LA GABBIA
(FIGLIA DI NOTAIO)

di

Stefano Massini


Signora M., la Madre
Nora, la Figlia

Il parlatorio di un carcere.
Piena estate. Anni novanta.


Una scatola di cemento e intonaco, letteralmente schiacciata sotto la mole imponente di un vecchio finestrone di legno marcio. Le ante sono spalancate verso l’interno, a creare per un istante l’illusione di una via di fuga che subito si arresta sul reticolo squadrato delle sbarre. Dalla parte opposta della stanza, è incassata nel muro la sagoma di una porta. Il parlatorio del carcere sta tutto qui, parallelepipedo compreso (e compresso) fra i due rettangoli di una piccola porta e di un’enorme finestra. Non c’è nient’altro, se si fa eccezione per due sedie di plastica ed un tavolo sghembo certamente in esilio da qualche ufficio. Luogo anonimo, privo di personalità, fatalmente consapevole del suo oggettivo squallore.

Tutto è sospeso nei bagliori accecanti di un mezzogiorno estivo. La morsa asfittica della canicola si riversa impietosa, senza ostacoli, dalle fauci della finestra. Ed è come se ogni cosa galleggiasse nel vuoto irreale di un’aria gialla, umida e bollente, che sgronda dappertutto come vernice. Roventi le pareti, rovente il pavimento, rovente la cassa arrugginita di un neon calato a mezz’aria. Ed è rovente perfino il silenzio: pesante e gonfio avvolge le cose più che una guaina. Inospitale ad ogni parola, pronto ad incendiarsi come polvere pirica. 

Contro ogni previsione, il pianeta è abitato. Immerse in questa calura si fronteggiano due donne. Immobili. Mute. Forse da un minuto, forse da un’ora, forse da undici anni. Diverse eppure lontanamente simili, nonostante il fossato dell’età e il segno forte della tenuta da carcerata che marchia la più giovane. Una davanti all’altra, separate solo dalla parentesi orizzontale del tavolo: in questa strana fissità sembrano quasi parte stessa della stanza, eterne e dimenticate come remoti relitti del tempo. Due statue che si guardano. E come statue non tradiscono il minimo sintomo emotivo: entrambe rigide, inflessibili, reciprocamente indecifrabili. 

Il loro tenace scontro di sguardi dura ancora alcuni istanti. Lunghi. Densi. Interminabili.

SIGNORA M. Non dici niente.

L’altra non risponde e la fissa, imperscrutabile. 

SIGNORA M. Una di noi dovrà parlare, prima o poi.

Silenzio.

SIGNORA M. D’accordo: inizio io. (pausa) Ci fa un bel caldo in questo posto. 

Silenzio.

SIGNORA M. Prima - mentre mi facevano i controlli, giù al cancello - guardavo le finestre. Tutte coi panni stesi: immobili, fermi. Senza un filo di vento. Appesi come in forno, a sbiancare al sole… Il grande caldo è come il grande freddo. Identici. Bloccano le cose, le fissano: imbalsamate. Causa opposta, stesso effetto. 

Silenzio.

SIGNORA M. Ed è pieno di insetti… Dev’essere per il fiume. Passa qui vicino, dietro la curva. L’hai visto? Certo che l’hai visto. (pausa) Non è un gran fiume: dal ponte si vede solo sabbia. Terra e sabbia. Qualche cespuglio, ogni tanto. Secco. Si capisce: con questo caldo. 

Silenzio.

SIGNORA M. Io dell’estate non sopporto il silenzio. Il silenzio che sta là, fuori, a quest’ora. E’ diverso da tutti gli altri. Ci hai fatto caso? Voglio dire: anche quando nevica c’è silenzio. A notte fonda, all’alba… Ma è un’altra cosa. Questo è un silenzio… pesante. Arreso. Sconfitto. Il sole brucia tutto, anche i rumori. Le case sbarrate, nessuno per strada, la luce che ti sbatte in viso e… quel silenzio: prende la gola. Come un muro, come… come una gabbia. (pausa) Ecco: l’estate è una gabbia. Sbaglio?

La Signora M. fissa la figlia che resta impassibile.
Silenzio.

SIGNORA M. (fissandola) Guarda che puoi parlare… Dì almeno che sei sorpresa. Che non mi aspettavi, che sei colpita: questo puoi dirlo… 

Silenzio. La Signora M. siede.

SIGNORA M. Credevo di aspettare di più. Chissà perché. Pensavo ci avresti messo un’ora, prima di scendere. Invece… Che ti hanno detto? Per farti venir subito, dico. “C’è una visita in parlatorio”. Qualcosa del genere, vero? Gli ho fatto giurare di non dirti chi ero, assolutamente.

