LORO
Storia vera del più famoso rapimento alieno in Italia

di Maurizio Patella
Collaborazione di Antonio Paolacci

© 2013. Tutti i diritti sono riservati

 

 

1. IL METRONOTTE

 

Figurati se capisce che c’hai da fare, che devi andare al lavoro.
Quello ti prende per il braccio, come per dire: ora ti attacco un bottone che ti levo il sorriso. Io con questa, dice, ci ho fatto i 160.
Ma con ’sta bara a quattro ruote?
Altro che bara. Il Fiat 127 è una bella bestia.

Già tanto se il 127 non ti lascia a piedi, si dice Piero. La guida tutte le notti, se non lo sa lui.
No, no, no, è una bella bestia il 127. E per arrivare ai 160 ci vuole coraggio, dice quello, il volante vibra tutto, che sembra d’attaccarsi alla presa di corrente con le dita bagnate. Ma se continui a spingere, dice quello, hai il privilegio – dice proprio così: il privilegio – di vedere la lancetta del tachimetro che dopo aver toccato i 160, fa il giro completo e torna allo zero. Belìn, superi la bandiera del tuono.
La bandiera del tuono? La barriera del suono!
Vabbè, uguale: guarda come ride.
E dove li vai a fare? dice Piero. In autostrada?
Macché. Li ha fatti nella galleria delle Ferriere. Una galleria di duemila e cento metri di puro tripudio motoristico.
Quelli che finiscono il rodaggio della macchina, sui 1.000/1.500 Km, vanno in ’sta galleria a slegare il motore. Sai mai che ti fermi al semaforo e trovi uno che vuole fare a gara, e tu hai la macchina ancora imballata. Alla domenica mattina, tutti lì, in quel posto da lupi, sui monti. Quelli con la moto, e quelli con la macchina. A darsi la pacca sulle spalle, a stappare lo spumante, sembra la premiazione del gran premio.
Vai, vai. Vai a slegare il motore della 127, ché io ora devo andare a lavorare.

Ecco la galleria è quella. Tutta nera, come entrare in miniera. Ma Piero prosegue lungo la Statale 45, che da Genova arriva a Piacenza. Dai 160 allo 0: te lo dice lui come si fa. Basta che tiri dritto in curva, e decolli fuori dal guardrail. Da 160 a 0 in due secondi netti. Anche se non hai ancora finito il rodaggio.
Perché lungo la Statale 45 c’è morta parecchia gente. Gente che era in ritardo al lavoro, gente che andava a ballare, gente che tornava dalla galleria delle Ferriere e credeva di essere Gilles Villeneuve, Emerson Fittipaldi.
Ci sono le foto sul guardrail. Ragazzi col viso imbronciato in mezzo ai fiori di plastica.
Pensa te se uno deve morire a ’sto modo scemo, si dice Piero.
Invece, Piero prende le curve con dolcezza, e la Statale 45 sale e sale, la valle si chiude sempre di più, come un calzino strizzato, e sale e sale e non ci sono più lampioni, e il buio è buio vero.

Ecco, Piero mette gli abbaglianti: l’asfalto mezzo ghiacciato, la neve ai bordi, si riempiono di tante stelline.
Prato, Bargagli, Torriglia, Montebruno, Rovegno. La ronda di stanotte, come tutte le notti. Per quei paesini dell’entroterra che d’inverno sono posti da lupi, dove il buio è buio vero. E in tutto quel buio, in cima ai monti, ’sti grumi di case buie, tutte strette. E al centro della piazza, l’insegna di un bar, accesa. Bar 72. Bar Eden. Bar Franco. Bar Giamaica. Bar Ciarli. Ma scritto senza l’acca. E la “e” finale. C, i, a, erre, elle, i: Ciarli. Tanto il concetto si capisce.
Dalla vetrina si vede un tavolino, e quattro vecchi col bicchierino di grappa, e le carte in mano. Ce n’è uno che sta per fare scopa. Ma quando passa Piero col 127, e li illumina, il vecchio si paralizza, si congela, sgrana gli occhi. Liguri montanari, quelli. Anzi montagnini. Liguri e montagnini. Che il genovese in confronto a loro è un tipo solare, un ottimista!
Quella è gente che non è abituata a persone che non sono di lì. Che se passi da quelle parti ti guardano come i gatti accecati dai fari delle macchine.
Gente un po’ indietro su certe cose.

Pensa che a inizio Ottocento in uno di ’sti paesini, a Montebruno, atterrò la mongolfiera pilotata da Sophie Blanchard, l’aeronauta personale di Napoleone. Non è che volesse atterrare proprio lì, a Montebruno. Figurati, mica era matta. Lei era partita da Milano, da Piazza del Duomo, perché quel giorno c’erano i festeggiamenti per il compleanno dell’imperatore. La folla, le bandierine, i fuochi d’artificio, la fanfara, quante meraviglie. E tra queste meraviglie c’era anche lei: una donna pioniere del volo, pensa. Venuta lì per un’ascensione dimostrativa. Scioglie la cima. Tutti col fiato sospeso. La mongolfiera si stacca dal suolo, e va su e su e su. Fino a diventare un punticino nero nel cielo. Solo che a quei tempi le leggi del volo non erano molto chiare. Salire bene, ma scendere mica tanto. Tant’è che i venti la portano via. E attraversa la pianura padana, l’appennino ligure, fino a che, in fondo, Sophie Blanchard non vede luccicare un diamante. Il diamante più grande del mondo, un milione di carati.
Allora viene presa dal panico, è terrorizzata: se la mongolfiera si affloscia proprio quando sta sorvolando quel diamante gigantesco, cioè il mare, diventa cibo per pesci.
«Aidez-moi! Aidez-moi!»
Scioglie una fune, fa un occhiello, e cerca di prendere all’amo un albero.
«Aidez-moi, aidez-moi!»
E quelli di sotto, i pastori di Montebruno, stanno lì con la faccia su. Anche le pecore, con la faccia in su.
«Ma coss’è ghè?»
E non capiscono, si guardano tra loro, e tra loro e le pecore.
A un pastore gli viene un’idea geniale. Come ha fatto a non pensarci prima? Belìn, ma è chiaro: quella lì è la Madonna!
E chi altro poteva essere? Che mica le donne normali volano. È la madonna, no? La Madonna a Montebruno!
E scoppiano a piangere, si fanno il segno della croce. Pensa te, la Madonna a Montebruno.
E tutti: «La Maddonna! La Madonna!».
E anche le pecore: «La Madonna a Montebruno!»
E la Madonna atterra.
E quelli la aiutano a scendere, e poi tutti in ginocchio a rendere grazie: «Prega per noi, prega per noi».
«Mais non, qu’est-ce-que vous faites?»
«Prega per noi. Prega per noi».
«Mais, non».
Finché uno di ’sti liguri montagnini pensa che il momento del ringraziamento sia finito. E se la vuole portare a casa. Eh, certo, sono occasioni, ’ste qua! E questa qui fa due occasioni in una, visto che la Madonna è anche una donna… Meno male che poi sono arrivati quelli di Torriglia a fermarlo.

Posti da lupi, quelli. Di notte la gente sbarra la porta, e ci mette la corona d’aglio contro i vampiri. D’altra parte dove devi andare, cosa devi fare? Che sei lontano da tutto, in mezzo ai monti.

D’estate, però, i genovesi ricchi ci vanno in villeggiatura, in quei posti. A prendere il fresco. Si costruiscono la villetta. Perché lassù è come stare in montagna, eh ma col vantaggio di essere a 30 Km da Genova.
Altro che Cortina! Tutti a Torriggia, ché si risparmia ed è bello uguale.
Nelle sere d’estate, ti metti il golfino, ché l’aria pizzica un poco. Ma d’inverno, d’inverno ci vai solo se ci devi andare.
Per esempio per lavoro.
Come Piero, che per lavoro ci va. Mette i bigliettini nelle ville.

Per questo, alle dieci di sera del 6 dicembre del 1978, Piero percorre la Statale 45. Per mettere i bigliettini nelle ville. Fa il giro dell’edificio, verifica che sia tutto a posto, e mette dei bigliettini colorati per far vedere che è passato di lì.
Il metronotte. È questo che fa Piero.
Giubbino in pelle nera, alla Fonzie, molto americano. Il cappello con la visiera, il cinturone: molto americano. La Smith & Wesson calibro 38 special, molto americana. E ricetrasmittente.
[Fa il gesto del microfono] «Canguro!»
Molto americana; e 127, molto “Italia dei poveracci”.
«Canguro, dalla 78».
“Canguro” è il nome in codice della sala operativa. E “78” è il numero della pattuglia.
«Canguro, dalla 78».

Stasera, solita ronda. Prato, Bargagli, Torriglia, Montebruno, Rovegno. Lo fa da un anno, quasi tutte le notti. Ma stanotte, no. Invece di tirare dritto per Torriglia come fa sempre, forse per rompere l’abitudine, Piero gira per Marzano, che è un paesino che di solito attraversa al ritorno.
«Canguro, dalla 78».
Attraversa il paese, porte sbarrate e corone d’aglio, illumina il bar e il vecchio che sta per fare scopa, e prosegue per una stradina buia che va giù, nel bosco. Si ferma davanti a una villa. La targhetta di ceramica dice: Villa Verde.
Sembrano baite di montagna, queste ville. Il giardino, l’altalena. D’inverno, i genovesi ci vengono al massimo al week-end, ma in settimana si sente solo il vento che fischia.
Quella notte, però, anche degli scoppi lontani. Pam. Pam. È la galaverna, il ghiaccio ricopre ogni cosa. Foglie, rami, tronchi sono di vetro. I rami si spezzano, esplodono.
Piero scende dalla macchina e gli sembra di camminare sulla Luna. Lascia motore e i fari accesi. Gli abbaglianti accesi. Il buio è buio vero. Manco chiude la portiera: il tempo di mettere i bigliettini, e controllerà la villa successiva.
Finestre davanti. A posto, bigliettino. Finestre sul lato. A posto, bigliettino. Finestre sul retro. A posto, bigliettino.
Poi si volta in direzione della villa che deve controllare dopo. Come fa sempre, come fa tutte le notti. Solo che questa notte, lassù, questa notte, cazzo, ci sono quattro luci.
Quattro luci che si muovono da tutte le parti.
Piero corre alla macchina: «Canguro, dalla 78. Guarda che a villa Casa Nostra ci sono i ladri! Vado a controllare…»

Ecco.
Questa è la storia di un metronotte che incontra i ladri.
Quante volte sarà successo?
Questa volta, però, succede qualcosa d’insolito.
Di colpo la radio si spegne.
Il motore, i fari, si spengono.
E tutte le luci della vallata si spengono. Si spegne tutto.
Ora il buio è buio vero.

[Fa il gesto di buttare a terra qualcosa] «Ma che sfiga!»
L’impianto elettrico l’ha tradito! Insomma, è una Fiat 127!
Mica ha fatto caso al black out nella valle. Piero sa soltanto che è buio, e non vede da qui a lì. Prende la pila: funziona. E s’incammina.
Le pozzanghere congelate crocchiano sotto la suola, l’aria fredda brucia le narici. Sono cento metri da percorrere.
Quattro luci che si muovono, quindi quattro torce, quindi devono essere in quattro. Quattro contro uno. Può aspettare che finiscano. Sai quanti lo fanno. Chi vuoi che lo venga a sapere? I ladri mica lasciano il foglietto con scritto: il metronotte si è cagato addosso, ha fatto finta di non vederci. No, lui va dritto. Ha paura, ma va dritto.
Eccola. Tetto spiovente, muratura bianca, l’ultima villa del paese. Praticamente dentro al bosco. Piero spegne la torcia. Il cancello è aperto. E oltre il prato, la porta d’ingresso è spalancata. Sì, ladri. Aspetta, le luci, le quattro luci si spostano dietro alla villa. Forse si sono accorti di lui, forse no. E adesso che si fa? Piero si appoggia al muro della casa. Respira, Piero, respira. Striscia fino all’angolo in fondo. Pistola in mano, pila spenta. Appena quelli vengono: Mani in alto!
Ecco, adesso.
No! Adesso. No.

Bisogna essere pronti a sparare, ferire. Uccidere. Oppure essere uccisi. Ma uccisi per cosa? Per la villa di un altro? Già, per la villa di un altro.
Guarda, sta sudando dalla paura. Quattro contro uno e chissà quando vengono i rinforzi. Anzi, chissà se vengono.
Non pensare, Piero, non pensare: ora il problema è: da che parte della villa girano i ladri? Semplice, e molto pericoloso. Perché bisogna azzeccare il giro dalla parte giusta: se ci azzecca, li becca alle spalle. Oppure si trova faccia a faccia con loro, ma li coglie di sorpresa. Oppure? Oppure non si fanno vedere. Nessun rumore.
Ma perché non vengono? [Fa il gesto di sporgersi lentamente]

Una spinta alle spalle! L’hanno fregato!
E rotola, e rotola sul prato, dove non c’è nessuno e nessuno può venire in suo soccorso.
Da che parte è girato? È così buio che non ci capisce più. È gattoni, come un bambino di sei mesi.
Dove sei?
E tasta a terra. L’erba ghiacciata che gli dà come una scossa sui palmi.
Dove sei?
La pila! Ha trovato la pila. In tutto quel buio. Oggi è il suo giorno fortunato. D’altronde lui si chiama Fortunato di secondo nome. Piero Fortunato Zanfretta.
Dai, dove sei?
La pistola. È davvero il suo giorno fortunato. «Fermo, non ti muovere!». Ma a chi? Accende la pila.

Due piedi. [Mima il gesto di sollevare pistola e torcia]
Due tronchi d’albero che partono da quei piedi. [Continua il gesto]
E quando arriva in cima, ha ormai così paura che la torcia gli cade.

Di colpo si accorge di non avere manco più pistola.
Ma si ricorda quello che ha visto.
È pazzo. È pazzo di paura!
Tasta di nuovo l’erba, e punta ancora torcia e pistola.
Ma non c’è più nessuno!

Allora corre alla macchina, fa i cento metri più veloce di Pietro Mennea. E quando arriva, in quel momento, belìn! si accende il motore! Si accendono i fari! Si accendono tutte le luci della vallata. Tutte, contemporaneamente.
E da dietro la villa, un sibilo fortissimo. E una luce triangolare, più grande della villa, che si solleva piano, e la luce lo investe, lo acceca, e Piero si ripara col braccio, e ha caldo da strapparsi i vestiti. E la luce prende un’accelerazione formidabile, una velocità… be’, assai più veloce di una 127…

Il centralinista della Valbisagno – la Valbisagno è l’azienda di guardie giurate per cui lavora Piero – riferisce che la prima frase che Piero, Piero Zanfretta, gli dice quella notte del 6 dicembre 1978 è: «Mamma mia quanto è brutto!»
E quando gli chiede se lo stanno aggredendo, lui: «Non sono uomini, non sono uomini!»
E la comunicazione si interrompe. Il centralinista avverte subito il tenente Cassiba, il comandante dei metronotte, gli telefona a casa, lo tira giù dal letto, e il tenente Cassiba dà ordine immediato di mandare subito qualcuno. Il tempo di vestirsi e viene anche lui.
«Piero! Piero!»

