanto che non facciamo all’amore.»
«È tanto che non pensiamo all’amore.»
«Tra viaggio e soggiorno ci vorranno almeno…»
«Ho messo qualcosa da parte.»
«Ci servirà. Bisogna pensare ai giorni a venire.»
«I giorni a venire sono il lavoro che manca.
Ai giorni a venire ci penseremo dopo Rapallo.»
«Andiamo a Rapallo.»
La partenza era fissata per oggi
-mi era passato di mente-.
La valigia era pronta sul letto.
La valigia gettata in fretta dal letto per far posto al suo corpo.

Lunga pausa.

Ora voi dite:
è per questo che io vado meglio.

Indicando
Meglio di te, di te, di te
meglio che altri.

Rivolta ad uno
Il mio caso desta
tu sostieni
pietà.
Fatalità manifesta…eh già…
Non solo rapporto di lavoro interrotto
anche morto
sul posto di lavoro sottratto.
Destino storto
infame.
Chi ascolterà ne trarrà
convinzione.
E poi, ditemi
e poi?

Ripetendo le parole di qualcuno
La coscienza è già tanto…
già
tanto…
La coscienza…
Un panno
da sciacquare in acqua corrente
candeggiarlo nemmanco.
Così macchia si sovrappone a macchia
aloni residui ricordano
passate lavate.
E la coscienza si espone a bavaglio
nelle ore del pranzo
o di cena
a sporcarla di sughi o di strutto
e nettarla poi in un tempo ristretto
ascoltando le notizie in tivù.
Fronte che si corruga all’insù
naso arricciato
ciglia e rime di labbra all’ingiù.
E il commento che nasce spontaneo:
«È orribile, intollerabile tutto questo.»
lascia subitaneo il posto a un comando:
«Passami il vino!»
Volete che sia io ad appiccare questa coscienza
dispiegata a tovaglia durante i pasti
con gli zolfanelli umidi che mi trovo in mano?
Il dolore che ancora non provo tutto intero
la rabbia che macina dentro
ad ogni sospiro.

Lunga pausa

Sei giorni addietro…
Sei?
Forse più…
o forse meno…
quattro forse
ma potrebbero essere sette…
È che ora il tempo mi sfaglia
e s’affolla la testa
di schizzi di volti e di oggetti
di mani che prendono e danno
di colori che cambiano
in sequenza, a casaccio.
Tutto quanto ho fatto in questi ultimi anni
quello che faccio ora
ogni mio atto recente
si mischia come un mazzo di carte
muta la posizione nel tempo
e diventa incerto e incostante
quanto viene prima
ciò che segue.
Ciascuno ha la sua ossessione
che lo precede e non gli dà tregua.
La mia ossessione era
il tempo esatto, scandito
ogni mio atto, ogni avvenimento
al suo posto, inserito
nello schedario della memoria.
Ora non più.
In questi ultimi giorni
i miei
il tempo s’imbroglia.
E così io ci riesco
ad andare oltre la mia ossessione
a sopravanzarla
e pestarla
e correre avanti senza legacci;
e scavalco gli intralci del tempo.
Del tempo non ho cura
da dodici ore in qua.
Di tempo ce n’è poco o ce n’è tanto.
Io procedo sicura però.
Il tempo non mi appartiene.
Di tempo non ne ho
né poco né assai.
Ma questi son fatti miei.

