Le Fuorigioco
Una dichiarazione di indipendenza

di Michele Vargiu

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Musica italiana anni Venti. Una debole luce ambrata illumina la scena che si presenta spoglia, occupata unicamente da una panchina – o una sedia, un cubo, un qualunque oggetto minimale possa fungere da seduta – sul lato destro.
Dal fondo entra il Narratore. Si muove come se fosse in attesa di qualcuno o qualcosa. Poi si dirige verso la panchina, timidamente si siede, guardandosi costantemente intorno con aria sempre più spazientita finché comincia a parlare.

~ E ci risiamo. E ci son cascata di nuovo. Ah, ma tanto io son stupida. Non c’è mica altra spiegazione, eh, son stupida! Altrimenti mica sarei tutte le volte quella che arriva per prima agli appuntamenti e si ritrova tutte le volte ad aspettar le altre! E io che sono uscita persino prima dal lavoro per essere puntuale! «Arrivederci Sciur Ugo, io oggi esco un po’ prima, altrimenti faccio tardi! Arrivederci signor Cardosi, arrivederci!» (Breve pausa) Ma allora lo vedi? No, dico, lo vedi che son stupida! C’aveva ragione la mia mammetta, c’aveva! «Te sei come la Maria Maddalena», diceva sempre. «Quella era condannata a piangere, e te, ad aspettare i porci comodi degli altri!» Ahhh, ma questa volta mi sentono, eh. Ah, sì: questa volta, quanto è vero Iddio, quelle altre mi sentono!

(Guadagna il centro della scena, mentre la panchina va in buio) Questo è quello che pensava quel giorno Losanna, commessa presso la ditta Cardosi Vini e Liquori mentre aspettava seduta su una panchina dei giardini di Porta Venezia a Milano.

Buio.
Un taglio di luce molto stretto illumina il lato sinistro dello spazio scenico, dove prosegue a raccontare.

Nel frattempo, non molto distante da lì, sul tram numero 1 regolarmente in servizio in quel mentre in via Manzoni, Maria, una ragazza dagli occhi chiari seduta sul suo seggiolino carezzava la foto di un ragazzo dal ciuffo biondo con il dorso della mano… e sospirava. (Torna al centro) Contemporaneamente, al secondo piano di una palazzina a circa un chilometro di distanza, Rosetta davanti allo specchio finiva di sistemarsi i capelli: (sul rintocco di campane) «Oh Santa Cleopatra, sono in ritardo!» e si fiondava verso le scale, le scendeva tre per volte e spalancava il portone tuffandosi contro tutto il frettoloso rumore di Milano. Una Milano neanche poi così tanto diversa da quella che conosciamo oggi; o forse un pochino sì. Tanto per cominciare, molti meno grattacieli all’orizzonte: aria più pulita, leggera. Nemmeno un rider di Just Eat, Glovo o altre diavolerie che sfrecciasse a perdita d’occhio per la strada. Ma invece – su quelle stesse strade – automobili, biciclette, motociclette e tram, che sferragliavano poco più in là, portando sopra di loro giovani ragazze che accarezzavano foto di ragazzi col ciuffo, mentre il loro mugugno di rotaie, da una strada a quell’altra, risuonava come una bestemmia pensata e non detta.

Rumori di traffico cittadino.

~ Buongiorno signorina Rosetta!
~ Oh buongiorno signor Mario!
~ Mi saluti tanto la sua mamma, sa!
~ Presenterò, grazie! … Oh, buongiorno signora Marta! Come sta il piccolo? Ha vomitato? Ohh, povero! … Tre volte?! Ah, però! Un campione olimpico! … Come?!
~ Niente, signora Marta, niente! Ora la saluto perché devo proprio scappare!
~ Nazionaliiii! L’uomo di classe fuma solo sigarette nazionaliiii! (Mimando uno scontro) Oh! Ma signorina, ma che modi! Ma cos’è, non mi ha visto?!
~ Oh mi scusi, sa! È che stamattina vado così di fretta, son così sbadata!
~ Ma và a ciapà i ratt, và!

Ad arrivare ai giardini di Porta Venezia, Rosetta ci mise ancora cinque minuti. Varcò il cancello e prese il viale di terra battuta arso dal sole, che era giallo color del grano come lo era solo in estate. La panchina dove si vedevano con Losanna, Ninì e le altre sue amiche era sempre la stessa. Mancava, come al solito, solo lei.

~ Ahhh, eccola che è arrivata la principessina! Gioia ma non l’hai vista l’ora?
~ Va’ che qua noialtre lavoriamo, possiam mica passar le giornate ad aspettar te, t’he capii!

Il parco a quell’ora pullulava di gente: qualcuno cercava sollievo sotto l’ombra degli alberi; orde di ragazzini si inseguivano da una siepe a quell’altra; mentre poco più in là i signori, giornali alla mano, commentavano le notizie del giorno, sorvegliati a distanza dalle loro mogli e dal loro chiacchierare; c’era anche qualche camicia nera, certo, che andava e veniva per i viali alberati, ma nessuno ci faceva caso. Per Rosetta e le altre, poi, ciò che c’era stato prima del fascismo altro non era che un ricordo sbiadito; e certe frasi sentite dentro casa da parte dei genitori, del tipo «da quando c’è lui», o «da quando ci sono loro», non significavano quasi niente. I pomeriggi, in quell’estate del 1932 andavano avanti così, su quella panchina appena ombreggiata che accoglieva tutte loro come se fosse il ponte di una nave da crociera, mentre sulla terraferma tutto procedeva lento e sempre uguale. (Si dirige verso la panchina) Ma all’improvviso, qualcosa arrivò a rompere la monotonia di quel pomeriggio calmo e assolato; qualcosa che avrebbe spezzato da lì in avanti lo scorrere ordinario delle cose. Un qualcosa di imprevisto, di inaspettato, di fuori programma: come una stella cadente che scappa ribelle dallo schema ordinato del cielo. E sulle prime, nessuna delle ragazze se ne accorse, quando all’improvviso una palla, velocissima passò a pochi centimetri dalla loro panchina, per andare a conficcarsi in un cespuglio poco più avanti.

~ Occhioooo!

(Una piccola pausa) La panchina per un momento si immobilizzò. Tutte le occupanti si esibirono istantaneamente in uno sguardo assassino rivolto verso i ragazzini che stavano giocando a calcio; negli occhi di ognuna di loro il desiderio proibito di poter prenderli a calci, tutte insieme, nello stesso momento, in un capolavoro di coordinazione e solidarietà femminile. I ragazzini, immobili. Le ragazze sulla panchina, immobili. La palla… in disparte, che se solo avesse potuto prendere parola avrebbe detto: «Ambasciator non porta pena!». (Si alza e va verso il lato sinistro) Rosetta Boccalini si alza dalla panchina. E senza distogliere mai lo sguardo dai quei ragazzini, esattamente come farebbero due gruppi di soldati che si studiano da una trincea a quell’altra, raccoglie la palla, poi col tacco della scarpa marchia il terreno con un solco, fa roteare la palla fra le mani, la posiziona su quella lunetta improvvisata appena ricavata dal terreno, prende una breve rincorsa, si tira appena su la gonna e… (Simula un calcio di rinvio. Lo sguardo segue la traiettoria del pallone a lungo) E per un attimo tutti osservano la parabola perfetta di quel tiro che pare fermare il tempo, fino a quando la palla non torna, con un disegno geometricamente perfetto, dai loro proprietari.