I primi soccorsi arrivano a Marzano alle 1:15. Un’ora e mezza dopo. Due guardie giurate, che si dirigono verso la villa Casa Nostra, l’ultimo posto di cui Piero ha dato notifica.
Trovano la 127. Sportello aperto, fari accesi. E qualcosa là, riverso sul prato antistante la villa. Come un sacco.
«Piero!»
A quei due gli viene quasi da ridere: ma quanto ha bevuto? Guardalo, sdraiato per terra col culo bagnato… Poi, un attimo dopo, a quei due non gli viene più tanto da ridere.
Ora Piero si è sollevato e li fissa cogli occhi fuori dalle orbite.
«Metti giù la pistola, oh!»
Ma che gli piglia?
«Oh, Piero! Dai, piantala. Pensa ai bambini!»
Allora gli saltano addosso, lo disarmano, lo schiaffeggiano. Aspetta! Ma che è? Nonostante faccia freddo da morire, Piero ha gli abiti caldissimi, la testa bollente…

Poi, fari nella notte. Arrivano i rinforzi. C’è anche il tenente Cassiba che dà ordine immediato di caricare Piero in macchina, seduto di dietro.
Lui si stringe la testa, come se gli facesse male, la batte contro il finestrino.
«Ma, belìn, Piero, coss’è ghè?»
Niente, non risponde.
Quando arrivano alla sala operativa Piero si è ripreso. È imbarazzato, si vergogna.
[Con forte cadenza genovese] «Oh, Piero. Ma te bevuo?» [Fa il gesto di chi beve]
Macché. È pure astemio, Zanfretta.
Poi finalmente racconta. Le luci, i ladri, i piedi…
«Vai a dormire. Non ti preoccupare».
D’altronde quello del metronotte è un mestiere duro, si dice il tenente Cassiba, dormi poco. Per colpa della stanchezza chissà cosa ti capita di vedere…

Che poi a ripensarci, fosse stato oggi, nel 2013, cellulare, tac. Facile. Foto 5 megapixel, video HD. E ti invio un sms, un mms, una mail, ti linko, ti posto, twitto, whazzappo; ti lascio uno smile… Ma trent’anni fa lo smile era l’adesivo che si incollava sul paraurti del 126. Anzi, forse ancora in Italia non era arrivato nemmeno quello…
Ché parliamo del 1978. Gli anni di piombo. Di piombo, perché si sparava. Qui, da noi, in Italia. Mica in Mozambico. Accendevi la televisione in bianco e nero… Perché nel ’78 il televisore era in bianco e nero, e quanti canali c’erano? Mica trecento. Rai 1, Rai 2… basta. Manco c’era il telecomando: ti dovevi alzare dal divano e spippolare sul televisore, oppure lanciavi il figlio più piccolo, che in quegli anni ero io, e urlavi: «Rai 1!» e lui, cioè io, spippolava.
Mio padre – a quei tempi aveva le basette lunghe – usava anche il bastone della scopa. Sembrava un campione di biliardo. Tac tac. E mia madre applaudiva. «Bravo», gli diceva. Fino a che una volta ci ha preso un po’ troppo gusto e ha fatto cascare la Tv per terra, ed è solo per questo che siamo passati alla Tv a colori. Comunque, non divaghiamo. Insomma al telegiornale, tutti i giorni, c’era almeno un morto ammazzato. Perché c’era il brigatismo, la lotta armata. Le bombe. I politici, i giornalisti gambizzati. I comunicati con la stella a cinque punte. Le manifestazioni in piazza. Striscioni, bandiere. Gli scioperi degli operai. E lacrimogeni, botte, manganellate. Era questo il contesto, cercate di immaginarlo. I poliziotti, gli studenti. Anni in cui o sei di destra o di sinistra. Jeans a zampa, eskimo e sciarpa rossa: comunista. Jeans a tubo, bomber, occhiali a goccia: fascista. E tu da che parte stai? Perché bisogna schierarsi. Perché il mondo sta cambiando, credono tutti, anzi tutti credono che il mondo lo stanno per cambiare loro. In un modo o nell’altro. Basta furbi, basta ladri. Equità sociale. E non ci sono ragazzini che si rimbecilliscono col touch screen, ma ragazzini che giocano a pallone, si lanciano il frisbee, si divertono con le palline clic clac, e la gente normale ha delle pettinature assurde… be’, cioè le stesse pettinature assurde di adesso, visto che tornano di moda nel 2013, ma allora ci si parlava di più, ci si incontrava. Esistevano i sani principi, i valori. Onestà, impegno. Buona educazione. Finita la scuola, ti cerchi un lavoro, ti compri casa e ti sposi. A che età? Venti, venticinque anni. Che sono le cose semplici, che ti fanno felice. Famiglia, figli, un picnic sui prati. E quando arrivi a casa: «Qualcuno ha telefonato per me?» Perché c’è un solo telefono, pesante, grigio, attaccato ai fili, col disco. È un oggetto della casa: non è una cosa che ti porti dietro. Sei tu che devi raggiungere il telefono. E il telefono serve a tutti. E quindi rispetta la coda! Che prima c’è tua sorella, poi tuo fratello. E infine te. E nell’attesa di telefonare ti butti sulla poltrona a sacco e metti su l’ultimo 33 giri di Rino Gaetano, e vai dritto all’ultima pagina di “Skorpio”, dove vendono gli occhiali a Raggi X per vedere le ragazze nude attraverso i vestiti. Altri tempi: altra vita…
Tempi in cui se vedi qualcosa non hai modo di fotografarla, a meno che non sei un fotografo che gira sempre con la sua Reflex, per dire… e Piero non è un fotografo. Lui fa il metronotte. E quando torna a casa sono le quattro del mattino.

È annebbiato, come se qualcuno gli avesse fatto il gong dentro alla testa, e si spoglia cogli occhi chiusi, nel buio.
E mentre sfila la camicia sente delle crosticine sulle spalle, sulla pancia, e sulle gambe. Allora accende l’abat-jour e scopre che è sangue coagulato. E quando va in bagno, gli brucia da morire lì sotto: la sua pipì è nera come petrolio.
Ma cosa stai a rimuginarci? Meglio cucirsi la bocca ché i capi della Valbisagno manco la vogliono sentire ’sta storia, quello che hai visto, quella cosa che nemmeno puoi nominare.
E no, perché, ripeto, siamo nel 1978. Mica adesso. Oggi se ne parla ovunque, in tivù, su internet, siamo pieni di foto, di video con macchie che si muovono nel cielo, dischi che passano, luci, sigari giganti che sorvolano i monti… Se ora, nel 2013, dici di aver visto un ufo, rischi che ti credano tutti, e magari finisci su Italia 1. Anzi, nemmeno: ché con tutti gli avvistamenti che ci sono, migliaia e migliaia di avvistamenti, un ufo visto da te che sarà mai? Ci siamo abituati. No?

Alcuni dicono che questo sia calcolato, che faccia parte di una strategia occulta per abituare la popolazione mondiale all’idea di non essere soli nell’universo. La strategia detta “di acclimatazione.” Acclimatazione graduale e progressiva. Una strategia messa a punto nel 1947, da quando, si dice, un disco volante precipitò vicino a Roswell, Nuovo Messico, Stati Uniti, e i resti – del disco volante e degli omini verdi che lo pilotavano – vennero portati in un’area militare segretissima. La famosa Area 51.
Non certo una notizia che si poteva dare così, al telegiornale delle venti: «Cari telespettatori, gli alieni sono tra noi. Ma state tranquilli, mica da adesso: da milioni e milioni di anni. Hanno costruito decine di basi segrete dentro ai vulcani, in fondo al mare, e sul lato oscuro della Luna. Alcuni, poi, vivono nelle nostre città, affittano case, pagano l’Imu…» Ma che? Vuoi scatenare l’isteria collettiva, suicidi di massa? Allora acqua in bocca e strategia di acclimatazione. Un po’ alla volta. Prepariamoli. E appena la gente è cotta a puntino, conferenza stampa alle Nazione Unite a reti unificate, con il presidente Obama, in diretta mondiale: «Signori, è stato un anno proficuo, e speriamo che la crisi economica finisca presto, yes we can! Ah, aspetta… Lui è Twiti. È un alieno. Saluta, Twiti. È timido, Twiti. Bene, ora che siete acclimatati, sappiate che in realtà ce ne sono milioni come lui che scorrazzano per il mondo. Saluta, Twiti…»

Dunque, dicevamo. No: non siamo mica a oggi. Nel 1978, se dici ufo, o sei pazzo o leggi troppi fumetti.
Anche se in verità, proprio quest’anno, a febbraio, è uscito al cinema Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg e, proprio quest’anno, in Italia si è segnato il record degli avvistamenti ufo sul territorio nazionale; di colpo, la gente ha cominciato a vedere strane cose nel cielo… Eh, ma è ancora roba da ubriaconi, roba da hippie. A Genova, se provi a dire una cosa così, ti dicono: «Ma ti fè ’e spinelli in tè brassa?» Ovvero: «Ma ti inietti gli spinelli nelle braccia?»

Ecco, l’ora d’andare al lavoro. E Piero non ci pensa più. Giubbottino nero, pistola, e via per la Statale 45. E su su e su e la valle che si chiude sempre di più come un calzino strizzato, che magari l’unica cosa che gli scoccia davvero è lo sfottò dei colleghi.«Ehi uforobot!» [Canticchiando] «Si trasforma in un razzo missile…» Ah, dimenticavo, il 4 aprile del ’78 è andata in onda su Rai 2 anche la prima puntata di Goldrake

«Canguro alla 78. Zanfretta! Piero Zanfretta devi andare a Marzano ché ci sono i carabinieri che ti aspettano».
«Stai a vedere che i caramba mi fanno uno shampoo per quello che è successo ieri notte», si dice Piero.
Arriva a Marzano, e di colpo Piero si paralizza, non riesce più a muovere un dito. Il panorama è bellissimo. La vallata. I monti. Il bosco. Ma il panorama non c’entra niente.
«È lei Piero Zanfretta? Venga, venga».
Ci sono i carabinieri davanti alla villa. E tra questi Piero riconosce il brigadiere Nucchi. Si conoscono da quando sono ragazzi. Un amico.
«Oh, Piero. Che succede? Belìn sei bianco come un cencio! Cos’hai, paura dei carabinieri?»
Piero fa no con la testa: indica la villa.
«Be’, raccontami, poi vediamo».
E allora Piero racconta. Le luci, i ladri, i piedi.
«Dai, Piero, non piangere. È finita, su».
Lui, Piero lo conosce da anni. Lo sa che non è uno che si impressiona, o che ha fantasie per la testa. Però la domanda gliela deve fare: «Oh, Piero. Ma te bevuo?»
Macché, è pure astemio.
«Ti faccio vedere una cosa».
Il prato davanti alla villa è coperto di brina. L’erba crocchia sotto la suola. C’è un segno, là in fondo. Un segno a forma di ferro di cavallo, circa tre metri di diametro. Sembra il segno di un elicottero o qualcosa di grosso. Qualcosa di grosso?
«Piero, ne sai qualcosa di ’sta roba qui?»
Piero fa no con la testa: c’ha una faccia!
Ma il brigadiere Nucchi non se la passa mica meglio. Di solito i carabinieri di Torriglia si occupano di qualche scazzottata fuori dal bar, furti nelle ville. Fungaroli dispersi: la specialità di Torriglia. Quelli che si sporgono per cogliere il porcino dell’anno e scivolano nel burrone. Ogni anno c’è sempre un vecchietto assassinato dal famigerato porcino serial killer.
Ora, invece, visto che in zona si è sparsa la voce, la gente si è fatta coraggio: due donne di un paese vicino a Marzano si sono messe in testa di aver visto una palla di fuoco che si dirigeva verso la villa. E un altro dice di aver visto, mentre zappava il campicello, un oggetto luminoso che volteggiava nel cielo.
«Tipo le frecce tricolore, ma più bravo».
Allora, era un aereo militare, si dice il brigadiere. Un pallone metereologico. Macché. L’Aeronautica sostiene che non c’è stato nessun passaggio aereo in quelle ore nella zona di Torriglia. E allora avranno sognato. D’altra parte, ’sti qui non sono i pronipoti di quelli che scambiavano la mongolfiera per la Madonna?
«Son quelli di Montebruno».
«Vabbè, uguale. Due testimonianze non sono molte».

Ma poi non è così. Perché poi succede che non sono più due, le testimonianze.
A quelle due se ne aggiungono altre cinquanta. Ben cinquantadue testimonianze, in totale. E mica bifolchi: tra questi ci sono il guardiacaccia, il sindaco. E perfino il curato: Don Pietro, che dice d’aver visto un «affare» che volava sopra alla parrocchia.
«Un affare?»
«Sì, un affare».
«Ma prima hai detto ufo».
«No, ho detto gufo. Gufo volante! E comunque era un affare. Un affare!»

Bisogna capirlo, Don Pietro. Un prete non può pronunciare la parola ufo. Mai pronunciare la parola ufo. Specie da quando è uscito al cinema Incontri ravvicinati del terzo tipo. Perché adesso tutta ’sta gente, ’sti miscredenti, si sono messi in testa che gli angeli sono in realtà dei dischi volanti; che la Madonna fu fecondata dagli alieni; che Gesù era un extraterrestre che ci voleva insegnare l’amore universale, e visto che noi abbiamo avuto la geniale idea di crocefiggerlo, una mattina ci sveglieremo con milioni di dischi volanti sulla testa, coi cannoni puntati: «Terrestri, iuh iuhu! Ve lo ricordate, Gesù?» No. Un prete nel 1978 non può pronunciare la parola ufo.
Manca ancora molto al 2009, quando il direttore dell'Osservatorio astronomico del Vaticano, Monsignor Funès, ha affermato che gli extraterrestri esistono eccome.

«Hai voglia», ha detto Funès, «con cento miliardi di galassie, cento miliardi di stelle e attorno a ogni stella almeno una decina di pianeti che girano, vuoi che non ci sia qualche omino verde con le antenne?»
«Ma l’esistenza degli extraterrestri non è in conflitto col Cristianesimo?» gli ha chiesto un giornalista, «mi riferisco all’unicità della Rivelazione: Dio si è fatto uomo per noi…»
«Eh, no!» ha detto Funès, «guarda te, che simpatico il nostro giornalista! Il Salmo 23 recita: “Del Signore è la Terra, l’universo e i suoi abitanti” ed è vero che Dio si è fatto uomo per noi, per noi e basta; perché i terrestri sono le pecorelle smarrite dell’universo, mentre gli alieni essendo più intelligenti di noi, sono in armonia con Dio e quindi privi del peccato originale. Quindi non era necessario che Gesù venisse a salvarli, capito?»
«E se gli alieni fossero dei cattivi?» ha insistito il giornalista, «se fossero dei sanguinari, che so, dei pedofili?»
«Chi ha detto pedofili?! Che simpatico il nostro giornalista! Ma stia tranquillo. Anche gli alieni avranno potuto godere della misericordia di Dio. Come? Mistero della Fede. In altre parole, Gesù è sceso sul loro pianeta e si è fatto uom… no, si è fatto… cioè coi tentac… vabbè…»

Cinquantadue testimonianze. Tra cui il guardiacaccia, il sindaco, e il prete. Ma per il prete era un «affare».
Il brigadiere della finanza Esposito, quella notte, il 6 dicembre ’78, è davanti a casa sua. Sta tirando giù la saracinesca del garage. All’improvviso si trova illuminato a giorno. Dice all’amico che lo attende in macchina di piantarla di giocare cogli abbaglianti. «Ma quando cresci?». Solo che i fari della macchina sono spenti. E l’amico è accanto a lui e ha gli occhi sbarrati e guarda in su. [Guarda in alto] Sopra di loro, un enorme disco volante proietta una intensissima luce bianca verso il basso.