Silenzio.

SIGNORA M. Ho pensato che… Beh… Se ti avessero detto che c’era tua madre…

NORA Non sarei scesa.

Si fissano per alcuni istanti. Silenzio.

SIGNORA M. Allora sai parlare. Mi chiedevo se avrei sentito la tua voce.

NORA Ora l’hai sentita: puoi andare. 

SIGNORA M. Decisa, come sempre. Undici anni non ti hanno cambiata.

NORA Perché? Dovrebbero?

SIGNORA M. Tutti si cambia. 

NORA Non io. Vattene.

SIGNORA M. (quasi citando, ma con naturalezza) L’uomo è fatto per cambiare, di natura. Sottotitolo alla specie: trasformista. 

NORA Cos’è? Un altro dei tuoi romanzi?

SIGNORA M. (sorridendo) Chissà: magari, uno dei prossimi. Non so mai quale libro è dietro l’angolo.

NORA Credi che mi interessi?

SIGNORA M. Non ti è mai interessato.

NORA Adesso ancora meno. La porta è quella.

SIGNORA M. Fine del colloquio? 

NORA Fine del colloquio.

SIGNORA M. Colloquio inesistente. Se vuoi interromperlo devi almeno cominciarlo.

NORA Inutile. Non c’è niente da parlare.

SIGNORA M. Pensi di far finta di niente, vero? Cancellarmi. Dimenticare che oggi, dopo undici anni, sono stata qui.

NORA Questo colloquio non c’è mai stato. Non esiste. Tu non sei mai entrata, io non ti ho vista: non ci sei. Ed ora fuori.

SIGNORA M. Sono l’ultima persona che pensavi di trovare. Lo capisco.

NORA E ti sbagli.

SIGNORA M. Nel senso?

NORA Lo sapevo: prima o dopo sareste tornati fuori. La figlia terrorista chiusa in gabbia sotto chiave, undici anni senza una parola. Rimorsi. Pietà. Sensi di colpa. Tutta la paccottiglia dei buoni sentimenti: tu ne sei maestra.

SIGNORA M. Io maestra di buoni sentimenti? Lo scopro ora: nei miei libri non c’è traccia…

NORA Per favore! Basta leggerli i tuoi libri…

SIGNORA M. Perché, quando mai li hai letti?

NORA Li ho letti. 

SIGNORA M. E’ già qualcosa.

NORA Per riempire il tempo, solo per quello.

SIGNORA M. Non metto in dubbio. Intanto però li hai letti: ti sei sempre rifiutata.

NORA Sono pieni di retorica. Falsi. Marci. Strumentali.

SIGNORA M. Condanna senza appello. Non mi offendo, se vuoi questo.

NORA Voglio che te ne vada. Subito.

SIGNORA M. Fa quasi ridere: stiamo insieme da dieci minuti e già mi hai detto che scrivo melassa.

NORA Conformismo. Tu scrivi conformismo.

SIGNORA M. Che è peggio della melassa.

NORA Lo vedi? Ci casco ancora. Parlare con te è parlare dei tuoi libri. Immancabile. Vattene, è meglio.

SIGNORA M. Non sono qui per discutere di libri.

NORA Lo credo bene: quando mai l’hai fatto? 

SIGNORA M. Avrei voluto.

NORA A parole, certo. Fino a quindici anni ci ho creduto: quando mi dicevi “siedi accanto a me, troviamo insieme il finale del racconto”. Ci volle poco per capire che era una scenata. Fingevi di coinvolgermi, solo perché stessi lì a guardare. 

SIGNORA M. Lo pensi ancora?

NORA Penso che voi intellettuali siete così. All’apparenza aperti al mondo. In realtà chiusi, più degli altri, su voi stessi.

SIGNORA M. Perché devi credere ogni cosa falsa? Cercare l’inganno: sempre.

NORA Non è vero? Dietro quelli come te c’è la voce del sistema. 

SIGNORA M. Quale sistema.

NORA Quello che umilia la classe operaia.

SIGNORA M. Ancora ragioni così!

NORA Siete voi a dare i modelli. Insegnate schemi. Regole reazionarie. 

SIGNORA M. Come parli?

NORA Come so parlare. Attraverso voi, le vostre storie – le categorie di bene e male! – i regimi schiacciano il popolo. I vostri libri – i tuoi libri – sono la dottrina. Nascosta, strisciante, sottintesa. Conservare l’equilibrio. Mantenere il compromesso. Diffondere il consenso. Tutto va bene finché non cambia.

SIGNORA M. E tuo padre?... Anche lui opprime i proletari?