~ Grazie, signorina!
~ Rosetta… Ma dove hai imparato a giocare a calcio?!
~ Per carità, eh! Il calcio proprio no! Al parco pubblico, poi! Ma siam matte?! Non sta bene!
~ Ma ragazze, che dite! Io non so mica giocare!
~ (Con accento toscano) Oh beh, Ciccia, non si direbbe mica, eh. Io, l’estate scorsa, in villeggiatura, ci giocavo spesso insieme a delle altre amiche, giù in Toscana! È divertente!
~ Ninì, per piacere!
~ Ovvia! Guardate, signorine belle, che il calcio vi garberebbe a tutte! Garantito! E poi, cosa sono tutte ’ste paure? Cos’è, solo perché ci giocano l’omini noi non possiamo?

Tipetta carismatica, Ninì Zanetti. Una giovane donna d’azione con uno sguardo capace di fulminarti; una che se la beccavi in una giornata storta sarebbe stata capace di fare una lavata di capo anche al Duce. Una donna che poche settimane prima di quel giorno, con ancora fresche nella memoria le partitelle di calcio fatte in vacanza riuscì a far pubblicare una lettera a una nota rivista dell’epoca, “La Domenica Sportiva”. Lettera nella quale si parlava anche e soprattutto di calcio femminile, e che diceva…

Una musica accompagna la voce registrata di Ninì Zanetti, caratterizzata da un accento toscano.

~ «Ma perché in Italia non deve esistere una squadra femminile di calcio? E Milano, che ha il vanto di avere due squadre come il Milan e l’Ambrosiana perché non pensa di formare due squadre, magari fra le tifose delle due rivali? Non sarebbe interessante vedere che anche in questo genere di sport, la donna italiana può competere e forse superare le straniere?»

Lettera pubblicata e grandi risate suscitate da parte di tutta l’opinione pubblica, che del calcio aveva, sì!, un’alta opinione… ma come gioco maschile. Per il calcio, all’epoca, tutti erano letteralmente impazziti: non solo fra il popolo, ma anche nelle più alte sfere del governo. Il football, prontamente ribattezzato “calcio” come a volerne rivendicare una autentica e virile origine italica e fascista, era diventato lo sport più amato e più popolare. Mussolini inoltre aveva capito già da parecchio tempo che lo sport era uno strumento formidabile per controllare il popolo e attraverso il quale diffondere i propri valori di identità nazionale. E il Duce, al solo pensiero di poter accarezzare la capra con una mano e annaffiare il cavolo con l’altra, era andato in brodo di giuggiole. Il regime comincia a costruire impianti sportivi con una rapidità impressionante, stadi di calcio in primis. Nascono il Moretti di Udine, il Berta di Firenze, il bellissimo nuovo stadio di Bologna: un capolavoro armonioso di architettura che sintetizzava tutta la grandezza del genio nostrano. Quando poi la FIFA poco tempo dopo annuncerà che proprio l’Italia avrebbe ospitato i Campionati Mondiali di Calcio del 1934, altri due stadi si aggiunsero all’appello: il Littorio di Trieste e lo stadio Mussolini di Torino, che sarebbe presto diventato casa della Juventus campione d’Italia. In quegli stessi anni, poi, si diffondeva anche la figura del calciatore in un modo totalmente diverso da quello che si era visto fino ad allora. Da semplice appassionato, spesso con un altro lavoro in tasca e che giocava a pallone per diletto, il calciatore ora veniva visto come un vero e proprio professionista: ambito dai club, idolatrato dai tifosi e sognato da ogni mamma come marito ideale per le proprie figlie. Nomi nuovi si affacciavano sulle pagine dei giornali, popolavano i pomeriggi dei bambini che giocavano a impersonarne le gesta e l’immaginario dei tifosi. Nomi di campioni come Piola, Mazzoni, Schiavio e poi lui, il più grande di tutti, capocannoniere dell’Ambrosiana Inter: Giuseppe Meazza, il prototipo perfetto del campione dell’epoca, il modello del maschio virile italiano, spalle definite come quelle di una statua greca, polpacci di marmo, capelli impomatati perfetti e sguardo da seduttore di quelli che non se ne lasciano mai scappare una. I calciatori si stavano preparando a diventare i protagonisti di una nuova epica mai vista prima: eroi assoluti di una nuova società che ogni domenica, all’interno di quegli stadi gremiti fino all’ultimo posto, assumevano agli occhi del popolo sembianze divine. Uomini che quando non erano impegnati a far esplodere le arene con le loro gesta si godevano la vita, frequentando posti esclusivi, guidando macchine veloci e popolando le pagine delle riviste dell’epoca. (Torna a sedersi sulla panchina. Estrae un giornale dell’epoca e lo apre)

Una musica accompagna una voce in stile cinegiornale, che riporta una notizia pubblicata sul quotidiano “Il Littoriale” nel 1932.

~ «Dicono che i giocatori della Roma e della Juventus siano quelli meglio trattati dalle società. E si capisce che, quando ci sono i soldi, tu vedi per via questi ragazzi bene eleganti e disinvolti. Quando un giocatore si mette a corteggiare una ragazza, la madre di costei fa alla figliola: “Sciocca, di’ di sì: non vedi che è un giocatore della Roma?”. E quella dice di sì.»

La settimana dopo le ragazze si rividero ancora: stesso parco, stessa panchina, stesso caldo di quell’estate che sembrava non avere nessuna voglia di voler finire.

~ Ma la Ninì che fine ha fatto?!
~ Ah, non so! È dalla settimana scorsa che non si vede!
~ Starà mica male?
~ Ma figùres! Si sarà dimenticata…
~ Ma no, guardatela! È laggiù!

(Si rialza e torna a centro scena) E Ninì, non appena incrociò lo sguardo delle altre cominciò a correre come una pazza, stringendo alle braccia un sacco di stoffa scura, la gonna che strascicando per terra sollevava nuvole di polvere.

~ Ragazze! Ragazze! Indovinate cosa vi ho portato?

E rovesciando il sacco che teneva stretto al petto, Ninì portò con sé la risposta a quella sua domanda.

~ … Un pallone?
~ È quasi nuovo. È tutto nostro.