Cinquantadue testimonianze, e la peggiore è la cinquantatreesima. Quella che è rimasta segreta. E sai perché? Perché i superiori gli hanno consigliato di cucirsi la bocca. Il brigadiere Nucchi, quello che sta indagando sul caso, la notte del 6 dicembre era in macchina con sua moglie e una coppia di amici. Stavano andando a Genova, al luna park, lungo la Statale 45. Solo che a un certo punto la macchina si è spenta. E sono scesi tutti e quattro, tenendosi per mano.
Sopra agli alberi, immobile, un disco luminoso, che ruotava su se stesso come una trottola, con dei finestroni laterali, e le luci colorate. Esatto, sembrava il tagadà. Quello delle giostre. Tagadà!

8 dicembre 1978. Articolo sul “Secolo XIX”: Incontri ravvicinati a Torriglia. Metronotte sotto shock per avere incontrato un essere enorme, alto circa tre metri, con la pelle ondulata come se fosse grasso, o tuta molle. Comunque grigia.
La reazione dei genovesi è estremamente comprensiva e composta: «Ma per andare all’osteria di nascosto dalla moglie uno deve inventare tutte ’ste musse?»

Per i genovesi Piero è un ubriacone. Cinquantadue testimonianze? E chi se ne importa? Manco se gli alieni mi vengono a citofonare sotto casa, ci credo. Manco se vengono a grattarmi i calli con la pietra pomice, ci credo. Forse chi non è di Genova, non può capirlo. Genova è la capitale mondiale della sfiducia a priori. Del fastidio per l’altro. Per quello che l’altro dice, per il tempo che ti fa perdere. Le persone ti fanno venire il prurito, la scabbia. I genovesi, poi, sono gente pratica, orribilmente realista. ’A vita a l’è na tempesta e pigiarlu in tu cu, u’lè ’n lampu. E tu gli racconti di essere stato rapito dagli alieni? Ma manco se mi spunta dalla tazza del water, ci credo. E poi sono commercianti. E la prima regola del commercio qual è? Non ci sono amici. Solo gente che ti vuole fottere. Se volete vi insegno a imitare un genovese. Chiudete la bocca, saldate i denti. Stretti, mi raccomando. Ora provate a parlare muovendo solo le labbra. Provate. È inquietante. E poi fate così con la mano [come contasse]. Infatti il genovese non cerca di capire se dici delle cretinate (perchè questo è ovvio). Lui le conta. Uno, due, tre.

Il telefono di Piero squilla a tutte le ore. Visionario, imbroglione, alcolizzato. Ma mica per cattiveria. Il genovese ti rende un servizio informativo. Peraltro gratis. Tutto un trambusto che non fa bene alla famiglia, ai bambini piccoli. E poi due telefonate. La prima è di Goldrake. Pronto, Piero. Sono Goldrake. La seconda. Uno che chiede un’intervista. Rino Di Stefano, cronista del “Corriere Mercantile”. È lui che porterà avanti negli anni l’inchiesta sul caso Zanfretta. Lui non è convinto. La storia è francamente pazzesca, dice. Ma il punto è: come mai questo metronotte, che è il classico bravo dipendente tutto casa e lavoro, un bel giorno raccontare in giro ’sta storia degli ufo? Per farsi licenziare? Non è razionale. Allora ha un’idea. [Incrocia le mani, le porta sulla fronte]
«Incrocia le dita delle mani e portatele sopra alla fronte. Adesso le tue mani non si possono sciogliere, fino a quando non te lo dico io».

Giucas Casella, a “Domenica in”, tanti anni fa. Il pubblico in sala, la gente a casa davanti alla Tv: tutti con le mani incrociate. Un momento bellissimo per l’Italia. Giucas Casella diede l’ordine di scioglimento e la gente a casa che non riusciva più a districare le dita. Al mattino dopo è andata a lavorare così. A casa mia ci districammo tutti, meno mia nonna. Lei, però, c’aveva un’artrosi tremenda. Il geriatra l’ha districata con la fiamma ossidrica.
Ma l’ipnosi è una cosa seria. Secondo alcuni sarebbe in grado di fare affiorare ricordi rimossi a quella volta che hai avuto così paura che il tuo cervello, per non subire danni immediati, ha deciso di oscurare il ricordo dalla memoria cosciente. E qui entra in gioco l’ipnosi regressiva. È una macchina del tempo che ti riporta a quel ricordo, te lo fa rivivere. Ma il bello, dicono, è che si può regredire fino a vite passate. A quando eri un maya, un ostrogoto. Un australopiteco. Un pesce palla [gonfia le guance].

È per questo che adesso siamo in una piccola stanza, illuminata da un’abat-jour. Con un lettino sul quale si distende Piero…
Ha accettato subito di sottoporsi alla seduta ipnotica: «Così magari la piantano di darmi del bugiardo». Ha un microfono sospeso sopra la bocca…
La seduta ipnotica, questa e quelle successive, vengono registrate. Le parole che talvolta riporto sono le stesse pronunciate da Piero. L’unica differenza, è la mia intonazione.
«Davanti ai tuoi occhi c’è un grande orologio bianco con le lancette nere», è il dottor Moretti, il medico ipnotista, in camice bianco. «Questo orologio non va avanti, bensì indietro. Ora ci troviamo nel giorno 6 dicembre 1978. Ci troviamo di fronte a una villa. Villa Casa Nostra. C’è un cancelletto bianco, vero?»
«Sì», dice Piero. È in trance.
«Cosa c’è nel prato oltre il cancello?»
«Quattro luci».
«Saranno dei ladri? Non ha paura, vero?»
«No».
«Mi racconti cosa vede».
«Canguro dalla 78, Canguro dalla 78… le luci della macchina come mai? Le luci della macchina si sono spente».
«Parli più forte se no non la sentono».
«Canguro, mi porto dentro la villa ci sono dei ladri. [Ansima] Chi c’è? Che succede? Mamma…»
«Cosa c’è? Mi racconti. Io sono qui con lei e non può accaderle nulla. Mi racconti cosa vede».
«Madonna perché dovrei venire con voi? Cosa volete farmi? Cosa sono tutte quelle luci? Non voglio. Voi non siete esseri umani, via!»
Piero dice che lo portano in un luogo luminoso e caldo, dove loro lo esaminano, gli infilano un casco che gli dà scosse nel cervello. Dove lo spogliano nudo. Dal soffitto, dice, scende un macchinario con delle punte di vetro trasparente che gli buca spalle, gambe, fianchi, e lui può vedere il suo sangue che fluisce all’interno del macchinario e reiniettarsi in lui.
«Non voglio che tornate… Sì… farò come voi volete… Datemi una prova… Non mi crederanno… Via! Via! Via quel coso dalla testa! Aspetterò che tornate… Siete dei mostri! Voglio andare a casa».
Ora Piero racconta che sta scappando verso la macchina, forse loro lo hanno lasciato libero, e dice di vedere una grande luce alzarsi dietro la villa. Richiama la centrale: «Canguro dalla 78. Non sono uomini». Poi l’incontro coi colleghi.
«Ora voglio che lei mi descriva bene questi esseri che ha visto. Dice che non sono uomini come noi. Li descriva».
«Sono verdi. Occhi gialli a triangolo. Con degli spinoni. Hanno la pelle piena di rughe come se fossero vecchi. Hanno la bocca con qualcosa che sembra ferro, hanno delle vene rosse sulla testa, le orecchie a punta. Braccia con delle unghie… con delle cose rotonde… Vengono dalla terza galassia».
E poi aggiunge che non parlano la nostra lingua, emettono dei sibili che fanno male alle orecchie, ma traducono con un apparecchio luminoso. Comunicano a livello telepatico. E dice che torneranno presto, saranno numerosi.
Il dottor Moretti lo sveglia. Piero apre gli occhi. Non ricorda nulla di quello che ha detto. Anzi, per lui la seduta ipnotica è durata solo tre minuti, e invece è trascorsa più di mezz’ora. Coloro che presenziano alla seduta sono sconvolti. Non sanno più cosa pensare. Il tenente Cassiba si tiene la testa tra le mani.
In effetti Piero arrivò alla villa alle 23:45 e venne ritrovato solo un’ora e mezza dopo. Cosa è accaduto in quel buco di tempo? Piero dice che l’hanno portato in un luogo caldo e in effetti aveva gli abiti caldi, i capelli asciutti. Senza contare il segno sul prato, le testimonianze…

Ma magari a quello che dice c’è una spiegazione logica. No?
Ma che, ci credete? Guarda, c’è un asino che vola! Ma cosa siete, dei bambini? Che magari sono solo due cretini che hanno sparato due razzi in aria, e quelli di Torriglia hanno pensato al disco volante; e poi forse uno di ’sti cretini ha fatto il segno sul prato con uno pneumatico e tutti a credere chissà che.
Parliamoci chiaro. Noi proiettiamo sulle intelligenze aliene le nostre frustrazioni, le nostre ambizioni, le nostre paure: questa è l’ipnosi regressiva. L’ipnosi regressiva non fa che tirare fuori queste proiezioni, cioè ricordi falsi creati dal subconscio. Fateci caso. Ogni incontro è sempre diverso: qualche volta l’alieno fa ciao con la manina, qualche volta è troppo occupato a riparare il disco volante, qualche volta ci rapisce, ci tortura, ci molesta sessualmente: sono proiezioni del subconscio. Leggetevi Freud! E poi di che alieni stiamo parlando: Zanfretta dice alti tre metri, muscolosi, le squame, con i corni ai lati della testa, gli occhi gialli a triangolo: questi alieni non esistono! Non esistono! Se li è inventati! Proiezioni! Parliamo di cose serie…

Ci sono nove specie, li hanno catalogati.
Ci sono i Grigi. Alti un metro, col capoccione, magri, gli occhi grandi, neri. Sembrano quei pupazzetti che piacciono ai bambini, quelli che gli schiacci la pancia e fanno «Ueh!»
Ma in realtà i Grigi sono dei bastardi, freddi, calcolatori. Stipulano patti segreti coi capi di stato delle superpotenze: Usa, Unione Sovietica, Giappone, Cina, Inghilterra, Francia – con l’Italia, no – Germania, Spagna. In cambio della loro supertecnologia, i capi di stato gli concedono di fare gli esperimenti genetici sugli esseri umani.
Parliamo di cose serie, reali…
Poi dalla costellazione del Drago, i più perfidi, i più cattivi. I Rettiliani. Come dice la parola derivano dai rettili. [Soffia con la lingua tra i denti] Sono viscidi, infingardi. Mentre i Grigi stipulano patti segreti coi capi di stato, i Rettiliani hanno preso direttamente i posti di comando. Sono loro i capi di stato! I presidenti delle banche, delle multinazionali. Andreotti è un Rettiliano. Lo sanno tutti. Quindi i Grigi che sono superintelligenti hanno stipulato dei patti segreti con dei Rettiliani travestiti. Pensa, che imbecilli.
Poi i Pleiadiani. Capelli biondi, pelle chiara. Condividono con noi lo stesso DNA. Praticamente sono degli svedesi in tuta aderente. Hanno raggiunto un livello spirituale più elevato del nostro, e infatti non si fanno quasi mai vedere sulla Terra. Ma quando c’è il pericolo di una guerra nucleare, bang! Apparizione delle Madonna. Fatima, Lourdes. La Madonna è una di loro. “Controllo sociale”, presente? Appare la Madonna e gli esseri umani si danno una calmata. E comunque quando la Madonna ascese al cielo, nella gloria di Dio, ecco, era un disco volante.
Poi gli Uomini Falena. Con le ali, gli occhi rossi. Amano i posti isolati, i castelli, le grotte. Vedi alla voce: leggende sui vampiri.
Poi i Deros o Teros, meglio conosciuti col nome di gnomi. E poi ci sono quelli con lo scafandro da palombaro, e la luce in testa che gira, come il lampeggiante dell’ambulanza, ma forse sono solo dei robot. Vai a capire.

 

 

2. LE ORME

 

Ma basta con ’ste baggianate, basta! Che c’è l’affitto, le bollette da pagare… e chi le paga? Gli Ufo? Con tutta ’sta gente che mi rompe le balle per la strada, le telefonate, i giornali. Sai chi mi ha telefonato a Natale per farmi gli auguri? Goldrake! Tanti auguri anche a te, e salutami Actarus. E mi è andata bene, va, che non mi han licenziato. Che poi te lo dico io come si fa a trovare un altro lavoro, con la crisi che c’è. Venti giorni son passati da quella notte maledetta, e ora si ricomincia: giubbottino nero, pistola e via lungo la Statale 45. Prato, Bargagli, Torriglia, Montebruno, Rovegno. Belàn, che voglia! Senti, che tuoni. Mammamia. Peggio di così non potrebbe andar… aspetta un po’: piove. E la statale è diventata un torrente. Rallenta, va’, che sennò decollo fuori dal guardrail anche se non ho finito il rodaggio… Peggio di così non potrebbe andar… che tuoni che lampi aspetta un po’: la nebbia. Belìn, non si vede niente. Niente niente! Ma ce li ha i fendinebbia ’sta bara a quattro ruote. Figurati. Già tanto se in dotazione ti danno il volante. Guarda te che pioggia. Pioggia e nebbia. Nebbia e pioggia. Tempo da lupi. Ecco va’, ora imbocco la galleria della Scoffera, che mi riparo. Almeno ci si vede un pochino. Peggio di così non potrebb… ecco, ci mancava la nebbia in galleria. Belìn te l’hai mai vista la nebbia in galleria? Rallenta va’, che mi si chiudono gli occhi. Mi è venuto sonno. Guarda come sbadiglio. Ho preso due caffè prima di uscire e ora mi si chiudono gli occhi. Peggio di così non potr… rallenta, rallenta rallenta. Peggio di così non potrebbe andar…!!! Rallenta rallenta rallenta! Non risponde ai comandi ’sta belìn di bara a quattro ruote. Frena frena frena!
A un certo punto il centralinista della Valbisagno sente la voce di Piero alla radio: [urla] «Canguro… la macchina va da sola, ma dove mi sta portando?»
Dopo quattro minuti: «Canguro, la macchina si è fermata, io devo scendere: loro mi chiamano».
Questa è una storia che è facile dire: ci credo, non ci credo. Facile dirlo. Seduto in poltrona. Ma quando ci sei tu? Cioè, perché è tutta questione di punti di vista. Allora cambiamo punto di vista. Facciamo così: una notte. C’è una stradina che sale. Una stradina è così stretta che ci passa una macchina alla volta. E questa stradina attraversa il bosco. Gli alberi spogli, neri. I rami sembrano dita di strega. Ecco: un bosco da streghe, quelli che fanno paura ai bambini. Aspetta: c’è anche la nebbia. Spessa, solida. Un lenzuolo bianco. Quindi: una notte, una stradina che sale e attraversa un bosco da streghe su cui si stende una nebbia bianca come un lenzuolo. Ti basta? Ah, la pioggia. Un temporale tremendo, di quelli che spazzano via gli alberi, di quelli che vorresti essere a casa sotto la coperte, al calduccio. Quindi: una notte, una stradina, un bosco di streghe, la nebbia, mentre dal cielo si rovescia il peggior temporale che tu abbia mai visto. Ti basta? Ah, c’è una Fiat 127 davanti a te. Lo sportello aperto, i fari accesi. Ed è per questo motivo che sei lì. Per trovare quella Fiat 127. Bene, l’hai trovata. L’acqua scola dal tuo cappello da metronotte. Gli stivaletti fradici, a ogni passo fanno le bollicine. La torcia accesa, sulla mano sinistra. E la calibro 38 nell’altra. Ora: ci credo, non ci credo. A chi, a cosa? Burloni, alieni, o un collega pazzo, nascosto da qualche parte, armato? Tutta questione di punti di vista. Ti appoggi al tettuccio della 127 per guardare dentro all’abitacolo. E il tetto scotta. Ahi! Ma com’è possibile? Con questo freddo? Ahi! Sì, scotta. Allora: una notte, una stradina, un bosco di streghe, la nebbia, il temporale e una 127 che nonostante gli 0 gradi è rovente come un ferro da stiro. Ma non basta. Perché si muove qualcosa laggiù, dietro a quel cespuglio. Cos’è, un cinghiale? Però con la nebbia e il buio non sei così sicuro che sia un cinghiale. Sta di fatto che il cinghiale si è alzato sulle zampe e corre via come un cristiano. Allora: una notte, la stradina, il bosco, la nebbia, il temporale, la 127. E un cinghiale che scappa come un cristiano? E no, questo è troppo. Vagli dietro, rincorrilo, abbattilo a terra.