NORA Mio padre, il notaio… ho detto tutto. 

SIGNORA M. Hai detto cosa? 

NORA Una casta, tutti allineati, perbenisti… Evviva la morale. 

SIGNORA M. E per la stessa morale io sarei qui.

NORA Tutto previsto.

SIGNORA M. Mi aspettavi.

NORA Non oggi. 

SIGNORA M. Ti ho stupita.

NORA Un giorno vale l’altro.

SIGNORA M. Nessuna sorpresa.

NORA Ero preparata. 

SIGNORA M. Meglio.

Silenzio.

NORA Ti ho detto di andartene. Non hai sentito?

SIGNORA M. Il tempo di riprendermi, d’accordo? Cinque minuti, non di più: là fuori c’è l’inferno. (pausa) Il treno viaggiava coi finestrini aperti: entrava aria calda, bollente… Sono venuta in treno, te l’ho detto? Un rapido e due locali. Sei ore di viaggio. Di cui una piantati sui binari in mezzo ai campi: gialli, bruciati, neanche un albero a perdita d’occhio. (pausa) Non potevo star ferma, ho girato i vagoni, su e giù per gli scompartimenti. Deserti, tutti o quasi: ho contato un prete, tre suore, due ragazzini e una coppia di non so dove che leticava ad alta voce… (pausa) D’estate tirano fuori certe carrozze vecchie, quelle con le tende grigie a quadri, i divani marroni, le borchie d’ottone: orribili, hai presente?… Qui la stazione è a cinque chilometri: c’è una strada mezza sterrata, la corriera alza una polvere… 

NORA Geniale, davvero. Dopo undici anni ti presenti qui e mi parli di treni.

SIGNORA M. Allora dimmi tu qualcosa. Eri tanto preparata: non ti colgo alla sprovvista.

NORA Che dovrei dire?

SIGNORA M. Qualcosa, che ne so.

NORA Sui vagoni merci? O sui locomotori?

SIGNORA M. Su di te.

NORA Niente che ti interessi.

SIGNORA M. Dal momento che sono qui.

NORA Appunto, parliamo di questo: perché ci sei?

SIGNORA M. Attacco frontale. Ho deciso di stanarti.

NORA E che ti aspetti? 

SIGNORA M. Parlare.

NORA Tutto qui?

SIGNORA M. Ti pare poco?

NORA Perfetto. La risposta è no.

SIGNORA M. Nel senso?

NORA Nel senso che non ho voglia. Viaggio inutile. Riprenditi quei treni e buonasera: non c’è ragione che tu resti qui. 

SIGNORA M. (interrompendo) Vuoi una sigaretta? (ne offre, dalla borsa)

NORA (una pausa, poi) Non fumo. 

SIGNORA M. Un tempo fumavi.

NORA Sono sei anni.

SIGNORA M. Da quando stai qui. 

NORA Questo non c’entra.

SIGNORA M. Ti hanno fatta smettere.

NORA Ho deciso io. 

SIGNORA M. Scelta di volontà, prova di forza. Ti invidio, davvero… Io faccio fuori un pacchetto al giorno. Certe volte arrivo a due… 

NORA Tu fai tutto in grande. Come sempre.

SIGNORA M. Ecco un altro colpo… Fuoco alle micce, puntare i cannoni. Hai schierato l’artiglieria.

NORA Ti ho detto che non ho voglia. 

SIGNORA M. Voglia di cosa?

NORA Di star qui a far finta di parlare. I cannoni, le micce e il resto che t’inventi. 

SIGNORA M. Nessun problema: accendo una sigaretta, me la fumo e poi me ne vado. Almeno ci ho provato, potrò dirlo.

NORA Potrai dirlo dove? Nei tuoi libri? O nei salotti?

SIGNORA M. Scarica di colpi: bombardamento in atto…

NORA Dopo undici anni sbarchi qui ed è tutto uguale. Identica a come ti ho lasciata: mi stai davanti e parli, parli... Ma non per me: non l’hai mai fatto. Non l’hai mai fatto per nessuno. Tu parli solo per te: per ascoltarti. Parli per dirti che sei brava. La migliore, in cima al piedistallo. La regina delle scrittrici, che parla come un libro. Ma coi libri non si parla: stanno scritti, nero su bianco. Immutabili, stampati. E se ne fregano di chi li legge.

SIGNORA M. Ti chiedo il tempo di una sigaretta. 

NORA No.

SIGNORA M. Una sola sigaretta. 

NORA No.

SIGNORA M. Non è poi molto: si può fare, che ti costa?

Silenzio. Si fissano.