Le ragazze fecero cerchio intorno al pallone: come se nessun altro eccetto loro in quel momento dovesse vederlo. Come se fosse un segreto da custodire, un qualcosa da non far sapere. Si guardarono: stavano sorridendo tutte, con addosso quella strana eccitazione che si ha quando si sta per toccare con mano l’incoscienza.

~ (Sussurrando) Ninììì!
~ Che c’è!
~ No, ma dico, ti sei impazzita? Ti ha dato alla testa il caldo? Rimetti subito a posto quel coso prima che qualcuno ci veda!
~ Eh la miseria Giovanna! Va’ che il pallone è mio, non l’ho mica rubato, eh.
~ Ninì…
~ … Eh!
~ Ma davvero è tutto nostro?
~ Ma sì. Per iniziare va più che bene. Mica vorremmo continuare a passare i pomeriggi a far niente, no?! Gli spazi dove imparare non mancano; per cominciare, per la squadra, dico, andranno benissimo. Che ne dite, vogliamo almeno provarci?

(Interpreta le decisioni di ogni ragazza: gli sguardi tra di loro e le mani di ognuna che, in segno di partecipata accettazione, si sovrappongono le une sulle altre) E in quell’abbraccio di mani tutte, in quell’istante, sentirono l’una il battere agitato del cuore dell’altra. Quella fu la prima volta in cui a tutte, nello stesso identico momento, tremarono le gambe. Quella, fu la prima volta in cui si chiamarono squadra. All’interno della rosa, fra le altre, c’erano:
Losanna Strigaro, ventiduenne, professione commessa;
e poi la pioniera, quella che accese la miccia che diede l’inizio a tutto, Ninì Zanetti;
poi Maria Lucchese;
Brunilde Amodeo;
poi Rosetta Boccalini, classe 1916, “la giovane maestrina”;
insieme a lei le sue sorelle Gina, classe 1906;
e Marta, classe 1911;
eletta come commissario tecnico straordinario, infine, la loro sorella maggiore Giovanna, classe 1901, che aveva scelto in piena coscienza di stare fuori dal campo, nonostante i ripetuti inviti di tutte le altre.

~ Ma dai, Giovanna, ma vieni, no? Ci servi, almeno per far numero!
~ No no no no no, per carità di Dio! Se vi servono numeri, al Banco Lotto di numeri son pieni! Io sono una donna sposata, va bene?! Spo-sa-ta! Ma ci pensate a quello che direbbe la gente?!
~ Ma Giovanna, cerca di essere un pochino più moderna, più… progressista! Che ti importa se la gente pensa male?
~ Senti carina… lo sai cosa diceva la mia nonna? La mia nonna diceva: «A pensa’ mal se fa mal, ma se sbaglia mai!».

Fu così, con questo assortimento umano che verso la fine dell’estate del 1932, anno decimo dell’era fascista, mentre l’Italia si cullava, placida e sorniona in quelli che più tardi sarebbero stati definiti come «gli anni del consenso», che nel nostro Paese per la prima volta un gruppo di ragazze, in modo totalmente auto-organizzato, cominciò a giocare con i fili dell’imprevedibile; a far tremare, sussultare e poi crollare all’improvviso il castello di regole e preconcetti dietro il quale si trinceravano i difensori della società dell’epoca. Per la prima volta un gruppo di ragazze, studentesse, operaie, sarte, insegnanti, modiste, cominciò a spingere il punto di vista del senso comune verso un nuovo orizzonte. Tutt’altro che comodo. Tutt’altro che rassicurante. Per la prima volta, un gruppo di ragazze, studentesse, operaie, sarte, insegnanti, modiste, cominciò a giocare a calcio.

In un taglio di luce molto stretto.

La prima cosa, è il gracchiare delle suole delle scarpe sulla terra battuta. La seconda, la polvere che ti impasta le labbra e ti secca la voce. La terza, la maglia che come un cilicio pizzica la pelle. La quarta, il camminare che diventa corsa, poi salto, poi passo che ancora si arrende alla corsa. La quinta, il sudore che riga il volto e la schiena, mentre la faccia è tirata come in una bestemmia muta. E poi quelle gonne, a rendere tutto più difficile, e quelle maglie che dovevano avere per forza le maniche lunghe fino ai polsi, e quelle urla che non potevano mai essere vere e proprie urla, perché avrebbero attirato l’attenzione di tutti. Perché quelle giocatrici che correvano sotto il sole dei giardini altro non erano che donne, e per lo sport femminile a quei tempi la parola d’ordine era una soltanto: moderazione.

~ Ma che state facendo! Non potete agitarvi in questo modo! Siamo signore!

Così strillò un giorno una signora vedendole giocare, mentre spingeva una elegante carrozzina di pizzi e nastri di seta. Le ragazze si guardarono per un attimo fra loro: avrebbero potuto raccontare in giro di essere appena uscite da qualche miniera, o da un altoforno, e chiunque ci avrebbe creduto. Erano sudate dalla testa ai piedi, avevano i capelli scompigliati, le scarpe infangate, la polvere che aveva preso possesso delle loro gonne mangiandone il colore originale. Losanna si era sbucciata un ginocchio e sanguinava. Rosetta dopo una scivolata aveva una strisciata verdognola che le prendeva tutta la gamba. Ma nonostante i rimproveri di qualche benpensante, nonostante l’aspetto indecente, nonostante ognuna di loro sapesse benissimo di essere da buttar via al termine di ogni allenamento, a nessuna importava di nient’altro che non fosse il giocare insieme.

~ Luisa! Passa! Dai! Passa!

Più si giocava, più cresceva la voglia di giocare. Tutto quello che accadeva su quei campi improvvisati aveva qualcosa di magico. Il “toc” che faceva il pallone ogni volta che il collo del piede per un fugace secondo faceva l’amore con lui; lo scattare collettivo di tutte dietro ad ogni suo cambio di direzione; il chiamarsi e cercarsi sul campo alla fine di ogni azione per ricomporsi e ripartire, come marinai che raccolgono i propri resti dopo un naufragio; l’eccitazione dell’ignoto nei momenti che precedevano ogni calcio di punizione.

~ (Afferrando una palla) Boia che bordata! Oh ragazze, non vi starete mica allenando un po’ troppo? Ancora un pochino e ci resto secco, ci resto!

«Ragazze, lui forse lo conoscete già: è Piero, il figlio del padrone», disse Losanna. E in effetti Piero, più o meno lo conoscevano già tutte. Ma una, che ora faceva finta di niente, lo conosceva più di tutte le altre, al punto da tenerne la foto sempre con sé. S’erano conosciuti qualche settimana prima, mentre lei correva dietro al tram che stava per partire e lui usciva dal negozio di liquori di famiglia con una grossa cassa di vini in mano. (Mima, in slow motion, uno scontro con conseguente caduta) E fu in un attimo che il marciapiede dove adesso tutti e due stavano sdraiati si colorò di rosso, e i cocci di vetro risuonarono come campane alla domenica.