«Mi vogliono portare via, mi vogliono portare via!»
«Calmati, sono io!»
«Cosa ne sarà dei miei bambini? Non voglio, non voglio!»
E anche questa volta gli abiti e i capelli di Piero sono asciutti e caldissimi. Ha il viso bollente, le orecchie rosso fuoco. Poi, lontano, rombi di motore. E luci che baluginano nell’oscurità, appaiono, scompaiono tra i rami neri. Uno, due, quattro macchine che sgommano, e inchiodano proprio lì.

Il primo a scendere è il tenente Cassiba. Poi il direttore della Valbisagno. E gli altri che circondano la zona. Piero viene subito fatto sedere nel sedile posteriore di una Giulia. «Diamo un’occhiata in giro», dice il tenente Cassiba.
E i metronotte si sparpagliano, tanti bolli luminosi lungo il pendio, a illuminare tronchi d’albero, rocce, foglie morte. E un bollo luminoso che illumina il ciglio della strada. La vegetazione completamente estirpata. E il fango. E sul fango due segni paralleli, a forma di ferro di cavallo. Come se un elicottero, o qualcosa di grosso, fosse atterrato e la terra avesse ceduto per il peso. Ecco, segni così. Come quelli della villa. «Belìn, che bestione!» dice uno. Perché ci sono anche delle orme. Fresche. Mezzo metro di lunghezza, venti di larghezza. Si vedono benissimo. E stanno tutti intorno a guardare, e zitti, nessuno dice niente. Si sente solo il fragore della pioggia. «Ma non è che ancora qui?» e gli altri zitti, perché la domanda è entrata nella testa, se ci sono delle orme qualcuno le avrà fatte, no? E questo qui è talmente grosso che se ci tiri un cartone in bocca mica lo stendi.
«Be’, voi controllate», dice il direttore. «Voi controllate ché noi andiamo a Torriglia, a far bere a Piero un caffè caldo. Hai freddo, vero Piero? Tenente, venga, guidi lei».
E allora salgono sulla Giulia. Pochi metri, e il motore si spegne, la radio si spegne, i fari si spengono, i tergicristalli si bloccano a metà. Ma che succede?
«Non parte, direttore, non parte».
E accorrono gli altri, cinque di qua e cinque di là. Pistole puntate, torce accese. Si guardano intorno nella nebbia. Tremano.
«Tenente?»
«Che c’è?»
«Ma non è ancora qui?»
«Ma stai zitto!»
E Piero dice: «Ho paura. Ho paura».
«Ho capito, Piero», dice il direttore, «stai tranquillo».
«Loro sono qui», dice Piero. «Loro sono qui».
«Cassiba, a che punto siamo?»
«Non parte, direttore».
«Be’, vada, Cassiba, vada lo stesso. Anche a motore spento. Senza fari».
«Ma è pericoloso».
«Vada, Cassiba, vada».
Il tenente Cassiba apre il finestrino, tira fuori la testa. Il tenente Cassiba smolla il freno a mano. La Giulia si muove lentamente. Primo tornante. Padre nostro che sei nei cieli. Secondo tornante. Sia santificato il tuo nome. Terzo tornante. Sia fatta la tua volontà… Aspetta: «C’è qualcosa dietro di noi!».
Il tenente vede un riflesso nello specchietto retrovisore.
«Cosa, tenente?».
«Una lucina rossa… Ora non c’è più. No, ora c’è di nuovo!».
«Ma dove?»
«Dietro! Dietro di noi».
Il tenente Cassiba rallenta fino a fermarsi. Un globo rosso ronza attorno alla macchina come una mosca gigante.
«Direttore?»
«Vada, Cassiba, vada».
Poi, di colpo, la luce rossa scompare. E i fari della Giulia, in quel momento, si accendono. Allora il tenente Cassiba gira la chiave, il motore parte.

Finalmente arrivano in un bar di Torriglia, uno di quelli coi vecchi congelati a fissarti.
«Ma te bevuo, Piero?»
Sì, caffè caldo.
«Oh, Piero, ma cosa ci facevi lassù, in quel postaccio da lupi? Mancano sei proiettili dalla pistola. Hai sparato?»
Piero scuote la testa. Non sa niente di quello che è successo. Anzi è meravigliato che siano tutti lì:«Ma che c’è una festa?»
E ci sono altre cose che non tornano. Nonostante la pioggia e gli zero gradi, la 127 è rovente. Persino quando viene riportata in garage, alla fine di quella nottata, dopo un viaggio di quaranta minuti per Genova sotto la pioggia, il metronotte che l’ha guidata dice che sembrava di stare in un forno.
«Ma l’avevi spento il riscaldamento?»
«Ma son mica nescio».
Poi, ieri c’è stato un altro avvistamento. Dove? A Torriglia, la notte di Natale. Uno che dormiva a casa sua, e si è svegliato per via di un tonfo. Dice che c’era una luce fortissima che filtrava dalle tapparelle, come lame di coltello. Allora è uscito sul balcone. E in giardino c’era…
«No, non me lo dire. Non lo voglio sapere», dice il direttore.
«E adesso che si fa?»
«Facciamo il punto, perché qui non ci si capisce niente, c’è da impazzire. Qualcuno ha un’idea?»
«Un modo c’è, direttore…»
Piero si dice subito disponibilissimo a farsi ipnotizzare un’altra volta. Non vuole che ricomincino le telefonate, gli scherzi, la gente che lo sfotte per la strada. Perché durante la seduta ipnotica è impossibile mentire, no? Ufo o non ufo: l’importante è non farsi dare del bugiardo.

Questa volta sono in molti ad assistere. La prima volta era stata una cosa tra pochi, una cosa intima, quasi segreta. Ora è presente persino una troupe televisiva. Ci sono i faretti, due microfoni. Piero è visibilmente imbarazzato. Si sdraia sul lettino, il dottor Moretti lo addormenta. Ma prima di interrogarlo, gli prende un lembo di pelle della mano e lo trapassa con un lungo ago. Piero non reagisce. Bene, è in uno stato di profonda trance.
«Ora tu mi dirai in modo assoluto e veritiero tutto quello che ti succede».
Piero racconta in presa diretta quello che gli è accaduto, quello che pensa. Ha sonno, tanto sonno, dice, non riesce a tenere gli occhi aperti. E la macchina entra in galleria, non risponde più ai comandi. Va forte, fortissimo, la macchina. Imbocca una stradina di montagna. Si ferma. Lui scende. Una luce lo solleva.
«Ma cosa volete da me? Lasciatemi stare, io non vi ho cercato. Voglio stare in pace, ho due bambini, io sto bene così. No, la pistola, no: perché me la togliete? Sparate in quel quadro là? Io non ho sentito i colpi. No, il casco sulla testa no, vi prego, fa male. Ahia, la scossa. Adesso perché mi spogliate? No, non toccatemi. Lasciatemi stare le gambe. Voglio andare via, gli altri mi cercano. Come non mi troveranno? Mi trovano e poi vi aggiustano loro. No, che non ci vengo con voi, nel vostro pianeta. Siete mostruosi. Toglietemi questo coso dagli occhi, e il casco per favore… Ma perché queste domande? Io non so niente. Non potete venire sulla terra: la gente si spaventa solo a vedervi, non potete fare amicizia. Siete alti come giraffe! Come, non sapete cosa sono le giraffe? A voi interessano solo gli esseri umani. Vi servono delle cavie?»

L’8 gennaio 1979, ore 20:25 su TVS, va in onda il video della seduta ipnotica di Piero Zanfretta, l’ormai famoso metronotte rapito dagli alieni.
A Genova, scoppia il caso, i giornali non parlano d’altro; titoloni in prima pagina: ADESSO GLI UFO MI VOGLIONO RAPIRE; SONO STATO RAPITO DAGLI UFO; PROVE DELL’INCONTRO: ORME DI GRANDEZZA NON UMANA.
«Belin, hai letto? Oh, e guarda ’sta foto, guarda l’impronta! Belìn! Orme di scarpe giganti, oh, sarà un 72, 72 e mezzo, con tacco. Con tacco? Ma gli ufo vengono in mocassini?»
Il telefono di Piero riprende a squillare di continuo. Giorno, notte. Perché, ve lo ricordo, siamo alla fine degli anni Settanta. La gente non sa niente di ufo. Ha visto a mala pena un paio di film. Sì, certo. Ci sono le copertine illustrate della “Domenica del Corriere”. Ma è poca roba, rispetto a oggi.

Per chi non lo sa, “La Domenica del Corriere” è stato un popolarissimo settimanale, molto diffuso in Italia. C’è una di queste copertine illustrate, datata 1 novembre 1954, che riprende un episodio accaduto nella campagna vicino a Arezzo. C’è una signora che sta andando al cimitero, coi fiori in mano, e si è tolta le calze e le scarpe per via del fango, e ci sono ’sti due nanetti in tuta aderente, accanto alla loro navicella, che cercano di strapparle di mano le calze e fiori.
Un’altra ancora, molto inquietante, del 1962, che riprende un episodio avvenuto alle pendici dell’Etna: un uomo ritratto di spalle, abbagliato dalla torcia di due esseri umanoidi col casco.
E via dicendo… Ma extraterrestri, ufo, alieni veri e propri sono un argomento sconosciuto. Una roba da fumetti, da romanzi di fantascienza. E quell’anno poi è successo di tutto. Cose serie. Dall’assassinio di Aldo Moro alla morte dei pontefici. Pontefici, sì, al plurale perché ne sono morti due: Paolo VI e Papa Luciani. E poi le dimissioni del Presidente della Repubblica, Giovanni Leone. E i soliti morti ammazzati. Comunisti, fascisti, ma sempre ragazzini.
Il 1978 è un anno terribile, di fortissima tensione sociale, e la gente è inchiodata alla vita reale. E ora arriva questo, in prima serata, che dice che gli alieni lo hanno rapito. Certo, fa impressione vederlo parlare nel sonno. Cos’è un sonnambulo? Comunque dice cose senza senso. Fosse successo in America, gli si poteva anche credere. Che mi frega? In America succede di tutto. Nei film gli alieni invadono sempre l’America. Ma da noi, in Italia? Ma te la vedi l’Italia invasa dagli alieni? Ma te lo vedi te il presidente Pertini che stringe la mano o il tentacolo a un alieno?

Per altri, invece, Piero è la manna dal cielo. Ci sono queste prime bande di ufologi in continua guerra tra loro (oggi è praticamente un mestiere normale, l’ufologo, ma negli anni Settanta erano considerati mezzi matti fanatici, ossessivi). E tutti vogliono che Piero diventi il loro amico del cuore, vogliono l’esclusiva, le prove, finalmente le prove! Si travestono, lo abbordano nei bar, registrano la conversazione con un registratore nascosto nel taschino. Vanno sulla stradina di montagna, fanno il calco delle orme degli alieni, e poi distruggono le tracce per avercele solo loro. Cercano di estorcere indiscrezioni dai dipendenti della Valbisagno. Ricattano, minacciano, sono pronti a tutto. È una lotta senza quartiere.
Una notte Piero – nel frattempo, ha ripreso a lavorare nella zona di Torriglia – li trova nascosti vicino alla villa di Marzano. Sorpresa! Erano lì che lo aspettavano con le antenne in mano e le cuffie sulle orecchie.
E poi ci sono gli ufologi gli invidiosi: «Ma perché ’sta fortuna è toccata a lui? A uno come Zanfretta che manco ci crede?! Non sa manco distinguere un Grigio di Bellatrix da un Grigio di Orione. Un Rettiliano da un Pleiadiano. Un Uomo Falena da uno gnomo!» Capite che, per questi, Piero diventa un nemico mortale come nei fumetti: «Ti distruggerò, Piero Zanfretta, ah ah ah! Ti distruggerò!»
Sulle colonne de “Il lavoro”, presunti studiosi sostengono che è tutto un bluff. L’ipnosi non prova nulla. Piero Zanfretta è un visionario. Bisogna sottoporlo al Pentothal.

Il Pentothal ovvero il siero della verità. Quello che usava Diabolik. Secondo il diritto internazionale, oggi 2013, il suo utilizzo è classificato come tortura. Viene impiegato solo in psichiatria. Insomma, per i matti va bene. Ma nel ’78, no. Nel ’78 si discuteva sul suo possibile utilizzo negli interrogatori di polizia. La CIA, si diceva, ha le cantine piene di damigiane di Pentothal.
«Quelli m’hanno sfidato a sottopormi al Pentothal?» dice Piero. «E vai col Pentothal!»

Tutto accade velocemente, senza respiro.
Un altro lettino, a Milano.
L’infermiera estrae l’ago della siringa, e passa un batuffolo di cotone sul braccio di Piero. Accanto a lui c’è un professore molto importante. Il professor Marchesan. È lui che interroga Piero, il quale ripete per filo e per segno ciò che ha già raccontato nello studio del dottor Moretti, solo che questa volta c’è un piccolo colpo di scena. Anzi, un coup de théâtre:
«Noi, popolo di Titania, cosmo perso tra la stella luminosa e la stella cadente, siamo spersi nello spazio».
Piero riporta un dialogo che ha avuto coi suoi rapitori; si sdoppia in due ruoli, lui e loro. In altre parole si trasforma in una specie di registratore che ripete quello che ha sentito, e quello che ha detto.
«Noi vogliamo parlare con il grande capo vostro. Però non deve trovarsi paura».
«Ma a me non interessa. Io devo lavorare».
«A suo tempo ti lasceremo. Ora cerchiamo di vedere come sei fatto».
«Lasciatemi stare, siete orrendi».
«Noi abbiamo bisogno di te, e cerchiamo di far capire che vorremmo fare amicizia, ma a quanto sembra a nessuno va molto a genio».
Piero dice che loro sono tanti, tutti uguali. Maschi, femmine, bambini. Hanno migliaia di astronavi in perlustrazione nel nostro sistema solare e quando entrano nella nostra atmosfera diventano invisibili, grazie alla nebbia, o all’afa estiva. «Ma perché non si fanno vedere più chiaramente?» gli chiede il professore. Perché? Non si fanno vedere più chiaramente perché ci spaventerebbero a morte e ci farebbero impazzire. Dice che il loro pianeta sta per esplodere ed è per questo che vogliono cominciare una nuova vita qui da noi. Loro vogliono costruire una città dentro a una cupola di vetro, visto che patiscono il freddo. Dice che loro hanno una sfera all’interno della quale c’è una piramide immersa in una sostanza celeste. Attraverso questa sfera riescono a vedere quello che lui fa durante il giorno. Anzi, in questo momento, dice Piero, qui, adesso, loro ci guardano e tirano le conclusioni. Inoltre questa sfera è in grado di visualizzare il loro pianeta e la loro civiltà, ed è per questo che prima o poi gliela consegneranno: affinché lui possa mostrare tutto quanto a noi.
E hanno un messaggio per noi terrestri. Dice: NON VOGLIAMO CHE SI GIOCHI CON LE BOMBE ATOMICHE PERCHÉ DISTRUGGEREMMO NOI E IL LORO SISTEMA SOLARE.
La sintassi non è proprio terrestre, la logica nemmeno, ma che ci vuoi fare, loro sono extracomunitari…
«Ma chi sono “loro”?»
«Noi siamo I DARGOS».
«I Dargos?»
«Eh, sì, i Dargos».
Comunque il responso del Pentothal è positivo, dice il professore. Piero non mente. Certo, racconta una strana verità, ma lui non mente. Anzi, il figlio del professore di Milano, anche lui professore, Rolando Marchesan, ci crede così tanto a questa storia degli ufo, che in seguito dirà a Piero che lui ha formato un gruppo, un gruppo di specialisti, composto da lui, una psicologa, un ingegnere nucleare, un operatore cinematografico. Sono in quattro disposti a sostituirsi a lui in questi incontri ravvicinati.