Rivolgendosi a tutti
A voi non importa se fu
quattro o sette o cinque
o meno o più
giorni addietro.
A voi importa il racconto.
Quello ci fa andare avanti
avanti insieme
…anche se poi
io resto ferma qui.
Fu alcuni giorni fa
diciamocela così.
Ero a tavola a pranzo;
con mio figlio ero.
Una minestra di brodo vegetale
quello liofilizzato
glutammato;
questa era per tutti e due.
Per mio figlio in aggiunta
due fette di cacciatorino
un trancio di galbanino
una pagnotta:
ha da crescere lui.
E crescerà senza poter gustare
i sapori di terra e di mare
che la mia lingua riconosce all’olfatto.
Perché soltanto ai signori in città
è concesso il gusto che
ragazza
rinnovavo ogni giorno.
I signori in città
chiamano frugale
il nostro pranzo
povero
come ogni pranzo a mezzodì.
Perché il pasto importante è la cena
quando c’era anche mio marito;
ed io m’ingegnavo
ogni sera
a far comparire la tavola con gli otto euro
destinati ad alimentarci.
Tanti e non più.
Ed io ci riuscivo.
«Bisognerà scendere a sei e cinquanta»
ragionavamo io e il mio uomo
«quando il figlio andrà alle superiori.»
Ora i conti bisognerà rifarli.
A pensare al tempo
in cui anch’io avevo un lavoro
ci pareva che scialassimo allora.
Quanti anni fa?
Due…quattro…
forse più forse meno.
Dieci euro e cinquanta al giorno
per pasti e colazioni a quei tempi.
Il resto andava alle finanziarie.
Prelievo diretto in busta paga.
Prendi ora e paghi tra un anno.
E noi prendevamo.
E firmavamo risme di carta.
Senza leggere
senza fare domande
senza farci due conti
senza perdere tempo
firmavamo
per paura che qualcuno ci togliesse dalle mani
il giocattolo.
Ci hanno usurato gli anni
con quei prestiti ad usura.
Poi ci hanno tolto il lusso
di farci mettere scorno e raggiri.
Licenziata con taglio netto.
Taglio d’esuberi in fabbrica:
taglio d’esuberi in famiglia.
«Il lavoro non manca dalle nostre parti.
Troverai quanto prima un lavoro.»
Sono anni che cerco
tre, due, quattro
più ancora o forse meno.
Chi mi si prende alla mia età?
E donna per giunta
per giunta madre
la testa alla casa ed al figlio.
Basso rendimento
orario rigido
flessibilità zero;
niente notti
indisponibile ad occupare turni vacanti.
E quand’anche accettassi quanto richiesto
lo farei con mugugni e faccia tesa
non con sorrisi benigni
a passo lesto
compresa
delle necessità dell’azienda
-già…
anche questa pretesa:
obbedire
con la felicità nel cuore!-

Rivolta a una
Non è stato così per te?

Rivolta ad un’altra
Lo stesso per te!

Rivolta ad un’altra
E tu
che ne tremi al solo pensiero
e non dormi la notte.
Così siamo scesi
a otto euro al giorno per imbandire la tavola
a mezzogiorno e a sera.
E anche quel giorno
-quattro sette cinque giorni fa
forse meno forse più…che importa-
la tavola era stesa:
e c’era il galbanino c’era
la pagnotta c’era
anche il cacciatorino.
Mio figlio quel giorno
aveva infilato a rosario i suoi monosillabi
e faceva discorsi completi e spediti.
La minestra era più saporita quel giorno.
Eravamo allegri
e sputavamo il corallino nel piatto ad ogni risata.
Parevamo cosparsi di liscivia quel giorno
e scivolavamo dalle mani
l’uno dell’altra.
Era una gara a sopravanzarsi
in sghignazzi
battere di piedi, singhiozzi
manate sul tavolo e rutti
a pretesto dei cartoni in tivù.
E così andammo avanti col telegiornale
mentre sfilavano
potenti d’Italia
facce di gomma
laide
somma di vacuità e sgrammaticature
parole sfilacciate
senza impunture.
«Sono più cartoni dei cartoni.»
disse mio figlio.
Ma non scattò la risata.
Si stoppò la risata
alla notizia annunciata:
«Anche oggi dobbiamo registrare due morti sul lavoro.»
Ci volgemmo insieme
l’uno verso l’altra
io e mio figlio.
E i suoi occhi
si appigliarono ai miei.

Rivolta a uno
Tu dici che forse…

Rivolta a un altro
Lo pensi anche tu?

Rivolta a una
Tu pure?