~ Ohi, ohi! Guarda qui che disastro! S’è fatta male, signorina?

E nel mentre che Piero si alzava e porgeva la sua mano a Maria, in quell’attimo preciso il suo sguardo si posò su di lei: e si guardarono per la prima volta con l’innocenza con cui si guarda per la prima volta solo ciò che non si conosce. E Piero in un istante, complici forse i vapori del vino che si mischiavano all’aria, dentro gli occhi di Maria si sentì come affogare. Come se ad un certo punto il suo corpo si trovasse sospeso, incapace di galleggiare in superficie, di sfiorare con i piedi il fondo. Senza più respiro, in apnea, con il viso imbarazzato di Maria a rappresentare l’unico punto di luce, l’unica salvezza in quel momento possibile. Da quel momento in avanti, Piero e Maria si sarebbero visti quasi tutti i giorni, lui nelle ore libere dal lavoro, lei in quelle libere dal controllo di suo padre.

~ Che poi qualcuno dovrà dirmi, oh, come v’è venuto in mente di giocare a calcio: siete donne!
~ Oh, e chissà come ci sarà venuto in mente! Senti un po’ carino, ma visto che te sei così bravo, perché non ci insegni?

E fu così che nell’autunno del 1932, le ragazze cominciarono ad avere un allenatore. Piero prese le cose molto seriamente e stilò un programma molto preciso: corsa, flessioni, piegamenti, addominali. Poi esercizi sul controllo di palla: passaggi, cross, stop, palleggi e poi, per concludere, una bella partita. I primi match di allenamento furono un disastro.

~ Ferme! Ferme, Dio bono! Non andate tutte dietro al pallone! Ninì passa la palla!… Alle tue compagne! Non a me! Io son l’allenatore! Elena non avere fretta. Gioca con calma e ragiona! Vai Losanna, vai, vai, vai, stop e controllo, vai, vai ancora, vai, ci sei quasi, tira Losanna, ma no di punta che sennò il pallone va dove gli pare, vai, vai Losanna, no di punta, no di punt…

Rumore di vetri che si infrangono.

~ Ohi ohi! E te l’ho detto cento volte che il tiro di punta non si fa! Che la palla se la prendi di punta va dove gli pare! È il terzo vetro in un mese che mi rompete! Ma vi rendete conto che se si continua così da qui alla fine dell’anno si sterminano tutte le finestre della città? Ma che volete fare, un finestricidio?!
~ Scusa Piero! È che forse dovremmo cominciare ad allenarci in un campo vero!
~ Altro che campo vero, se si continua così a me mi scoppia il cuore, mi scoppia; al camposanto, mi dovranno portare!

Suono di un fischietto. Un brevissimo attimo di buio, finché il centro scena torna a illuminarsi gradualmente.

A parte gli errori, l’inesperienza e tutta l’ingenuità messa in campo, però, la squadra cominciava a prendere forma. Venivano definiti i ruoli, cominciavano a risaltare i singoli talenti di ognuna, e cresceva anche la voglia di fare sempre di più e sempre meglio. E a ben pensarci, l’idea della Strigaro di cominciare ad allenarsi non più in parchi e giardini, ma in veri e propri campi di calcio, non era affatto una cattiva idea. Avrebbero potuto allenarsi in pace senza il rischio di fare danni, si sarebbero potute cambiare in un vero spogliatoio e soprattutto non avrebbero più avuto nessuno sguardo indiscreto e pettegolo che le sbirciava mentre giocavano e si allenavano.

~ Ragazze! Riunione!… Pensavo che dovremmo iniziare a ragionare proprio come una vera squadra: un campo dove allenarci alla domenica, Piero nostro allenatore ufficiale e magari, perché no, suo padre, il signor Cardosi, presidente. Un minimo di organizzazione ci vuole, no? Avrei anche già pensato a un nome: Gruppo Femminile Calcistico Milanese. Che ne dite?

Se in quel momento Dio o chi per lui avesse potuto amplificare il battito del cuore di ognuna di loro e diffonderlo per il mondo, l’effetto sarebbe stato quello di una valanga. Di un terremoto, dello scalpitare di cavalli impazziti o di un esercito in corsa; se la felicità, concetto astratto fino ad allora, avesse potuto definirsi con un suono, beh, il suo unico suono sarebbe stato quello. Una squadra. Una vera squadra. Con un nome, un campo in cui giocare, delle persone al suo interno. Una squadra femminile di calcio. La prima, e con un po’ di fortuna da lì in avanti, di certo non l’unica. Un’idea così bella che quasi non si riusciva a dire. Ben presto tutto fu pronto: l’organigramma della squadra, ruoli dirigenziali compresi, era fatto. Persino il papà di Piero, il signor Ugo Cardosi, accettò l’incarico di presidente con una felicità mai vista: non c’era persona che entrasse nel suo negozio a cui non parlasse della squadra, degli allenamenti, dei progressi di quel gruppo di ragazze. E ai più scettici, o ai sarcastici che al solo sentire l’accoppiata “calcio” e “donne” scoppiavano a ridere, rispondeva battendo i pugni sul bancone.

~ Le dovreste vedere le mie ragazze, oh come sono brave! Le dovreste proprio vedere giocare, prima di sputare sentenze!

Nel frattempo, l’inverno arrivò a stringere Milano in una morsa di gelo e pioggia. Allenarsi non era sempre facile, anche se a volte il clima stesso concedeva delle giornate fredde ma limpidissime: certe domeniche al campo, con il cielo terso, l’aria tagliente e il rimbalzare del pallone come unico suono percepibile in tutto il quartiere, erano dei veri e propri regali; Maria, Silvia, Losanna, Marcella, Rosetta, Wanda, Ester e le altre si cambiavano in uno spogliatoio che prima di allora aveva visto al suo interno solo uomini. Poi, una volta pronte, correvano: l’aria che fuoriusciva calda dai loro polmoni e si scontrava con quella fredda dell’esterno, formando nuvole appena più bianche delle linee di gesso che rigavano il campo. Tutti i mercoledì sera, poi, le ragazze si incontravano a porte chiuse per le riunioni del direttorio, dove si faceva il punto e si discuteva di tutti i modi possibili per far crescere la squadra.

Un taglio di luce stretto e freddo illumina la panchina, a cui si avvicina.