 

 

3. LA VESPA VOLANTE

 

«Ma lascia perdere il Pentothal», si dicono i dirigenti della Valbisagno. «Lascia perdere il Pentothal, ché siamo diventati la barzelletta di Genova. Le altre ditte hanno gli infortuni sul lavoro, la mobilità, le pendenze sindacali, e noi abbiamo un dipendente rapito dagli alieni! Ma perché non possiamo essere una ditta come le altre? Perché? E poi come hai detto che si chiamano ’ste rumente?» dicono quelli della Valbisagno. «Dargos! I Dargos! E i loro amici del cuore chi sono, i Klingon? E il loro capo come si chiama? Herpes? Cactus? Ictus? Ma ti pare a te che ’sti qui si chiamino a ’sto modo?» dicono quelli della Valbisagno. «Cioè, esattamente il nome che ti aspetti possa avere un popolo alieno in un fumetto? ’Sta roba spussa lontano un miglio! E da dove vengono? Da Titania! Che, guarda un po’, di Titania ce n’è una nel sistema solare. È una palla di ghiaccio, con un po’ di rocce e metano solido, che ruota attorno a Urano. Ma non vengono mica da lì, i Dargos, no. Il loro pianeta è nella terza galassia. Però, tu guarda! lo hanno chiamato proprio come una luna di Urano, il pianeta loro, che coincidenza: un caso di omonimia intergalattica. Ma non solo…» dicono quelli della Valbisagno. Perché ’sta storia succede a Genova, capito? E quelli della Valbisagno sono genovesi; e i genovesi non credono mai a nessuno, sono diffidentissimi, sospettosi. È gente col cuore duro. E ora sono costretti a sentire la peggior storia lacrimevole dell’intero universo. La triste storia dei Dargos.

Ve la racconto.
Lontano migliaia e migliaia di anni luce da qui, c’è un pianeta, grande quattro volte il nostro, il pianeta Titania. Lì vive un popolo pacifico e di bell’aspetto, i Dargos. Purtroppo il loro pianeta sta per esplodere, e i nostri poveri amici sono costretti a fare le valigie e a scappare in massa, a bordo delle loro astronavi. E non sanno dove andare, i poveri Dargos. Vagano nell’universo, errano per le galassie, arrancano tra gli asteroidi, cercano disperatamente un pianeta ospitale in cui ricominciare una nuova vita, e vivere in armonia e letizia. E dov’è che finiscono, tra miliardi di galassie, e miliardi e miliardi e miliardi di pianeti? Da noi. Sul pianeta Terra. E non è che si presentano, buongiorno, buonasera. No, visto che sono superintelligenti, elaborano un piano sofisticatissimo e geniale: rapiscono un poveraccio, lo esaminano, lo torturano – ma senza offesa, gli dicono: niente di personale – e gli promettono una fantomatica sfera il cui unico scopo è quello di istruirci sulla loro civiltà millenaria, e questo poveraccio, Zanfretta Piero, professione metronotte, diventerà il messia dei Dargos. E dove avviene tutto questo? A Torriglia! A Torriglia, nell’entroterra ligure. Importanza strategica a livello mondiale!

«O ’sti alieni sono dei dementi o qualcuno ci prende per il culo», dicono quelli della Valbisagno. «Ci prendono per il culo, ’ste rumente! Va bene, è successo tutto troppo alla svelta, la situazione è sfuggita di mano. Ma ora basta. Bisogna agire», dicono quelli della Valbisagno.
Se u cân sè gratta è balle, ’a lévre scappa in-ta valle. Se il cane si gratta le palle, la lepre scappa nella valle. Ovvero: se stai con le mani in mano non combini nulla.
Visto che quelli – burloni, aerei militari segreti, alieni o rumente, quello che sono – hanno una passione per Torriglia. Spostiamo Piero dalla zona di Torriglia. Lo mandiamo a Genova, vicino al centro. Questo è il piano.

E così ora Piero gira in Vespa.
Eh, eh. Facile fare i furbi in quei posti da lupi, dove non c’è nessuno, non ti vede nessuno. Ma ora basta: c’è la risposta genovese.
Da questo momento in poi questa storia diventa una partita a scacchi. Mosse e contromosse. Tra quelli della Valbisagno e i presunti alieni, burloni, aerei militari segreti, rumente, quello che sono…

E cosa succede dopo?
Niente, per un po’.
Se la vita di Piero Zanfretta fosse un film, qui ci sarebbe la fine del primo tempo.
Ci si stira la schiena, si fuma una sigaretta, si va in bagno. Anche se, comunque, le cose vanno avanti. Solo che non interessano a nessuno. Sono i momenti morti del film, quelli di cui è composta la gran parte della nostra vita, quelli in cui si vive e basta. Ci si alza, ci si veste, si va al lavoro. Si torna a casa. Si porta a pisciare il cane.
Finora tutto si era concentrato in pochissimo tempo, adesso si ritorna al quotidiano. Magari all’inizio sono tutti un po’ nervosi. Vedi una luce che balugina nella notte, e dici alé, son venuti a prendermi. E invece è solo un aereo. E il giorno dopo, altra luce, altro aereo. E poi un altro aereo, e aereo. E aereo. E aereo. Solo aerei, per un po’. E se gli alieni non ti hanno rapito ieri, e manco oggi, e forse manco domani, allora ti dici che magari è finita, che non ti rapiscono più. E passano i mesi, e la memoria della gente è corta, si sa, per cui a Genova non ricorda più niente nessuno.
Ma Piero invece sì che si ricorda. Sentirsi dire che sei pazzo, imbroglione, ubriacone da mezza città quando lo dimentichi? E gli amici? «Gli amici sono come gli ombrelli, quando piove non li trovi mai», dice Piero. Mica tutti, ma qualcuno sì. E intanto le telefonate si fanno più rade. Ora non telefona più nessuno, men che meno Goldrake. E Piero gira in Vespa in un’altra zona, per i quartieri del levante; mette i bigliettini nelle ville. Come prima. Come all’inizio di questa storia. Solo che queste sono ville di tre piani in stile liberty, tutte nascoste tra i pini marittimi, in mezzo ai parchi. Si vedono appena.

Un tempo i quartieri del levante di Genova erano zona di villeggiatura per le grandi famiglie genovesi. Agli inizi del Novecento ci voleva mezza giornata in carrozza per arrivarci. Genova era lontana, e lungo la costa c’era una carrareccia che conduceva a questi piccoli borghi marinari, che sorgevano qua e là. Boccadasse, Vernazzola, Quarto dei Mille (da dove è partita la spedizione di Garibaldi), Quinto, Nervi. Ognuno con la sua chiesa, il suo porticciolo, le sue case di pescatori color pastello. Le rivalità tra un borgo e l’altro. Gente di Boccadasse che non poteva vedersi con quelli di Vernazzola. Quelli di Vernazzola con quelli di Quarto. Quelli di Quarto con quelli di Nervi. Ma siamo a cinquecento metri di distanza l’uno dall’altro! Uguale. Se t’incontro per mare manco ti saluto. E le ville costruite tra un borgo e l’altro, in mezzo agli orti e agli ulivi. Bellissime…
Poi il dopoguerra, il boom economico, l’urbanizzazione e Genova si è espansa, si è divorata tutto. Case dei pescatori, porticcioli, e ville. Che sono quelle che Piero deve controllare.
Finestre davanti, a posto: bigliettino. Sul retro, a posto: bigliettino. Aspetta: ora deve chiamare la sala operativa per dire va tutto bene. «Canguro, va tutto bene». Ogni venti minuti. E poi pedivella. Trot, trot. E riparte col Vespino 50. Marzo, aprile, maggio. Giugno. Luglio. E arriva l’estate. Il sole, il caldo. Ma che bello girare in Vespa di notte per la città deserta. Lo avete mai fatto? Con l’aria che sa di salsedine, e spettina i capelli. Perché nel 1979, a luglio, non si metteva il casco. La maglietta che si gonfia sotto il giubbino slacciato, e tornavi a casa coi capelli sparati in aria, come se avessi visto un ufo…
Bello girare in vespa di notte, mentre gli altri si rigirano nel letto, e soffocano dal caldo, e tu, invece, ti godi il fresco, lo sciabordìo delle onde, ti godi la solitudine. Talvolta la solitudine è una cosa bella. Peccato che stanotte, il 30 luglio 1979, non ci siano le stelle. Il cielo è pesante, nero pece; poi un lampo, e si vedono ammassi di nuvole che si arrotolano le une dentro alle altre, come fossero le spire di un enorme boa, e poi torna il buio vero. Peccato, si dice Piero, sta arrivando il temporale…

[Si siede: posizione da seduta ipnotica] «Oh, ciao Landi. Quando a bordo? Alle cinque? Va bene, ma mi fa male la testa. Ahia porca l’oca che male. Di’, Landi, è vero quello che hai fatto l’altra notte, che hai lasciato Zanardi nei guai? Come non è vero? Te la sei fatta addosso. Va be’. Ci vediamo domattina alle cinque. Io devo andar via, poi vengo, ora vado via. Devo andare in viale Quartara, ciao ciao… Porca l’oca! Cos’è quella luce verde?! No! Oddio! Mi alza! No, no, no! Urca vacca, nooo. Sono attaccato alla Vespa e sto volando?! Ma dove sono, qua dentro? Ah, che stanza… Mi ricorda qualcosa…» [Pausa]
«Belìn! Di nuovo voi?! Ma ahi! Cristo! Ma che cosa volete ancora da me? Non vi basta i guai che sto passando? No, è ora di finirla! E adesso dove andiamo? Stiamo volando? Dove mi portate? Questo monte mi sembra di conoscerlo… Ma cos’è che volete ancora? Io devo riferire qualcosa a voi? Ma mi fa male la testa! Ma fatemelo fermare un momentino questo dolore… Sì, un professore mi ha detto che io… di lasciarmi in pace a me, che sarebbero disposti a venire in quattro. Quindi andate a cercare loro. E non me! Sempre me! Loro sono più intelligenti. E ci vogliono anche venire! Come non vi interessa? Ma allora è una mania! Io non sono intelligente… Ma come cacchio devo fare per farvelo capire? E MOLLA LA RADIO. MOLLALA… E MOLLALA…» [Pausa]
«Ah, devo scappare, come cavolo si scende, qua. Schiaccio uno di questi bottoni? No, questo non è… Ecco: si è aperto lo sportello… Belàn che salto! Ahi le gambe! Ostia! Porca vacca, adesso corro… Così non mi fregano…» [Pausa]
«Ah, di nuovo ’sta luce. Ma cosa volete ancora? Se non mi date una prova non mi credono: ma come ve lo devo dire? Mi avete detto che mi davate una sfera… Come, un’altra volta? L’ultima volta? Oh Madonna Gesù! E quando? Quando? Il Grande Freddo? E quando è? Al diavolo! Basta che la fate finita. Io bisogna che vada via… Come? Devo camminare senza fermarmi?»
«Fermati!»
«Fermati, Piero!»
«Fermati!»
Ma, niente. Lui continua a scappare nella notte. Per una stradina di montagna, immersa nel buio.
«Piero!»
Di colpo, Piero si ferma. I metronotte lo raggiungono. Le torce gli illuminano la schiena.
«Oh, Piero ci hai fatto correre, eh?»
Piero si volta. Li fissa. E gli si precipita addosso, è una bestia feroce. Quattro contro uno.

«Loro hanno voluto così», dirà Piero due giorni dopo, durante la seduta ipnotica.
Siamo di nuovo a Milano, nello stesso studio dove gli avevano somministrato il Pentothal.
Loro hanno voluto così.
Loro, dice Piero.
Una voce dentro gli ha ordinato di colpire perché in quel momento il disco volante era là sopra, coperto da una nuvola nera, e lui doveva distrarre i colleghi per dargli il tempo di allontanarsi.
Poi riferisce qualcosa sulla sfera. L’oggetto che Loro gli devono dare. Ecco: lui dovrà consegnarla a un certo Hainke… Anche… Ianek… Hynek… «Ma cos’è, la marca di una birra?» si dice Piero.

No, è il professor Hynek. Un professore americano di astronomia, considerato il fondatore dell’ufologia a livello mondiale. Ecco chi è il professor Hynek. Ma questa faccenda del professor Hynek, della consegna, o meglio, della mancata consegna della scatola è una storia lunga, un’altra storia…

Comunque, dice Piero, gliela daranno la prossima volta, quando verrà il Grande Freddo.
«E la Vespa?» si chiedono quelli della Valbisagno.
La Vespa è in un piazzale in cima al monte Fasce, poco distante da dove hanno ritrovato Piero.
Ma che ci fa lì?
Quello è un posto isolato. A ottocento metri d’altezza. Da lassù si vede la città dall’alto, le petroliere lontane, il mare. D’inverno, quando il cielo è terso, azzurrissimo, vedi persino la Corsica. Ma di giorno non c’è mai nessuno.
Nel 1979 ci vanno solo quelli che vogliono truffare l’assicurazione. È vero. Giuro. Io da bambino abitavo da quelle parti. E vedevo ’sti signori che risalivano in macchina Via Apparizione, cioè l’unica strada che porta al monte Fasce, e guidavano a velocità folle, tiravano le marce, da fondere il motore. Roba da rally. E poi un’oretta dopo li vedevo scendere giù, a piedi, felici e contenti, con le mani in tasca, fischiettando. Perché arrivavano in cima e lanciavano la macchina giù dal burrone. Per intascarsi i soldi dell’assicurazione. Davvero. Se ci vai adesso, 2013, ci sono ancora le carcasse arrugginite in fondo.
Di notte, invece, quel piazzale è pieno di macchine in fila. Coi giornali attaccati ai finestrini. Tutti che testano la resistenza degli ammortizzatori. [Simula il cigolìo] Insomma quello è un posto da coppiette. Ma quella notte, casualmente, non c’era proprio nessuno. Il piazzale era deserto. Si vede che tutti i genitori di tutti i fidanzati di Genova si erano messi d’accordo per andare al cinema e avevano lasciato le case libere.
Senza contare che, quella notte, Via Apparizione era pattugliata da una guardia giurata, che giura su sua mamma di non aver visto passare nessuna Vespa. E il motore della Vespa, poi, verrà trovato freddo, e tutti quelli che hanno guidato una Vespa sanno che non è possibile avere il motore freddo dopo sei chilometri in salita. A luglio.
«Ma belìn, non mi verrai a dire adesso che la Vespa ha volato!» I dirigenti della Valbisagno non ne possono più, sono esasperati. Perché ormai è chiaro che gli incontri non finiranno qui, dato che quelli gli devono ancora dare ’sta benedetta sfera con la piramide dentro, no? E chi sono quelli? Burloni, aerei militari, alieni, rumente? Non si sa. «E quand’è che ritornano?» dicono quelli della Valbisagno, «Quando verrà il Grande Freddo?»
«Va bene», dicono quelli della Valbisagno. «Va ben… Ogni cäso in to cû se fa ûn passo avanti». Ogni calcio nel sedere si fa un passo avanti. Ovvero: sbagliando si impara.