Rivolta a tutti
È così per voi tutti?
Normale…
vi siete già espressi…
Tutto quanto accaduto…fatalità.
Il destino crudele
…come si dice in questi casi…?
s’è accanito
contro me e mio figlio.
E il mio uomo poi…
l’ha azzannato.
Conseguenza:
quello che ascoltavamo in tivù
che improvviso ci aveva bloccato l’umore
altro non era che
un presagio.
Non era presagio.
Presagio è quando
si presenta alla mente ad un tratto
un fatto
che tu temi che accada.
Noi temevamo ogni giorno
ad ogni ora del giorno.
Scansavamo il timore
per riuscire a far altro
per pensare ad altro.
Ma il timore schizzava in alto
tra un atto e un altro
tra un pensiero e un altro.
A volte si presentava da sé
dispettoso e beffardo;
a volte bastava un richiamo
come quello trasmesso
quel giorno in tivù.
No,
non era presagio.
Era paura
quella che ci accompagnava da anni;
quella che vedevamo
trasmessa in tivù
incisa sui volti
dei compagni di lavoro
di quei due appena morti.
«Potevo esserci io.
Posso esserci io in qualunque momento.
Domani ci sarò io.»
Pensiero comune
per tutti lo stesso.
Ma la paura, no
non si mette in comune.
Ciascuno si carica addosso la propria
e se la porta a fardello.
Quei due morti non erano presagio;
erano lo specchio della nostra paura
palpabile;
paura di una morte possibile
in una fabbrica in un cantiere non altrove.
E lo specchio deforma
il fardello s’aggrava
e la paura cambia di segno
a sentire parlare il direttore dell’azienda
dove sono morti quei due.
Ascoltate le sue parole
precise
perché le ho impresse alla mente
perché rintronano agli orecchi tremende
da dodici ore in qua.
«Disgrazia o imperizia?»
questa domanda lui rivolgeva
«Confido nella giustizia dello stato.»
proprio così lui disse
«L’azienda esclude ogni responsabilità.»
parole esatte vi dico
«La sicurezza sul lavoro è una nostra priorità.
Ma una quota di incidenti e decessi
è da ritenersi fisiologica.»
…fisiologica…capite?..fisiologica…
«Noi siamo all’avanguardia in Europa.»
…all’avanguardia in Europa…
«Dati alla mano possiamo con orgoglio affermare»
…orgoglio…sì, disse orgoglio…
«che incidenti e decessi sono
per la nostra azienda e per l’intero settore
entro i limiti della media europea.»
…entro i limiti della media europea.
Mio figlio reclinò la testa;
poi la fece girare senza indirizzo;
disse a filo di voce
e a schizzi tornò a ripetere:
«Per loro
è così facile.»
Riconobbi allora suo padre
che si macerava
dentro di lui anche per lui.
E anche per lui in quel momento
non riuscivo a stringere tra le mani
il suo tormento.
Aveva da sfogarsi da sé.
Ma ogni sillaba
ogni impennata di quello sfogo
era una verrina che forava le tempie.
«Perché è così facile?»
la domanda rappresa del padre
a cui non è più consentito
dare risposta.
«Per loro
è così facile.»
la certezza sospesa del figlio
a cui nessuno di voi s’è disposto
a dare un seguito.
Facilità…capite?..
accadimento certo, stabilito
già messo in conto.
No fatalità…
nessuna casualità…
per nulla destino.
A pensarla disgrazia
-voi mi capite…
ditemi almeno che mi capite dopo quanto vi ho detto…-
a chiamarla disgrazia
farei tradimento.
Tradirei mio marito
morto perché al lavoro
assente per sempre
eppure presente ancora.
Farei tradimento a mio figlio
disteso sul divano da dodici ore in qua
muto assente
eppure presente
a me.
E allora chi
tra voi
darà risposta alla sua domanda
se non l’ha fatto prima
chi
di voi
darà seguito alla sua certezza
se non l’ha mai ascoltata.
Soltanto io
io soltanto
ho da entrare nel cerchio di ciascuno dei due
dei miei due uomini assenti e presenti.
E frantumare il pensiero primo
in pensieri minuti
veloci e ribelli
tanti.
E scheggiare la certezza unica
in tante domande
giocose e rabbiose.
Io questo lo voglio
so che lo voglio.
La volontà
ora mi scuote.
Ed io sento la scossa.
E mi sento, sento
la carne sotto la veste
la scorza la pelle.
Se batto la natica, io la sento
sento
la coscia che pizzico;
il braccio che stringo
il busto che cingo
io li sento.
E il dolore io sento
che assomma per farsi intero
dolore fiotti di sangue tra i muscoli
e nei visceri.
E la rabbia che sento
è carta vetrata che raschia la cute.

Rivolta a tutti
Ed ora
cosa dovrei fare per voi ora?
Cosa mi chiedete di fare?
Ditelo ancora.

Attende risposta; poi
Nessuno risponde?
Silenzio!
Vi mostro io il quadro.
Voi mi vorreste…
Io seduta in un salotto in tivù…
come lo chiamano?