~ Ragazze, io lo dico: non abbiamo ancora delle divise e tutto questo non è accettabile!
~ Ma se ancora non facciamo una squadra intera! Ogni volta dobbiamo dividerci per poter giocare le une contro le altre!
~ Dovremmo invitare tutte le nostre amiche a venire ad allenarsi con noi!
~ Sì, come se non lo avessimo fatto!
~ Non vuole venire nessuna. Alcune hanno paura dei mariti. Altre delle pallonate. Altre ancora delle suocere!
~ Ragazze, ferme tutte. Io un’idea ce l’avrei: scriviamo una lettera ai giornali!
~ Ai giornali?!
~ Ai giornali, sì! O quantomeno ai giornali sportivi! Ci serve visibilità, no? E allora prendiamocela, maledizione! Diciamo chiaramente chi siamo, cosa facciamo. Urliamolo al mondo, che esistiamo! Vogliamo crescere o no? Basterebbero solo qualche decina di ragazze per poter formare almeno tre squadre, organizzare un torneo, e poi un campionato, e così via! Per smettere di giocare solo fra di noi! Per far capire a tutte le altre, e anche ai gentili signori che tanto storcono il naso, che le donne che giocano a calcio ci sono e magari, se Dio vuole, son pure tante!
~ Ci daranno delle pazze.
~ E che si accomodino pure! Com’è che dice il capoccione, lì? «Me ne frego», dice! E se per una volta, una sola volta, provassimo a fregarcene anche noi?

E con queste parole Losanna Strigaro, di anni ventidue, era riuscita ad ammaliare, motivare e convincere tutte le sue compagne di squadra su quanto quello che in modo totalmente incosciente e casuale era nato solo pochi mesi prima, stesse diventando una questione molto più importante di quanto ognuna di loro potesse avere mai immaginato. Un minuto dopo, tutte le ragazze erano attorno a una scrivania dove pochi fogli candidi, ben presto, si sarebbero fatti portavoce del pensiero di tutte.

Una luce a pioggia illumina un piccolo spazio vuoto al centro. Buio tutto intorno. Rumore di tasti di macchina da scrivere. Varie voci femminili si sovrappongono.

~ «Milano, febbraio 1933.
Caro “Guerino”,
Il gioco del calcio che appassiona così tanto le folle sportive non è coltivato, sia pure come esercizio ginnastico, dall’elemento femminile.
In Francia, in Inghilterra, ci sono clubs femminili bene organizzati e si svolge annualmente il campionato femminile. Perché non tentare anche fra noi qualche cosa?
Le giovani donne italiane già praticano gli sport dell’atletica leggera, pallacanestro, il nuoto, il pattinaggio, lo sci, la scherma, il tennis, etc., bene affermandosi. E perché allora non praticare il calcio?
Un gruppo di tifosine hanno preso l’iniziativa di costituire un gruppo di calciatrici. Tutto sarà proporzionato al sesso, il quale da questo sport dovrà trarre un vantaggio fisico.
Nel concetto delle fondatrici, senza darsi delle arie, s’intende di praticare lo sport del calcio come esercizio fisico.
Le adesioni gratuite si ricevono per scritto segnando nome, cognome, età, presso la signorina Losanna Strigaro, Ditta Cardosi, via Stoppani 12 - telefono 20-272, Milano.
Grazie e saluti.»

La luce torna a illuminare gradualmente la scena.

Le settimane successive trascorsero senza nessuna novità: le ragazze sfogliavano il “Guerin Sportivo” tutti i giorni, a colazione, nella speranza di poter vedere la loro lettera che puntualmente non compariva mai. In compenso, però, apparivano ben altri tipi di notizie: come quelle che, ad esempio, vedevano Adolf Hitler come nuovo cancelliere in Germania. Con il tempo anche la speranza che la lettera potesse venire pubblicata cominciava a spegnersi. Ma qualche giorno dopo, la mattina del 15 Febbraio, da una copia spiegazzata del “Guerin Sportivo” giunse la notizia. Stettero tutte lì, a fissare quella pagina per minuti interi, leggendo e rileggendo, guardandosi negli occhi ripetendosi che era vero. Era incredibile. Ma era successo davvero. I risultati non tardarono a vedersi: ogni giorno ragazze di ogni età si recavano al negozio del presidente Cardosi per chiedere di poter aderire alla squadra. Il 19 Febbraio le ragazze scrissero una nuova lettera al “Guerin Sportivo” che titolò: «Le giovani calciatrici milanesi fanno sul serio!». E proprio questo c’era scritto nella lettera.

~ «Noi facciamo sul serio. Abbiamo delle adesioni infuocate d’entusiasmo. Ci sono con noi maestre, sarte, impiegate, modiste, studentesse e tutte sono impazienti di cimentarsi. Gli uomini ci discutono con meraviglia e curiosità, ma non c’è niente da meravigliarsi perché ormai lo sport ha conquistato anche la donna.»

Questo, era quello che dicevano e promuovevano le ragazze. Peccato che però gran parte della stampa e dell’opinione pubblica dell’epoca non la pensasse esattamente così. Ad ogni allenamento, dispersi sugli spalti, accorrevano ogni settimana giornalisti, imbacuccati nei loro cappotti, l’immancabile cappello in testa, la sigaretta in bocca e la faccia di chi sa già che si divertirà un mondo. E nei loro articoli, puntualmente, c’era quasi la volontà di voler ripristinare una moralità, un senso d’ordine e di decenza che poche decine di ragazze stavano secondo loro mettendo a repentaglio. Il giornale “Il Regime Fascista”, a pagina 6, scriveva:

~ (audio da cinegiornale) «Quando sentiamo che la donna vuol dedicarsi al calcio non solo come spettatrice e tifosa ma bensì come giuocatrice, allora ci si rizzano i capelli. Purtroppo dovremo assistere a questo spettacolo. Speriamo cali la tela dopo il primo atto e che di calciatrici in gonnella non si parli più».

Un’altra rivista, “Lo schermo sportivo”, in quegli stessi giorni andava addirittura oltre, mettendo sul tavolo un’analisi accurata, quasi scientifica:

~ (come sopra) «Il calcio femminile è l’antisport! Tutte quelle pallonate possono infatti compromettere per sempre la funzione della maternità per la quale le donne sono venute al mondo. E nel “periodo lunare”, cosa potrebbe succedere? Mettiamo subito fine a questa buffonata, giacché l’Italia ha bisogno di buone madri, e non di Virago Calciatrici!».