Da ora in poi Piero userà una Mini Minor. E rimarrà in servizio a Genova. Tutte le radiomobili avranno un piano di emergenza, le strade di comunicazione con l’entroterra saranno pattugliate di continuo. E se si sente male, Piero ha l’ordine tassativo di riferirlo al direttore o al tenente Cassiba. Infatti si è compreso che quando ha il mal di testa da lì a poco ci sarà un contatto. E tutto questo viene fatto per un unico scopo: smascherare i presunti alieni.
«Vogliamo vederli in faccia! Ne va della loro reputazione. Che figura ci stanno facendo?»

 

 

4. LA NUVOLA D’ORO

 

Nel frattempo, è bene ricordarlo, ci sono telex dei carabinieri, relazioni, e soprattutto un “Rapporto informativo circa l'avvistamento di oggetti volanti non identificati ed umanoidi da parte di Zanfretta Fortunato” redatto dal brigadiere Nucchi di Torriglia, inviato alla Pretura unificata di Genova.
Il rapporto finirà sul tavolo del sostituto procuratore della Repubblica, che lo passerà, per competenza, al giudice istruttore, e da qui al giudice Russo che l’11 gennaio 1980, lo archivia per «mancanza di estremi di reato».
D’altronde chi doveva arrestare? Gli alieni?
A Genova, intanto, si è creato un clima di attesa. Nell’arco di questi mesi un articolo ogni tanto ricorda a tutti che sta arrivando il Grande Freddo. Cioè l’inverno. I presunti alieni hanno dato l’appuntamento, no? Ora c’era da scoprire se avrebbero mantenuto la promessa.

È la notte del 2 dicembre del 1979. È passato un anno dalla prima volta. Hai visto quante cose cambiano in un anno? Piero è al lavoro. Si ferma a un distributore self service di Corso Europa a Genova per fare benzina. Poi, scompare.
Volatilizzato.
Al che, scatta il piano d’emergenza. Radiomobili e volanti dei carabinieri partono alla sua ricerca. Ma non si trova. Niente. Sparito nel nulla.
Finché una voce rompe il silenzio radio: «Canguro, c’è un grosso disco luminoso…»

È la guardia giurata Pesci.
«Ma dove, Pesci, dove?»
«A Torriglia! Sulle alture di Torriglia, c’è un disco volan…»
«A Torriglia, un’altra volta? Ma belìn, allora son fissati!»
E già. Sono fissati con gli spiazzi nel bosco, coi posti da coppiette. ’Sti sporcaccioni! Ce n’è uno a due chilometri dalla villa di Marzano, quella del primo incontro. Se non fosse per i fari accesi della Mini Minor di Piero, che è lì abbandonata con lo sportello aperto, il buio sarebbe buio vero.
«Piero! Piero!»
È una notte senza luna. Mai andati nel bosco di notte? No, eh? È la prima cosa che ti insegnano nelle fiabe. Mai andare nel bosco di notte. Vuoi che le streghe ti arrostiscano il culetto e mangino il pancino? I bambini le sanno bene queste cose. Mai andare nel bosco di notte ché ci sono i lupi, i folletti, gli spiriti dei boschi… Insomma, il bosco di notte mette a disagio. Perché? Non so, i versi degli animali, degli uccelli, i gufi, il fruscìo degli alberi. Il pericolo è ovunque. Ma il punto è che, in questo momento, non si sente nulla di tutto ciò.
Anzi, non si sente proprio nulla.
Silenzio totale. E non è mica normale, per un bosco.
È come se un aspirapolvere avesse risucchiato i suoni. Il silenzio è assoluto.
Il tenente Cassiba e altri quattro metronotte hanno gli occhi sgranati, le pistole puntate.
«Piero, Piero!»
Perché? Perché poco prima che loro arrivassero è successo qualcosa di molto strano.
«Tenente?»
«Eh?»
«Ma non è che sono ancora qui?»
«Ma piantala, non c’è nessun pericolo!»
«E allora perché ci ha detto di tirare fuori le pistole?»
Infatti poco prima d’arrivare in quello spiazzo, hanno sentito alla radio la voce di Piero che urlava: «Mi vogliono portare via, mi vogliono portare via!» E in quel momento, una luce fortissima li ha investiti, e le macchine si sono spente come se l’impianto elettrico li avesse traditi. Loro sono scesi di corsa, accecati dalla luce che di colpo è scomparsa: e in quel momento le macchine si sono riaccese. Strano, eh?
«Tenente a me è anche successa un’altra cosa strana».
«Cosa?»
«Mi si è fermato l’orologio».
«Ma chi se ne frega?»
«Tenente», dice un altro, «anche a me si è fermato».
«Anche a me».
«Anche a me».
«Va bene, ragazzi, ci si sono fermati gli orologi, ma non è il caso di farne una questione, va ben?»
«Va ben».
«Cerchiamo Piero».
«Va bene, tenente».
«Piero, Piero!»
«Tenente?»
«Cosa c’è ancora?»
«Posso dire una cosa?»
«Eh».
«C’ho paura».
«Anch’io».
«Belìn, tenente, mi sento spiato».
«Va bene, però ora levami ’sta torcia dagli occhi».
«Ma tenente, è lei che me la sta puntando contro!»
«Ma cosa dici?»
[Guarda in alto. Fa il gesto di sparare] Sopra di loro una nuvola nera proietta due fari potentissimi.
Il tenente Cassiba svuota il caricatore: «Rumenteee!!!»
Un metronotte si piscia sotto dalla paura, e scappa via nel bosco. [Urla]
I fari si spengono.
La nuvola nera si solleva in verticale.
Piero viene trovato mezz’ora dopo nel bosco. Fuori di sé, mezzo assiderato. Non ricorda nulla, come sempre.

[Si siede nella posizione da seduta ipnotica] «Cristo, non mi sento tanto bene: ho un mal di testa che non ne posso più… Me ne vado, mi porto a fare benzina. Cacchio, è sempre in riserva ’sta macchina. Va’, ci metto 5.000. Ecco… Scusi, chi è lei? Perché sta nel buio? Ma si sente male? Devo venire in avanti? Perché mi guarda con quegli occhi? Ma… ma venga fuori! [Pausa]
Dove, dove devo entrare? Ah, sì. Entro dentro alla macchina e entro dentro alla nuvola. Dove andiamo adesso? Ci tira su! Stiamo salendo! Dio, quanta luce… E dove siamo qua dentro? Oh, no. Di nuovo voi?! Ma allora è una mania. Perché mi volete far vedere la vostra astronave? Ma a me non interessa. No, no, no! Io me ne vado… Ah, prima dovete farmi vedere l’astronave? E andiamo a vederla, forza! Certo che è grande… Cosa sono quei macchinari? A cosa servono? Madonna come siamo alti! Sì, ma la Terra dov’è? Oh, io voglio tornare a casa, eh? A me non me ne frega niente di quello che volete fare voi, io ho da andare a mettere i biglietti… E chi è quello che comanda? Eh, belàn, se è già brutto! Be’, visto che ci sono ero curioso di vedere cosa c’è dentro in quei cilindri. Me li fate vedere allora? Cosa c’è in quei cilindri? [Pausa]
Sono tutti i vostri campioni, che li tenete come cavie? Belàn che barbone quello… Ah, è quello che noi chiamiamo uomo delle caverne? E quello che cos’è? E quell’affare… quell’affare tutto… che sembra un uomo a forma di rana? Mamma mia che schifo. Ah, un vostro nemico di un altro pianeta? Ma perché lo tenete nell’acqua celeste? Per conservarlo? [Pausa]
E adesso da chi mi portate? Ma io non lo conosco, non me ne frega niente… Cosa mi deve dare? Ah! Ah, sì, l’aveva già detto l’altra volta. Ma è quello che vi comanda? Come? Quale sfera? Questa? E a chi la devo portare? E io dopo tutto il casino che ho passato, la devo dare a quello là? Ma BECCHITELA! [Pausa]
Non lo voglio, non mi interessa. Ho detto che non la voglio! Vuoi che la prendo? E io te la tiro dietro: toh, becchitela! E molla il braccio! E molla! E porca l’oca mi strappi tutto! Ecco hai visto cosa hai fatto? [Pausa]
Fatemi vedere… Chi c’è giù? Quelli mi cercano. Sparano… Ma perché gli date fastidio con quei due fari? Ma mi stanno cercando! Belìn, ma… E andiamo a vedere ’sta astronave, oh belìn! Cos’è quella luce che si accende e si spegne? Cos’è? Uranio? Va be’, comunque a me non me ne frega niente… Belàn quanti comandi! Ah, ora dico, cosa vi costa farvi vedere? Lo so che non è mica tanto facile! Sì, ma che devo passare per matto io, no, eh? E POI A ME “PICCOLINO” NON MI CHIAMI, CAPITO? Eh? Mi fai vedere cosa c’hai davanti a quel belìn di bocca? Sì, ma se non ti abbassi non vedo… Belàn che buco! E come mai esce luce? È una materia luminosa nel vostro sistema corporeo? Ah, va be’, lascia perdere: alzati, vai… Dov’è che siete andati? E a far che cosa sopra la Spagna? Perché? Ma belìn! Ma così spaventate la gente!»

Notizia dell’Ansa del 3 dicembre 1979: «Guadalajara (Spagna) – Veterinario spagnolo afferma di essere stato seguito da un oggetto volante non identificato (Ufo) mentre si trovava al volante della sua automobile. Accecato dal forte bagliore giallo, proveniente dall’apparecchio, ha perduto il controllo del veicolo che è uscito di strada».

Come faceva Piero a saperlo?
No, perché, se non si fosse capito, lui durante la seduta ipnotica ha anticipato il contenuto della notizia. È sconvolgente.
Allora il punto è che non puoi prendere per buona una cosa e l’altra no. Perché Piero, durante la seduta ipnotica, ne dice di cose.
La notte del rapimento, dice, quando era al distributore a fare benzina, c’era qualcuno vicino all’autolavaggio, che se ne stava lì, mezzo nascosto. «Venga fuori». Niente, non si muoveva. «Che cos’ha? Si sente male?»
Piero si è avvicinato e c’era ’sto tizio con la testa a uovo, il vestitino a scacchi, le mani in tasca. Tutto dimesso, timido.
«Si sente male?»
E il tizio ha alzato la testa, lo ha fissato. Gli occhi di mille colori, che ruotavano.
«Ah, sì. Dov’è che devo andare? Lì?»
E allora è stato condotto con la macchina dentro a una nuvola e sollevato a bordo dell’astronave.
Ma cerchiamo di capirci, sull’aspetto di questo della pompa di benzina: se il tizio con la testa a uovo assomiglia a un vostro amico, allora il vostro amico è un robot alieno che vuole rapirvi.
Mi spiego? Testa a uovo, vestito a scacchi, comportamento non proprio umano…
Una volta arrivato sul disco volante, Piero dice che loro gli hanno mostrato uno schedario con un sacco di fotografie di politici, amici suoi, e tante altre persone che non conosceva. «A cosa serve lo schedario?» ha chiesto lui. «Lo adopereremo per i nostri esperimenti», hanno detto loro. Quali non si sa, però è bene saperlo: [Indica uno spettatore a caso] forse TU sei in un database, vicino alla foto di Berlusconi, e loro non sanno chi scegliere. Ma la cattiva notizia è un’altra: ricordate la sfera con la piramide dentro, quella che all’inizio dovevano consegnare a Piero, ma poi hanno cambiato idea e volevano darla al professore americano ed erano un po’ indecisi? Piero ha perso la pazienza e gliel’ha scaraventata in faccia. A chi? Al capo. Sì, al capo degli alieni. E il capo giustamente se l’è presa e gli ha strappato la giacchetta. Detta così, pare un litigio tra bambini, ma rendiamoci conto che stiamo parlando di alieni: potrebbero esserci delle conseguenze nefaste per tutti noi. Tipo una mattina, milioni di dischi volanti nel cielo.
«Terrestri, iuh hu!»
Comunque c’è anche una buona notizia. Il capo si è presentato. Quello a cui Piero ha tirato la sfera in faccia. Non si chiama Herpes, Ictus o Cactus.
Si chiama Almoc.
Almoc, principe dei Dargos.

 

 

5. A FARI SPENTI NELLA NOTTE

 

Cerchiamo di mettere un po’ di ordine, perché non ci si capisce più niente.
Va bene, Piero è pazzo. No, dopo tutte le visite psichiatriche, non è pazzo. Ubriaco, manco. Anzi, astemio. Bugiardo? Bugiardo no, perché c’è il Pentothal a dimostrarlo.
Ipnotizzato! Ma certo! Visto che ci riesce il dottor Moretti, può essere che qualcuno l’abbia ipnotizzato e l’abbia convinto di parlare cogli alieni. Il dottor Moretti, durante l’ultima seduta ipnotica, glielo chiede espressamente: «Piero, qualcuno ti ha mai ipnotizzato?»
«Sì, risponde Piero».
«Chi?»
«Il dottor Moretti».
«A parte me?»
«Ah sì. Quand’ero in Marina a fare il servizio militare, è venuto un pagliaccio a fare uno spettacolo e mi ha detto: scommetti che t’addormento? Ma figurati. E infatti m’ha addormentato».
«Non era proprio quello che ti stavo chiedendo…»
Comunque il sospetto rimane, non tanto che lo abbiano ipnotizzato per fargli credere chissà che, semmai che la sua mente sia sotto il dominio di qualcuno. Per esempio: la sfera con la piramide dentro, cioè la prova dell’esistenza degli alieni: Piero dice che quando gliela daranno non potrà farla toccare a nessuno, perché? perché LORO vogliono così, dice. Loro.

«Portobello, il mercato pazzerello dove trovi questo e quello»…
Conduce Enzo Tortora. Tutta Italia incollata davanti alla Tv. E questo è il momento in cui io e la mia famiglia veniamo a conoscenza del caso Zanfretta. Mio padre, mia madre, mio fratello, mia sorella, mia nonna. Tutti davanti alla Tv. I grandi sul divano, i piccoli seduti sul tappeto. Mio padre mi prende per il collo. [Fa come per lanciare] Antenna 3!
Portobello era una trasmissione rivoluzionaria per la televisione italiana di quell’epoca. Una specie di mercatino in cui la gente veniva in studio a proporre le proprie invenzioni. Ma cose strampalate, cose geniali. C’erano le telefonate da casa. Le centraliniste nei gabbiotti. Il pappagallo, che se riuscivi a fargli dire «Portobello» ti mettevi in tasca tanti soldini. E poi gli ospiti. «Cari telespettatori, stasera abbiamo qui con noi il metronotte rapito dagli alieni! Un bell’applauso a Piero Zanfretta».
A casa mia si sapeva niente di alieni, ma Piero era di Genova… insomma: campanilismo.
Piero viene ipnotizzato in diretta nazionale da un luminare della psichiatria. Da accapponare la pelle. Luci nella notte, ufo, Dargos, alieni. Roba mai sentita. Da quella sera scoppia un putiferio incredibile. Il caso Zanfretta diventa un caso nazionale. Diventa famoso anche all’estero. Però scatta anche la nevrosi collettiva. Nessuno ha mai sentito parlare di alieni. Allora gli alieni esistono, ma cosa vogliono, ci invaderanno… l’unico posto in cui sono tranquilli?