Riprendendo la risposta di qualcuno
…talk show…
…show…non vuol dire spettacolo?...
…spettacolo…
Io nello spettacolo
donna basita
inserita
nel video montato da uno spettatore distratto
tra carrellate di culi e di tette
tra raffiche di spernacchi e barzellette.
Il mio dolore un dolore composto
lodato da presentatore e vallette
additato ad esempio dal politico mesto
e da quello indignato
messo in risalto
dall’imprenditore mea culpa
e dal sindacalista d’assalto.
Cos’altro vorreste?
Vorreste che accenni anche
alla malasorte
pietà aggiuntiva
che mi fa priva dello sposo e del suo sostegno
a un solo giorno dal licenziamento
indegno
potrò aggiungere se voglio
ma senza marcare troppo il rancore.
E infine l’appello
accorato
che le morti di dodici ore fa
non siano vane
che servano
a destare attenzione
…pietire pietà…
alle condizioni di sicurezza
sul posto di lavoro.
E mai riferimento
-mi raccomando…mai!-
allo sfruttamento che fa morire ogni giorno
prima che giunga a portare via il corpo
la morte annunciata.
E i fiotti di sangue
a tamponarli
la carta abrasiva
sostituirla
con pomata lenitiva.
Dolore e rabbia
lasciarli fuori
dallo studio tivù.
Dentro lo studio invece
tutti a consentire a capo chino
occhi chiusi e fronte increspata
compresi
delle belle parole di una donna
generosa nell’animo
coraggiosa nel lutto
del tutto adatta a rappresentare
la maggioranza delle donne d’Italia
pervase
dal senso delle istituzioni
e dello stato.
Vaffanculo voi le istituzioni la tivù e lo stato.
Andateci voi a rappresentarvi così.
Io non sono adatta
io me ne chiamo fuori.

Riprendendo le parole di una
Tu chiedi soltanto
un ricordo pubblico di tuo marito…

Riprendendo le parole di un’altra
Tu t’aspetti che serva a qualcosa
la morte di tuo fratello…

Riprendendo le parole di un’altra
Tu pretendi che sia nobilitato
il lavoro di tuo padre
…che di lavoro è morto…

Riprendendo le parole di un’altra
Tu vuoi fare sapere
che resti sola al mondo
ora che tuo figlio è morto…

Rivolgendosi a tutte
E questo
vi basta?
V’accontentate di poco…
Io voglio di più!
Non so
non so cosa sia di più.
So che voglio di più.

Rispondendo ad uno
Non sono io che mi stacco da voi.
Siete voi a lasciarmi sola.
Donna sola e smarrita…

Rispondendo ad un altro
Stare insieme perché?
Per fare numero?
Per fare massa?

Rispondendo ad un altro
Per essere classe
tu dici…
Noi siamo classe
lo siamo da secoli.
Lo siamo per loro
quelli
a cui rendiamo lavoro
lavoro sino alla morte.
E loro trasformano
con astuzia e con frode
il lavoro in profitto.
Ma per noi…
non siamo più
classe da tempo
numeri e massa siamo
anche per noi.
Non corrono più
desideri e sentimenti di classe
tra noi.

Riprendendo le parole di uno
…portare pazienza…

Riprendendo le parole di un altro
…attendere le condizioni…

Riprendendo le parole di un altro
…ci vuole il contesto…

Riprendendo le parole di un altro
Ci vuole tempo, già.
Con te sono d’accordo.
Ci vuole tempo.
Ed io di tempo ne avrò
e passerò il mio tempo
a guardare esplodere
questo mondo di merda.

Guardando tutti, sorridendo
Non quelle facce, vi prego.
Non andrò a mettere bombe
né a preparare ordigni.
Vederlo esplodere nella mia testa.
Con la fantasia negare importanza
a questo mondo di merda.
Alla realtà ci penserò in seguito.
Alla realtà ci penserà mio figlio.
Ora basta.
Lasciatemi sola, vi prego.
Non reggo.
Vi prego,
andate via.
La fatica del corpo intero
finalmente
mi presenta il conto.

Fa per andare; si volta per rispondere a qualcuno
Non ci vedremo domani.
Non porterò mio marito ai funerali di stato.
Niente chiesa
niente stato
niente
applausi di circostanza.

Si accendono le luci di sala. L’attrice che ha interpretato la DONNA DAL VOLTO CUPO si rivolge agli spettatori
Ed anche tra noi…
niente applausi.

Rivolgendosi all’attore che ha interpretato l’UOMO DI SPALLE
Sei d’accordo anche tu?

L’attore che ha interpretato l’UOMO DI SPALLE acconsente. Rivolta agli spettatori
La circostanza preferisce il silenzio.

Gli attori abbandonano il palcoscenico; e non torneranno.