E l’idea che il calcio potesse essere uno sport dannoso per le donne era diffusissima. Alcuni avevano paura degli stop di petto che avrebbero potuto rovinare il seno; altri delle pallonate sulla pancia che avrebbero potuto rovinare per sempre la sacra funzione riproduttiva della donna; per altri invece era una questione più estetica: il calcio era uno sport per ragazzoni con le spalle larghe, alla Giuseppe Meazza. Una cosa per tipi che corrono, si infangano e sputano per terra. Che cosa ci avrebbero guadagnato delle ragazzette ad andar dietro a un pallone? Avrebbero solo sviluppato gambe grosse e antiestetiche, perso ogni brandello di femminilità e chissà che altro. E i valori, dove sarebbero finiti? I ruoli precostituiti e inossidabili, l’ordine vanto della civiltà fascista che fine avrebbe fatto, se adesso anche le donne potevano sostituirsi ai maschi e fare quello che volevano? E vaglielo a spiegare, tu, calciatrice, che di tutte quelle teorie che ti vengono sbattute in faccia non c’è niente di vero. Vaglielo a raccontare, che in quell’ora di allenamento, quando dallo spogliatoio entri in campo per sessanta lunghissimi minuti smetti di pensare a tutto il resto; vaglielo a dire, che in ogni nuvola di vapore che ti esce dalla bocca c’è una maledizione ben vestita contro tutti quelli che ti vorrebbero chiusa in casa a far faccende. Vaglielo a spiegare che le tue compagne sono le tue lettere dell’alfabeto per comunicare qualcosa di più grande, che ogni impronta che lasci sul campo è un tuo affresco sul muro dell’esistenza; che ogni palla che calci rappresenta tutti i no che non hai potuto pronunciare. Vaglielo a raccontare, come avviene uno stop di petto: con la palla che tradendo le aspettative di Nostra Signora della Gravità sta lì e, girando su se stessa come un pianeta intorno al proprio asse, vira prima sulla spalla sinistra e poi su quella destra, con il corpo che – per non perderla – la culla assecondandone il capriccio; vaglielo a spiegare, che quella è danza classica. È movimento che viene dal Divino, cadenzato, ritmato; come quello delle maree, che vanno e vengono, sei ore calano, sei ore crescono. E nei momenti in cui la palla è in aria, tutto il corpo diventa suo suddito, marionetta aggraziata al servizio di quel composto di cuoio e aria che tutto decide. E poco importa se al posto del tutù indossiamo delle gonnacce sporche di fango; poco importa se al posto di scarpette a punta abbiamo scarponi di pelle e caviglie gonfie: noi, su quel fazzoletto di terra battuta, con le ginocchia sbucciate e le labbra impastate di polvere e sabbia, ‘quantoèveroiddio’, noi, danziamo.

Pochi secondi di buio.
Luce.

Parole al vento. Tempo sprecato. Ma di fronte a ogni risata sarcastica, a ogni presa in giro, a ogni rifiuto, le ragazze rispondevano andando avanti cercando di coinvolgere nella loro lotta chiunque avrebbe potuto spendersi per la loro causa. Scrissero lettere ai giornali, contattarono privatamente i campioni più importanti del campionato chiedendo loro cosa ne pensassero della iniziativa, se fosse lecito o no che una donna giocasse a calcio, riducendo gli sforzi e disputando partite più brevi di quelle degli uomini: tutti i professionisti del calcio italiano si schierarono dalla loro parte. Ma tutta la benevolenza del mondo del calcio, per quanto gradita, non bastava: serviva una autorizzazione ufficiale. Qualcosa di inattaccabile. Ecco che allora le ragazze vennero costrette a fare, tutte insieme, una visita ginecologica che attestasse l’idoneità del corpo femminile al gioco del calcio. Visita da farsi non da un ginecologo comune, ma nientemeno che dal dottor Nicola Pende.

~ Nicola Pende? Oh chi è?
~ Ah, non lo so mica, Piero. Sarà il ginecologo del Duce!

A quell’epoca, il dottor Pende era considerato un luminare: l’unico che potesse avere voce in capitolo su una questione simile. Direttore dell’Istituto di Biotipologia di Genova, da tempo visitava ragazzi, uomini e donne di ogni età con l’obiettivo di studiare e migliorare la ‘razza italiana’.

~ Ragazze… secondo me, con un tipo così, non abbiamo mica tante speranze!

Scrissero poi l’ennesima lettera al Comitato Sportivo Provinciale, che non volendo assumersi la responsabilità di rispondere sì o no inoltrò la richiesta direttamente al CONI, il Comitato Olimpico Nazionale. Il presidente del CONI era Leonardo Arpinati, un fascista della prima ora, già deputato del Regno d’Italia ed ex presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio. Arpinati che quando vide sulla sua scrivania quella lettera, in cui un gruppo di ragazze per la prima volta nella storia chiedeva formalmente il permesso di poter giocare a calcio, con il solo scopo di «irrobustire il corpo e ingentilire l’animo», dimostrò, forse, di essere un fascista “un po’ meno fascista degli altri”.

~ Ragazze! Ci hanno risposto!

E il contenuto della risposta fu incredibile. Inaspettato. Sorprendente. Come una stella cadente che scappa ribelle dallo schema ordinato del cielo. (Estrae una lettera e ne legge il contenuto)

~ «Sua eccellenza Arpinati, pur riconoscendo che in Italia tale giuoco femminile non è disciplinato da alcuna federazione e la sua diffusione non è opportuna, ha concesso l’autorizzazione alla Società Milanese a praticare il giuoco del calcio. Ogni attività deve però svolgersi in privato, e senza l’ammissione di pubblico. Il CONI ha concesso tutto ciò in via di esperimento e qualora sorgano in Italia molte società di calciatrici, si vedrà l’opportunità di regolamentarlo e di disciplinarlo attraverso una federazione.»

Quella risposta non fece nient’altro che anticipare la bellezza della primavera che era in arrivo; primavera che avrebbe visto le ragazze giocare con una libertà e una felicità mai provata prima. In quelle stesse settimane arrivò anche il responso del professor Nicola Pende, che disse: «Dal lato medico nessun danno può avvenire né alla linea del corpo né agli organi addominali e sessuali femminili: giuoco del calcio dunque sì, ma per puro diletto e con moderazione!». E le ragazze, forti di queste conferme, cominciarono a giocare tutte le domeniche: la società si era popolata al punto tale da poter formare due squadre. Adesso erano sempre di più le persone che affollavano i bordi dei campi e che guardavano a quello strano «esperimento» non più come a una cosa da condannare, ma come un fenomeno da osservare con attenzione. Anche alcuni giornali cominciavano a dare punti di vista differenti dai soliti, raccontando di come in fondo, quelle ragazze che prendevano a calci il pallone tutte le domeniche, in vari campi in giro per Milano, tutto sommato non fossero affatto meno femminili delle altre; e che il calcio, poteva essere davvero lo sport popolare per eccellenza, in grado di essere praticato da chiunque. Ogni partita aveva due tempi da 20 minuti. Si giocava con una palla leggermente più piccola; l’obbligo era quello del «gioco rasoterra», ma raramente veniva rispettato. Una domenica di primavera, sotto i primi tiepidi raggi di sole di quel 1933, circa mille persone erano ammassate ai bordi del campo per vedere con i loro occhi quello strano miracolo di cui tanto si parlava: vedere entrare le ragazze in campo, con le gonne lunghe al ginocchio, le scarpette e la maglietta bianconera per una squadra e granata per l’altra, era un’emozione destabilizzante. Dopo il tanto parlare, dopo il tanto ridere che si era fatto dietro a quelle ragazze, ora, magicamente, non rideva quasi più nessuno. Gli uomini anzi, schermati dai loro baveri e dai loro cappelli, quasi si emozionavano; e in mezzo a quegli spalti, dentro quella folla, tutti avevano la percezione che si stesse muovendo qualcosa di grande. Anzi, di più: qualcosa di politico. Le donne presenti, che all’inizio avevano quasi maledetto quelle ragazze che stavano davanti a loro in campo, cominciarono a sentire chiaramente che il pallone era un pretesto. Cominciarono a capire che in campo c’erano tutte loro, maledizione. Tutte. Nessuna esclusa.