Ma per andare all’osteria di nascosto dalla moglie…
Genova. A Genova sono tranquilli. Sono rimasti alla versione “ubriacone”. A Genova va bene così. E quelli della Valbisagno, invece, non ne possono più di questa storia. Non gli fa una bella pubblicità. Mica lo puoi licenziare. I referti medici dicono che è sano di mente, idoneo al lavoro. Ci parli tu coi sindacati? E allora: «U’le mejo e bragghe sguarrae in tu cu’ che ’u cu squarrou in te braghe. Come cosa vuol dire? Ma sei di Barletta? «Meglio i pantaloni spaccati nel culo che il culo… eccetera».
Quindi: alieni o no, ciò che conta è che sia chiaro a tutti che noi non c’entriamo niente. A quanto pare ’sti sedicenti alieni – ’ste rumente – si divertono a sollevare le macchine con un raggio verde. Allora prendiamo una 127, la mettiamo sul ponte dell’officina e applichiamo dei cavetti d’acciaio sui mozzi delle ruote. Se la 127 viene effettivamente sollevata, l’asse converge e i cavetti si spezzano. Così vediamo se sono alieni o rumente! Secondo. Dato che la vetture guidate da Piero vengono sempre trovate roventi: un termometro a memoria, che registra la temperatura massima. E, ciliegina sulla torta: un segnalatore bip. Bip bip. Ogni radiomobile che si trova nel raggio di tre chilometri dalla macchina di Piero sente un bip. Bip bip. Più la 127 di Piero si avvicina, maggiori sono i bip, capito? Bip bip.
Ormai è una partita a scacchi tra la Valbisagno e gli alieni. Mossa e contromossa.

Bip.
Bip.
Ve la ricordate la guardia giurata Pesci? Quello che la volta scorsa ha visto il disco volante sulle alture di Torriglia e ha dato l’allarme? Ora è rannicchiato al posto di guida della sua macchina, nella piazza di un altro paesino, un altro posto da lupi, vicino a Torriglia. La Scoffera, si chiama. A quell’ora di notte, porte sbarrate e corone d’aglio. Anche l’insegna del bar è spenta.
Bip.
Bip.
Solo due mesi fa c’è stato l’ultimo presunto rapimento. L’altro ieri, il 12 febbraio 1980, Piero ha riferito al direttore di avere un forte mal di testa. E quando Piero ha mal di testa da lì a poco c’è un contatto. Allora il direttore ha mangiato la foglia e gli ha ordinato di prendere in servizio la 127 modificata.
Bip.
Bip.
Il metronotte Pesci guarda fuori dal finestrino. In tutto quel buio, vede qualcosa: «Oh, Madonna. Ma sempre a me capitano ’ste cose? [fa il gesto del microfono] Canguro, c’è un oggetto luminoso triangolare che si dirige su Rossi».
Bip bip.
[Risposta della radio] «Stia fermo lì e non si muova».
«Va bene, non mi muovo. Non mi muovo».
Bip bip.
Ora la guardia giurata Pesci guarda la luce del suo segnalatore bip. Una spia rossa. Bip bip. Ma il suo problema, ora, non è il disco volante. Il suo problema è il bip. Bip bip bip bip. Scende dalla macchina, e si mette in mezzo alla strada, a gambe larghe. A braccia aperte. A ics.
Bip bip bip bip.
Il suo compito è quello di fermare la macchina di Piero.
Bip bip bip bip.
Sente un brusio che si sta avvicinando.
Bip.
Bip.
Sembra una motosega.
Bip.
Bip.
Eppure non vede nulla in fondo alla strada. Buio completo.
Bip bip bip bip bip.
[Fa il gesto di scansarsi] «Ma porcu belìn!» Vrum! Biiiiip. Era una 127 che andava a fari spenti nella notte. Ma chi era: Lucio Battisti?

Il rombo di altre macchine. I fari di decine di pattuglie. È arrivata la cavalleria. [Intona la Cavalcata delle Valchirie] «In che direzione? Di là, verso Rossi. Fatemi salire con voi. No, gli ordini dicono di no. Non voglio rimanere da solo, ho paura, mi vien da piangere!!»
Vrum vrum. Questa volta non si fanno fregare. Sono esasperati. Decine di macchine risalgono la stradina di montagna che porta a Rossi. Al grido di battaglia: «Rumenteee!!!»
Da quello che dice Piero durante la seduta ipnotica, proprio grazie alla tempestività dei suoi colleghi lui è riuscito a scappare.
Perché, che è successo?
Dall’inizio, dico.
Durante la seduta ipnotica, Piero dice che quella notte stava lavorando dall’altra parte della città. Ha sentito un fischio nella testa. Un fischio? Già, perché loro gli hanno impiantato un oggetto triangolare metallico, qui, sulla nuca.
Cioè: quelli della Valbisagno hanno messo il bip nella macchina e gli ufo gli hanno messo il bip nel cervello?
Eh sì, Loro sono superintelligenti e hanno giocato d’anticipo.
Così ha preso l’autostrada ed è uscito all’altezza del cimitero di Staglieno. Al cimitero si è fermato, e lo sportello si è aperto da solo. E chi è salito?
Il tizio con la testa uovo.
Che ci faceva al cimitero di notte?
Non lo so, però io ve lo dico, ve lo dico dal cuore: se vi capita di andare ad accendere un cero, a mettere un fiore ai vostri cari, sappiate che potrebbe esserci un robot alieno, lì, un robot con la testa a uovo e il vestito a scacchi.
Comunque, testa d’uovo si piazza comodo comodo al posto del passeggero. E via, partono insieme verso nuove avventure lungo la Statale 45 con la macchina che va da sola, a fari spenti nella notte…
Piero dice che durante il tragitto non è che si dicono molte cose. D’altronde cosa gli vuoi dire a un robot alieno? All’altezza del paesino la Scoffera, poco ci manca che investano il povero Pesci. Imboccano una stradina di montagna, si fermano in uno spiazzo in mezzo al bosco, il solito posto da coppiette, come sempre. Sopra di loro c’è una luce fortissima, calda. Un disco volante di trenta metri di diametro. Testa d’uovo smonta dalla 127, entra nel raggio verde e ascende al disco volante, che subito dopo decolla con un sibilo assordante. E Piero? Piero non l’hanno rapito perché loro si sono accorti che… [Intona di nuovo la Cavalcata delle Valchirie] sta arrivando la cavalleria, gli amici metronotte. E intanto Piero, quatto quatto, scappa via. Sai mai che gli alieni cambino idea e vengano a riprenderlo. E nella fuga Piero lascia cadere alcuni bigliettini, quelli che mette nelle ville. Come le briciole di Pollicino. In modo che gli amici metronotte lo possano rintracciare.
Ma ora dov’è?

Piero è nel bollo luminoso di una torcia. C’è la sua faccia, tutta blu. Labbra viola. Mezzo assiderato. Al metronotte che lo inquadra gli prende un colpo, e pensa sia il fantasma di suo zio. E il resto del corpo di Piero è aggrappato a un cespuglio, in bilico sulla scarpata. Da quel punto infatti si apre un baratro immenso, uno strapiombo di centinaia di metri, un senso di vuoto che mozza il respiro. Durante la seduta ipnotica Piero riferisce che in quel momento avrebbe voluto urlare: «Guardate là sotto, accendete un faro nel burrone! Il disco volante è nascosto lì». Perché il disco volante non se n’era mica andato. Era rimasto in attesa, nel buio della valle, per vedere se la situazione migliorava. Casomai, per venirselo a riprendere. Ma Piero non poteva dirlo. Perché i Dargos, dice, gli avevano bloccato la lingua.

Il dottor Moretti dice: «Piero, ora dormi. Che sia un sonno tranquillo, ristoratore».
Escono tutti dalla stanza. Si guardano negli occhi.
«E ora che si fa? Qualche idea?»
Silenzio.
«Su forza».
«Nessuno vuole parlare?»
«Ei chi snaua…»
«Che dici?»
«Io, detto niente».
«No, mi sembrava di aver sentito…»
«Ei chi snaua… si naila…»
«E allora?»
«Cosa c’è?»
«La pianti o no?»
«Ma cosa? Ti giuro che non ho aperto bocc…»
«Aiex piscinau kep na».
«Piero!»
«Sono loro che si sono messi in comunicazione con me…»
Il dottor Moretti non ha mai visto niente di simile. Gli aveva ordinato di dormire, e Piero ha disobbedito!
«Piero li senti ancora?»
«Lesghinaus isceno isnaghè… Ah, cacchio!»
«Che succede?»
«Han già chiuso il contatto».
«Quindi questa sera volevano comunicare con noi».
«Sì».
Il dottor Moretti vede che Piero è molto agitato. Allora gli ordina nuovamente di riposare in modo da poterlo risvegliare senza scosse. Escono tutti dalla stanzetta. Si guardano negli occhi.
«Qualcuno ha un’idea?»
«Forza su».
«Allora?»
«Io ho un’idea».
«Quale?»
«Mi è sembrato di sentire qualcosa di là».
«Kastnè daisnemà kisnesnà».
«Oddio, un’altra volta!»
«Cosa c’è, Piero?»
«Forse ci siamo».
Il volto di Piero si trasfigura. Da ansioso, impaurito è diventato duro, incredibilmente determinato.
«Terrestre, parla!
[Bofonchia]
Terrestre, parla!»
«Vi farete vedere?»
«Ogni cosa a suo tempo. Lo so, è ora che ci facciamo vedere».
«Vi farete vedere da noi che siamo ora qui?»
«A noi interessano molte persone, che ci capiscano; non riusciamo a convincere questo terrestre a non avere paura di noi. Non abbiate timore: tempo al tempo! La nostra lingua è capita solo da lui. Voi non riuscirete mai a capir niente. Non risolvete niente in questi casi. Credere o non credere non vuol dire: ogni cosa a suo tempo. Tanti non rideranno più di questo terrestre. Per noi vuol dire tanto».
«Ma noi vogliamo aiutare».
«Sappiamo già che volete aiutare e noi, a suo tempo, ci faremo vedere. Chiudiamo il contatto».

«Ma chi era, Piero?»
«Era il loro capo», dice lui. «Il principe dei Dargos».
Questa non si era mai vista. Piero si è trasformato in una ricetrasmittente degli alieni. Un ponte radio tra i terrestri e l’astronave aliena. Senza contare che la 127, alla fine di quella nottata, viene trovata coi cavetti d’acciaio spezzati, quindi è stata sollevata. E il termometro? Temperatura massima registrata: 43 gradi. Peggio della peggiore giornata estiva. Intanto la questura chiede spiegazioni. Vogliono sapere cosa succede per filo e per segno.
Ma che spiegazioni puoi dare? Cosa possono dire quelli della Valbisagno? Che il loro dipendente è solito essere rapito dagli alieni e che nell’ultima seduta si è trasformato in una ricetrasmittente? C’è un limite a tutto!

Allora la questura sospende il porto d’armi a Piero. In via precauzionale, dicono. Basterebbe questo per farlo licenziare. Come puoi fare il metronotte senza la pistola?
Quelli della Valbisagno, però, sanno che Piero non c’entra nulla, che non è colpa sua. Sono onesti, corretti: lo trasferiscono al centro radio.
«Ora basta con le ronde, Piero. Te ne stai buono buono sotto il nostro controllo».
E intanto, un’accurata perizia psichiatrica della durata di due mesi. L’ennesima. Le conclusioni potete immaginarle.

In quell’anno, il 1980, Piero ingrassa di undici chili. I capelli neri diventano grigi. Effetto della paura, dice lui. Perché non ci sono soltanto alieni così orrendi da farti impazzire, non c’è solo la paura che ti portino via con loro, per sempre, in un altro pianeta, un’altra galassia. Non c’è solo la paura di finire immerso in un cilindro celeste, tra l’uomo rana e l’uomo delle caverne. Non c’è solo quella paura. C’è il tritacarne. L’opinione pubblica, Portobello, i giornali, la gente che ti sfotte per la strada, gli scherzi notturni. Mentecatto, mitomane, ubriacone, imbroglione; prova a tornare a casa dai tuoi figli, prova a guardare in faccia tua moglie… E poi la paura di perdere il lavoro, con una famiglia a carico, e chi lo riassume un pazzo che racconta balle sugli ufo? Fama, successo? Non ha guadagnato un soldo da questa storia, lui. Vogliamo le prove, gli dicono. Non è già questa una prova?
«Son sempre miscio». Son sempre povero.

Piero subisce qualcosa che per noi tutti, forse, è impossibile da capire. Qualcosa di tremendo nella sua irrazionalità.
Fosse stato uno qualunque, e avesse detto: «Ho visto i dischi volanti», gli avrebbero risposto: «Bevi di meno e piantala di girare per osterie». E invece è scattata una specie di tagliola. Perché Piero era una guardia giurata, in comunicazione radio, e la centrale della questura ha sentito le comunicazioni radio dei metronotte che andavano a cercarlo. E poi un cronista ha proposto di sottoporlo a ipnosi regressiva. E poi è stato interrogato sotto Pentothal. Insomma, anche senza contare tutte le testimonianze, gli avvistamenti di gente come i poliziotti, il prete e il sindaco, c’è una enorme, fondamentale differenza tra questo incontro ravvicinato e gli altri: qui il testimone era sotto controllo.
E poi la sua storia ha un’altra caratteristica tipica della storia vera: non riesce a finire. Infatti questo non è un film di fantascienza. Quindi preparatevi, perché non arriverà un finale da film.

Finora vi ho raccontato di quattro presunti rapimenti, o tentativi di rapimento. Il quarto, come vi ho detto, è stato sventato, grazie alla tempestività dei metronotte della Valbisagno. E anche il quinto lo sarà.
Quella notte Piero è al centro radio. A un certo punto, finge di dover andare in bagno. Come si faceva a scuola per non farsi interrogare. Esce dalla sede della Valbisagno, prende la macchina e finisce in uno spiazzo nel bosco, vicino a Torriglia. Il viso rivolto verso il cielo notturno. Intanto decine di metronotte sono nascosti tra gli alberi, in attesa che succeda qualcosa. Anche loro con la faccia rivolta in su. Cosa aspettano? Che succeda qualcosa. Non so, un’astronave madre sopra alla loro testa, grande come una città…
Ma non succede nulla.
Dopo mezz’ora, Piero risale in macchina e torna a Genova.

Allora alcuni dicono che questa storia degli ufo fa acqua da tutte le parti, e basta: non ne vogliono più sapere niente. Altri suppongono che quello sia stato un incontro telepatico…
Ma ce ne saranno ancora cinque, di rapimenti, dice Piero. Undici in totale. Di questi cinque non si sa niente perché nel frattempo i giornali, e di conseguenza l’opinione pubblica, si interessano d’altro. Normale, funziona così. Per conquistare la prima pagina ci vuole lo scoop. E ’sti alieni non fanno più notizia. Senza contare che quelli della Valbisagno smettono di tenere informata la stampa.
Intorno a Piero si crea una vera cortina di ferro. Ma questo non significa che la storia non sia andata avanti.

 

 

6. LA SFERA

 

Per esempio: non dovevano dargli la sfera con la piramide dentro? Cioè la prova incontrovertibile dell’esistenza degli alieni?
Chi ancora continua a interessarsi a lui, se le fa ancora questa domanda. Soprattutto perché Piero, dopo il quinto incontro, non fa che parlarne in modo ossessivo, di quella sfera. La disegna tutti i giorni, in modo maniacale, come Richard Dreyfuss con la montagna di Incontri ravvicinati del terzo tipo.
Una sfera con una piramide dentro.
Un giorno, poi, va al lavoro con le mani sporche di terra – lui, sempre così preciso, inappuntabile – e allora viene il sospetto: magari gli alieni lo hanno contattato fuori dagli orari di lavoro, gli hanno dato la sfera e lui l’ha seppellita da qualche parte… Alcuni dicono – non so: forse per rendere più lugubre la storia – che l’ha seppellita in un cimitero.