Musica.

Calcio d’inizio. Nell’aria, per qualche secondo, solo il rumore sordo del cuoio delle scarpette contro quello del pallone. Poi la prima azione, in avanti oltre la linea di centrocampo, e l’aria intorno allo stadio che di colpo esplode, rotta dalle voci della folla che si fanno boato. Il campo sembrava non finire mai. La porta avversaria pareva essere una specie di miraggio, che più strada si macinava sotto i piedi e più si allontanava, invece di avvicinarsi; e man mano che Elena, Losanna, Maria e tutte le altre sentivano il ritmo del loro cuore correre, il loro sangue pulsare, il loro respiro crescere spingendo il loro petto contro la maglia, man mano che correvano sempre più velocemente, in un preciso momento ebbero la concreta sensazione che la loro anima felice, per un attimo, si staccasse dal loro corpo: e mentre quest’ultimo correva, tagliando la metà campo come una locomotiva a tutto vapore verso la porta, il loro animo si alzava libero, per la prima volta, e cominciava a vedere tutto il resto della loro vita dal di fuori; e tutto appariva improvvisamente così insignificante e al tempo stesso così semplice, così chiaro. Come se tutta la Terra, in quel momento, fosse diventata semplicemente più piccola, un minuscolo segno di gesso sull’erba del grande campo da calcio celeste. Come se diventasse, semplicemente, il dischetto di rigore di Dio. Poi, la palla che taglia di lato l’area di rigore, i piedi di Rosetta che l’accolgono e la spediscono dritta in rete, nell’angolo alto della porta, e la folla che esplode in un grido: «Gol!». Con le donne presenti che urlano più degli uomini, perché questo non è un semplice gol: questa è una dichiarazione di indipendenza.

Pochi secondi di buio. Un’altra musica accompagna due differenti voci.

~ «Da quando mia figlia giuoca, sta meglio, mangia di più, non frequenta le sale da ballo, dorme come una talpa ed è più buona: giuochi pure, giuochi ancora!»
~ «Amo moltissimo il giuoco del calcio, un amore tenace il mio, non un fuoco di paglia. Le mie compagne hanno tanta passione e buona volontà: non tramonteremo mai.»

La luce illumina il centro scena, dove il Narratore ritorna.

~ Senta… scusi lei! È qui che si allena la squadra delle calciatrici milanesi?
~ Come no! Io sono il presidente! Ma lei chi è?
~ Tanto piacere, Mario Pennisi: io sarei l’addetto stampa dell’Ambrosiana Inter.
~ Dell’Inter?!
~ Sì, dell’Inter!
~ Ma… la squadra di calcio?!
~ … No, il Club Alpino… sì, certo, la squadra di calcio! Senta, gliela faccio breve: domenica prossima i ragazzi affronteranno lo Sparta Praga per la semifinale di coppa, lo sa?
~ Miseria! Certo che lo so!
~ Ecco, vede, il presidente vuole far da cicerone ai nostri ospiti: li porteremo a vedere il Duomo, il castello, insomma, un pochino di Milano, no? E insomma, il presidente pensava che sarebbe stato bello proporre loro qualcosa di speciale, sì, ecco, insomma… pensava di portarli da voi.
~ Da noi?
~ Sì, da voi! Vorremmo venire a vedervi giocare insieme ai nostri ospiti!
~ Ma guardi, la nostra tecnica non è… insomma, voi siete dei professionisti e noi non siamo che all’inizio, lei mi capisce.
~ Ma la capisco sì! Infatti proprio per questo potrebbe essere interessante: i nostri giocatori potrebbero dare alle vostre ragazze dei consigli, no?! Voi, signor Cardosi, siete un’avanguardia, lo sa o no? E delle avanguardie, lo dice pure il Duce, bisogna andar fieri.

E la domenica successiva, i giocatori dell’Inter, vestiti di tutto punto, fecero il loro ingresso al campo insieme ai colleghi dello Sparta Praga per vedere la prima squadra femminile del Paese. «Ma è l’Inter quella vera?», si chiedevano i bambini attorno al campo. Sì, è l’Inter quella vera, inconfondibile. Una delle più forti squadre d’Europa che ora sedeva lì, il cuore carico di aspettative e il sorriso sulle labbra. Le ragazze giocarono con tutta l’energia di cui erano capaci, divertendo, entusiasmando e sorprendendo il pubblico e i giocatori stessi. Al termine della partita, fra le mani di Rosetta un biglietto, firmato Giuseppe Meazza e profumato d’acqua di colonia: «A Rosetta, calciatrice in gonnella: non smettere mai di attaccare». Dopo quella domenica magica, dopo che gli occhi dei più grandi calciatori d’Europa avevano guardato con emozione il gioco di quelle giovani donne, niente pareva fermare l’avanzata di quel sogno. Il progetto del Gruppo Femminile Calcistico Milanese ora aveva non solo una forma concreta, ma aveva trovato un felice campo di atterraggio nell’opinione pubblica; cominciava a farsi largo fra le menti e i pensieri, a conquistarsi un posto nel cuore di tutti. Le ragazze seppero anche che ad Alessandria si stava costituendo proprio in quei giorni un’altra squadra di calcio femminile. Era una notizia straordinaria, che apriva finalmente in tutto il Paese la possibilità di organizzare, di lì a poco, dei veri campionati di calcio femminile: Milano esisteva già, presto ci sarebbe stata Alessandria e chissà quante altre donne, in moltissime altre città avrebbero seguito lo stesso esempio! Ma proprio nel momento in cui le squadre di Milano e Alessandria lavoravano per l’organizzazione della loro prima partita amichevole, qualcosa, ai piani alti dello sport italiano cambiò. Alla presidenza del CONI subentrò ad Arpinati nientemeno che Achille Starace: segretario del Partito Nazionale Fascista, storico braccio destro di Mussolini per il quale aveva una autentica adorazione, al punto che il popolo lo aveva soprannominato “Claretto Petacci”. Starace non aveva neanche l’ombra dell’apertura verso lo sport femminile che aveva Arpinati, e lo disse subito molto chiaramente tramite un comunicato pubblicato dalla “Gazzetta dello Sport”, dove affermava che bisognava eliminare certe «degenerazioni degli ultimi tempi» come il calcio femminile, in favore dei più aggraziati sport olimpici, in vista dei prossimi giochi previsti a Berlino nel ’36. Contemporaneamente alle dichiarazioni di Starace, i giornali smisero immediatamente di parlare della squadra: via gli articoli, le fotografie, le vignette satiriche. Ad ogni tipo di articolo che ogni settimana parlava delle ragazze e dei loro risultati si sostituì un immediato e pesantissimo silenzio. Come se per una sorta di ‘volontà santa’ qualcuno avesse voluto, di punto in bianco, seppellire la storia e l’esistenza di quel piccolo grande miracolo collettivo; come se ad un tratto tutto il lavoro fatto dalla squadra, tutto il movimento nato al suo intorno fosse diventato un qualcosa da nascondere, da coprire, come quel primo pallone che si presentò di fronte alle ragazze, un anno prima, sotto quel sole di fine estate dove tutto cominciò. Il silenzio della stampa però non bastò per interrompere il lavoro della squadra; ed ecco che allora la macchina fascista smise di indossare i civili panni del burocrate, armato di timbri e carte bollate, e passò all’azione. Entrarono nel negozio di Ugo senza salutare. Avevano aspettato che fosse sera, che l’ultimo cliente uscisse. In due si avvicinarono al bancone mentre un terzo stava sulla porta, la cenere della sigaretta buttata per terra. Il signor Cardosi li incorniciò con lo sguardo, e prima ancora che potessero aprire bocca, aveva già capito chi fossero e cosa volessero.

~ Allora, la vogliamo finire o no, con questa pagliacciata? L’hai capito, Ugo, che la dovete smettere? Questi qua sono ordini, mica canzonette! Quante volte ancora te lo dobbiam ripetere per fartelo entrare in quella testa? Eh? Quante? Guarda Ugo che noi siam dei gentiluomini, sai. Ma se te non obbedisci, qui nel tuo bel negozio ci possono venire delle altre persone che non son mica gentili come noi. E magari, senza la nostra supervisione… può succedere una disgrazia. E tu non vuoi che succedan le disgrazie, vero Ugo? (Uno sbuffo di sigaretta) … No, che non lo vuoi.

E con la stessa rapidità con la quale erano entrati così uscirono, mischiando i loro abiti scuri con il buio della sera. Ugo Cardosi, presidente del Gruppo Femminile Calcistico Milanese sprofondò su una seggiola dietro al bancone, cercò a tentoni una bottiglia, si riempì un bicchiere di vino rosso e lo buttò giù senza respiro, fino a sentire la sua gola bruciare. Nella vita non aveva mai più pianto dal giorno della nascita di suo figlio Piero. E avrebbe messo la mano sul fuoco che mai più avrebbe pianto, nella vita, per qualsiasi altro motivo. E invece, mentre a fatica si rialzava, il signor Ugo scoppiò a piangere, un pianto senza freni, senza pudori e senza rimorsi, mentre afferrava le chiavi del suo negozio, riguardava quella stanza che ancora rimbombava di minacce, e spegneva la luce, questa volta fermandosi a fissare il buio per un po’, come se si trattasse di un atto definitivo, fermo, irrevocabile. Sacro e indiscutibile come un triplice fischio finale. Qualche pomeriggio più avanti, poi, durante uno dei pochi allenamenti che ancora riuscivano ad essere fatti, alcuni signori si avvicinarono al campo: erano armati di taccuini e cronometri. Si presentarono come preparatori sportivi.

~ Te sei Rosetta, vero? La nostra piccola Meazza. E quanti anni hai, Rosettina? Diciassette! Ma che bella età! Dai, su, fammi vedere un po’ come te la cavi con la corsa: magari scopriamo che oltre al calcio, hai anche qualche altro talento!

E Rosetta, così come tutte le altre, in quell’allenamento comandato da quei decisamente poco simpatici signori, smise di giocare a pallone e cominciò semplicemente a correre. Ed esattamente come in tutte le altre volte in cui aveva corso dietro a un pallone, il suo petto riempì la maglietta e la terra scricchiolò sotto la suola delle sue scarpe. Ma quella volta Rosetta non sentì la sua anima staccarsi dal resto del corpo per volare via felice. Così come non sentì il pubblico rumoreggiarle intorno, o il rumore del cuoio delle sue scarpe contro quello del pallone. In quell’autunno del 1933, a partire da quel pomeriggio, il calcio femminile veniva soffocato in favore degli altri sport olimpici. Perché così volevano gli ordini. Perché così, secondo il volere di pochi uomini, era giusto che andasse. Pochi giorni dopo sulla “Gazzetta dello Sport” apparve un comunicato del tutto simile a quello che annunciava la fondazione del Gruppo Femminile Calcistico Milanese. Diceva così:

~ (audio in stile cinegiornale) «A cura di un gruppo di sportivi, si è costituita in seno al gruppo femminile calcistico di Milano, una squadra di atlete prelevate fra le più veloci del gruppo stesso. Le giocatrici hanno preso parte a una corsa individuale a cronometro segnando in alcuni casi tempi bellissimi sui 50 metri. Le iscrizioni al gruppo atletico femminile sono gratuite e si ricevono in via Stoppani 12. Domenica mattina alle ore 7:30 cominciano gli allenamenti sui 50 e i 100 metri».

Il Gruppo Femminile Calcistico Milanese era stato convertito in pochissimo tempo in una squadra di atletica leggera. Alcune ragazze continuarono una carriera nel mondo dello sport: come Rosetta Boccalini, che divenne più volte campionessa italiana di pallacanestro. Di molte delle altre ragazze che fecero parte del gruppo, si persero nel tempo le tracce, dissolte come il loro sogno comune. Come la scia d’una stella cadente che scappa ribelle dallo schema ordinato del cielo.
Qualcuno per lungo tempo ha stretto i pugni e digrignato i denti, ha urlato in silenzio, contro questa prepotenza.
Qualcuno ha maledetto Starace, il CONI e Mussolini.
Qualcuno invece ha sostenuto che in fondo è giusto che sia andata così.
Ché in fondo, nessun sogno si interrompe mai per davvero.
Lascia delle tracce, una piccola scia di polvere, proprio come certe stelle cadenti che scappano ribelli dallo schema ordinato del cielo.
E quando un sogno svanisce, quando anche l’ultimo granello di polvere della sua scia viene risucchiato dal grande buio del cielo, non ci resta nient’altro che fare i conti con ciò che rimane: raccogliere i cocci di ciò che siamo, tentare di rimetterli insieme e andare avanti, fino alla fine di una nuova giornata, quando ci ritroveremo ancora una volta nel nostro letto, guarderemo in alto, faremo un bel respiro… e spegneremo la luce.
Ma non prima di esserci ricordati che tutto quello che è successo non è stato un sogno.
Rosetta! Elena! Losanna! Maria! Ninì! E tutte voialtre! Non è stato un sogno.
Questo che abbiamo appena raccontato non è un sogno.
Questa è una dichiarazione di indipendenza.

Buio.