Allora, ennesima seduta ipnotica (e non sarà l’ultima: in totale saranno un centinaio, negli anni).
Quando gli viene chiesto se gli hanno dato la sfera, e quando, e cosa ne ha fatto. Lui risponde: «Tixel».
E poi: «Tixel. Negativo per questa domanda, tixel».
Negativo per questa domanda? Tixel?
«Negativo per questa domanda, tixel».
A ogni domanda che gli viene rivolta, ripete: «Negativo per questa domanda, tixel».
Cosa vuol dire tixel?
Tixel.

Ricordate il Commodore 64? Uno dei primi personal computer. 64 Kb. Preistoria. Io ce l’avevo. Lo collegavi al televisore della cucina, inserivi la cassetta nel registratore, e poi: load. E lui:«Press play on tape». In inglese. (Da bambino io leggevo: «Pres plai on tape»: parlavo la lingua dei Dargos!) E allora pigiavi play sul registratore. Per caricare un gioco, quindici minuti. Ma se sbagliavi a scrivere load, lui: «Syntax error! Syntax error!» Errori di sintassi. Syntax error! Si arrabbiava. E io gli rispondevo con le parolacce: «Bastardo!»
E lui: «Syntax error!»
«Sei un bastardo!»
«Syntax error!»
Infanzia difficile.

«A cosa serve quell’oggetto, lo sa?»
«Negativo per questa domanda, tixel».
«Zanfretta, lei sa quando dovrà rivedere questi esseri, la prossima volta?»
«Scopo personale, tixel».
«Cosa vuol dire, cosa significa: scopo personale, tixel?»
«Negativo per questa domanda, tixel».
«Si può sapere chi sono questi che la controllano?»
«Negativo per questa domanda, tixel».
«Chi sono i Dargos, ha mai sentito questo nome?»
«Negativo per questa domanda, tixel».

Negativo per questa domanda, tixel.
Negativo per questa domanda, tixel.

Ma allora ce l’ha o non ce l’ha ’sta benedetta sfera?
Bella domanda. Anzi, è LA domanda. Perché se la sfera esiste, signori, allora questa è la storia più sconvolgente dell’umanità…

Il punto è che non si riesce a capire. Ci sono delle supposizioni, delle congetture. Congetture anche su gli altri sei rapimenti riferiti da Piero, di cui nessuno sa nulla. L’ultimo, dice lui, avviene l’8 agosto 1981. Cioè due anni e mezzo dopo il primo incontro. Di certo ci sono le sedute ipnotiche. Perché a un certo punto Piero si mette a gironzolare davanti allo studio del dottor Moretti. È lì, come uno stalker, che lo aspetta. Forse loro vogliono comunicare qualcosa, dice lui. O forse no. Boh. Non lo sa. Tant’è che viene organizzata una nuova seduta ipnotica e i Dargos, o chi per loro, tornano a parlare.
Piero si trasforma di nuovo in una ricetrasmittente. Il suo volto si trasfigura. Duro, determinato. La voce è diversa.
Ora non riporto le parole di quella seduta: sarebbe troppo lunga. Ma, in sintesi, i Dargos dicono di essere intenzionati ad agire. Vogliono contattare un manipolo di persone da loro accuratamente selezionate per procedere col loro piano di avvicinamento. Tra questi c’è persino il dottor Moretti, il medico ipnotista.
«Quando vi farete vivi?» gli chiede il dottor Moretti.
A novembre di quell’anno, cioè il 1981, risponde Zanfretta, cioè loro attraverso lui.

Ma poi i Dargos tirano il bidone, non si fanno più vedere o sentire. Be’, non proprio. Cioè, non si sa. Nel senso: persone contattate, a quanto pare, nessuna. Ma avvistamenti a Torriglia, sì. E tanti. Ma sono i Dargos? O i Grigi? O i Pleiadiani? O i Rettiliani? O quelli con lo scafandro da palombaro e la luce dell’ambulanza sulla testa? Non si sa.

8 dicembre 1981. Frisoline di Nè, tra Chiavari e Torriglia.
Autotrasportatore a bordo del proprio camion viene avvolto da luce misteriosa. All’interno della cabina compaiono sette fiammelle, che emanano calore. Come fuochi fatui. L’autotrasportatore le tocca e si brucia, ed è disperato, prega i santi e la Madonna. La Madonna, ovvero una Pleiadiana, ascolta le sue preghiere: la luce scompare.

28 gennaio 1983. Montoggio, vicino a Torriglia.
È da poco passata la mezzanotte. Il signor Gardella sente abbaiare il proprio cane. Allora imbraccia un fucile e si apposta nei pressi di un albero. Ecco, dice, ci sono ladri. Il cane davanti a lui abbaia verso l’oscurità. Di colpo appare la sagoma di quello che il signor Gardella definisce: «Uno scimmione altissimo», che afferra il cane e lo scaraventa lontano. Il Gardella, allora, molla il fucile e fugge alla velocità della luce. Questo episodio come verrà archiviato con il titolo: Il King Kong di Montoggio.

Poi c’è l’ondata del 1988, sul monte Prelà. Un monte di 1406 metri, vicino a Torriglia. Gli avvistamenti avvengono nel punto denominato Quota 1000. E vanno avanti per otto mesi.
Decine e decine di testimoni, appostati coi binocoli, venuti lì, apposta, per vedere questo strano fenomeno, ancora una volta come in Incontri ravvicinati del terzo tipo.
Di giorno di notte, con la pioggia, la nebbia, a qualsiasi ora, un oggetto verde-azzurro, piuttosto grosso, come un pallone da rugby che vola nel cielo; altre volte l’oggetto appare di forma triangolare, tra il bianco e il giallo. L’avvistamento è clamoroso. Otto mesi di fila. Tanto che all’inizio si crea una vera e propria psicosi da ufo. Solo che qui la gente è sempre quella: liguri montagnini, gente dura. Gente completamente immune dalle psicosi: dopo un po’ non ci fa più caso: «Io me ne battu u’ belìn di ’sti belìn ufi».

Poi la sera di domenica 18 settembre 1988, qualcuno si presenterà dai carabinieri.
Sono due ragazzi terrorizzati. Raccontano che erano sul ciglio della strada che porta al monte Prelà. Ed erano in quattro. Erano lì per vedere il disco volante, come fanno tutti.
All’improvviso, quello è apparso nella notte. Un grande disco luminoso, che prima è atterrato sulla cima del monte, poi si è risollevato e si è diretto lentamente verso di loro. E loro sono rimasti a guardare. Pensavano che quello a un certo punto svoltasse a destra o a sinistra. Mettesse la freccia. Ma niente. Sempre più vicino, sempre più vicino. Allora sono scappati. Due in macchina e uno in moto. Via, via! Brum brum. Due in macchina e uno in moto. Aspetta: ma non erano in quattro?
«Ehi, non mi lasciate qui, non mi lasciate qui!»
(Tranquilli. Sono tornati a prenderlo).

Poi arriva l’inverno. E gli avvistamenti finiscono. Per sempre, si direbbe. O almeno fino a ora.
Se passate da Torriglia adesso, al momento niente ufo. Io vi ho avvertito. Anzi, se chiedete in giro di dischi volanti, i torrigliesi vi guardano storto.
«Ma che ufi? Nu ghè ninte qui».
Allora, invece di tornare a mani vuote, vi consiglio di prendere una bella confezione di canestrelletti di Torriglia. Come ricordo. Sono biscotti tipici. Al burro. Con lo zucchero a velo. A forma di fiore. Buoni. Cioè, i canestrelli li trovate anche al supermercato, in versione industriale. Ma quelli di Torriglia sono gli originali, tutta un’altra cosa. Buonissimi.
Da quando, poi, Torriglia è diventata la capitale degli avvistamenti ufo in Italia, li trovate anche in confezione deluxe, a tiratura limitata. Confezioni di canestrelletti con l’alieno stampato, con le antenne, fosforescente.
Capito? Di alieni non ne sanno niente, ma intanto ti vendono i biscotti. Un po’ come a Roswell, che è piena di negozi di gadget: portachiavi, accendini, cappellini, magliette con gli alieni. Cioè, stessa cosa ma in versione liguri montanini: biscotti e basta, ché quelli li puoi comprare pure non te ne frega niente degli alieni…
E, già che ci siete, vi consiglio di comprare anche una confezione di porcini. Quelli essiccati. Se andate a Torriglia non potete fare a meno di comprarli. Perché quello è un posto da funghi. Ce ne sono a tonnellate. Porcini, colombine, galletti. Ma non provate a chiedere dove potete trovarli, perché i torrigliesi vi guardano storto. E magari poi vi strangolano. Mica son scemi che vi dicono dove sono le loro fungaie. Quelli si alzano alle quattro del mattino. Cestino, stivali di gomma, bastone, e s’inoltrano per sentieri segretissimi, si guardano indietro di continuo per paura d’essere pedinati. Cancellano le tracce. Talvolta le cancellano così bene, che li trovano due giorni dopo in stato confusionale, coi vestiti stracciati, tipo zombie. Ci sono persino quelli che tentano d’addestrare il cane a cercare i funghi. Lì è una vera mania, quella del fungo. «Vai, bello, vai. Porcino, porcino!»
E il cane che fissa il padrone. Dritto negli occhi. Come per dirgli: «Ma come ti sei ridotto?»

E proprio tra questi camminatori di sentieri, ce n’è uno eccezionale, uno che li batte tutti.
Lui non è proprio un vero fungarolo. Diciamo che è un fungarolo atipico.
Pensate che parte da Genova a mezzanotte. Prima di tutti gli altri. Anche se piove a dirotto, anche se c’è un metro di neve. Dice che sente un fischio dentro al cervello. Qui, dietro la nuca. Quando sente questo fischio gli viene il desiderio irresistibile di partire.
Lo fa da trent’anni.
Ora è sulla sessantina, lui.
Percorre la Statale 45 fino all’ingresso del parco dell’Antola, sul passo della Colla. E lassù posteggia la macchina, e s’inoltra nel bosco. Senza cestino, senza stivali di gomma e bastone. E senza torcia elettrica. Dice che s’incammina lungo un sentiero che percorre il crinale del monte. Dove il buio è buio vero. Roba che se sbaglia a mettere il piede fa un volo di duecento metri. Ma lui dice di vedere perfettamente il sentiero, come se fosse illuminato a giorno.
Arriva davanti a una grotta. Entra. Lo fa da trent’anni, due volte al mese. C’è un corridoio di quindici metri che al suo passaggio si illumina. Poi una grande stanza, al centro della quale c’è una scatola di metallo lucido di sessanta centimetri. Lui la tocca e la scatola si apre. Lo fa da trent’anni, due volte al mese. All’interno c’è una sfera trasparente, dice, che contiene un piramide dorata sospesa a mezz’aria, riempita a metà di un liquido celeste. Ci sono dei segni sui lati della piramide e alla base della scatola. Una specie di tastiera. Ma non è sicuro. La piramide comincia a girare vorticosamente, in tutti i sensi, spandendo scariche elettriche. Lui, dice, appoggia la testa e scarica i dati di quello che ha visto. Lo fa da trent’anni, due volte al mese.
Lui si chiama Piero, Piero Fortunato Zanfretta.
Dopo, rimane a osservare la sfera per circa tre ore. Solo che quando ha finito ed esce dalla grotta per tornarsene a casa, l’orologio da polso segna che sono passati solo pochi minuti.
Piero non sa perché loro gliel’abbiano lasciata, quella sfera. Sa però che ce l’ha solo in custodia.

Ma non doveva darla al professore americano, il professore Hynek?
Già, ma ripeto: questa è un’altra storia. Complicata, controversa.
Comunque il professor Hynek è morto nel 1984 e ’sta scatola, dice Piero, gli è rimasta sul groppone. Ha provato anche a disfarsene. Negli anni è stato avvicinato da gente strana. Forse agenti segreti, dice. Americani, russi. Forse la CIA. Ma anche questa è un’altra storia…
Di fatto Piero si è sempre tirato indietro, non se l’è sentita di dargliela. Nemmeno per dei «borsoni di dollari», dice lui. D’altronde loro l’hanno consegnata a lui e lui ha ricevuto l’ordine tassativo di non mostrarla a nessuno. E quando loro torneranno – perché loro torneranno, ne è sicuro – ne dovrà rispondere. Per questo non gliel’ha data.
Nel frattempo ha provato a filmarla con una videocamera. Come prova. Solo che la ripresa è nera. Ha provato a fotografarla e le foto, sempre nere. A parte una: si vede il fianco di un monte. Le sagome degli alberi. E una strana colonna – dell’altezza approssimativa di cinquanta metri – punteggiata di pallini scuri. E un globo nero in cima. Che sia una colonna di energia? Di radiazioni? Non si sa. Mistero. Comunque la foto non risulta contraffatta…

Intanto gli anni passano. E Piero invecchia. E Piero è stato ospite di tante, tantissime trasmissioni televisive. Ha raccontato la sua storia centinaia di volte. Ha partecipato a documentari, anche a un film: InvaXön – Alieni in Liguria, nella parte di se stesso. Se non è questa autoironia. E cosa c’ha guadagnato? Niente. L’ha fatto gratis. Anzi, i soldi li ha devoluti in beneficienza. E poi ha partecipato a conferenze, risposto a centinaia e centinaia di domande.
«Ma lei cosa ha provato quando è stato rapito? Gioia piacere emozione?»
Risposta: «Mi sono cagato addosso. Altra domanda?»

E questa storia, come dicevo, non riesce a finire. Non riesce a finire. Non riesce a finire. Ma forse bisogna solo aspettare. Aspettare e avere pazienza.
Perché loro torneranno, dice Piero.
Ne è sicuro. Torneranno.

Prima o poi lassù, dove il buio è buio vero, una luce squarcerà la notte. E quando loro torneranno, lo ricompenseranno.
Come?
Mica coi soldi.
Quel giorno finalmente Piero ci dirà: «Ve l’avevo detto. Io ve l’avevo detto che non contavo delle musse».
E noi avremo le facce bianche, e tremeremo cogli occhi fuori dalle orbite. Ma lui no, lui ripeterà solo: «Ve l’avevo detto…»

Ecco quale sarà la sua ricompensa.
«Intanto, per adesso», dice, «pago l’affitto, c’ho i debiti, e la vita è questa. Però io so che c’è quel bivio che deve arrivare. E quando arriverà tirerò un grosso sospiro».

Solo che i Dargos gli avevano detto che sarebbero tornati nel 2008. Poi hanno cambiato idea: 2009. Poi 2012.
Finora continuano a fargli il bidone, a tirargli il pacco. Povero Piero: «E basta! Basta! Ragazzi, son trentaquattro anni che aspetto», dice. «I capelli neri sono diventati bianchi. Son vecchio, ormai. Quelli m’hanno rovinato la vita. Trentaquattro anni che aspetto. M’hanno fatto due palle così. Secondo te, uno che s’inventa delle musse lo fa per trentaquattro anni? Pensaci un po’…»
Che poi, probabilmente, quando torneranno gli diranno solo: «Che problema c’è? Trentaquattro anni, e allora? Per noi trentaquattro anni sono come una settimana per voi. Abbiamo un diverso concetto del tempo. Trentaquattro anni son come una settimana e una settimana è mica tanto. Non te l’avevamo detto?»
«Ma belìn, andate a cagare!»