NORA (con distacco) Vedi di far presto.

SIGNORA M. (pausa, la guarda) Puoi anche sederti.

SILENZIO

SIGNORA M. Pronta alla fuga: evitare la gabbia. 

NORA Nessuna gabbia.

SIGNORA M. Ogni dialogo è una gabbia. 

NORA Nessuna gabbia.

SIGNORA M. L’ho sempre pensato: ognuno di noi è un cerchio. Invisibile, o forse neanche tanto… Appena qualcuno ti rivolge la parola, entri nel suo cerchio. E sei chiuso: prigioniero. Ti scruta, ti giudica, ti guarda, si aspetta risposte (quelle che cerca)… Parlare è entrare in gabbia, sempre. Io nella tua. E tu nella mia. 

Silenzio. Nora distoglie lo sguardo.

SIGNORA M. (inspira il fumo, si guarda attorno) Ci vieni spesso?

NORA (senza guardarla) Dove.

SIGNORA M. Qui.

NORA Qui dove.

SIGNORA M. In parlatorio.

NORA Mai.

SIGNORA M. Qualcuno verrà a trovarti.

NORA Chi?

SIGNORA M. Non so. Conoscenti.

NORA Viene l’avvocato. Una volta ogni due mesi. 

SIGNORA M. Soltanto?

NORA Tempo inutile. Sprecato.

SIGNORA M. Vuoi dire?

NORA Una farsa. Entra, si siede, mette gli occhiali. Io entro, mi siedo, lo guardo. Apre la valigia, tira fuori i fogli, legge tre righe, dice “Niente di nuovo, tutto fermo”. Rimette i fogli, toglie gli occhiali, mi dà la mano. Arrivederci. Una farsa.

SIGNORA M. Prima credevi fosse lui.

NORA Poteva.

SIGNORA M. E sei scesa per questo.

NORA Anche.

SIGNORA M. Che altro.

NORA Per farmi un giro. La cella è dieci metri quadri, e siamo in tre. Facciamo a turno a stare in piedi, da mattina a sera: come in gabbia. Se puoi uscire anche mezz’ora, corri.

Silenzio. La Signora M. fuma. Nora volutamente non la guarda.

SIGNORA M. Comunque ci ho parlato. 

NORA Parlato con chi?

SIGNORA M. Con l’avvocato. 

NORA (voltandosi, di scatto) Tu hai parlato col mio avvocato?

SIGNORA M. Dice che è il ricorso è pronto. 

NORA Stronzate.

SIGNORA M. Il tuo caso è diverso dagli altri, mi ha spiegato.

NORA Certo, ti ha spiegato.

SIGNORA M. C’è la condanna per banda armata. Ma tu non hai sparato, non eri del covo. Hanno escluso che tu fossi di quel gruppo. Non eri dei loro. Un’esterna. 

NORA E tu ci credi naturalmente. 

SIGNORA M. Ci sono le prove. 

NORA Un’esterna!

SIGNORA M. Così ha detto.

NORA Avrete festeggiato: vostra figlia non sparava, grande gioia.

SIGNORA M. Che vuoi dire?

NORA Brigatista mancata: l’onore è salvo.

SIGNORA M. Che razza di discorso.

NORA Niente macchie sul nome. La stampa va avvisata: il notaio e la scrittrice tornano puliti! La figlia terrorista? Era uno sbaglio.

SIGNORA M. Finiscila.

NORA C’ero dentro, va bene? Anche se non vi piace. C’ero dentro fino al collo. E non da esterna.

SIGNORA M. L’avvocato è sicuro…

NORA Lascia perdere.

SIGNORA M. E’ sicuro che il ricorso sarà accolto. Senza dubbio.

NORA Ho detto lascia perdere: l’avete fatto per undici anni. 

SIGNORA M. Perché devi pagare se non eri di quel gruppo?

NORA Io ero di quel gruppo.

SIGNORA M. Ma il tuo ruolo…

NORA Sparavo. 

Silenzio.

NORA Vuoi sentire questo, no? Te lo dico, non ho problema: sparavo. 

SIGNORA M. Il processo l’ha escluso.

NORA Anche se il processo l’ha escluso: sparavo lo stesso. Delle sentenze me ne sbatto: è la giustizia del regime. Falsa, come è falso il sistema. (fissa l’altra) Sparavo, sì. In tutto cinque volte. La prima contro un furgone porta valori. Azione di auto-finanziamento. Appena fuori città, all’alba. Eravamo in quattro, loro in due. Io l’unica donna: volontaria, prima o dopo volevo provare. Freddai l’autista, avrà avuto trent’anni. Ma la faccia non me la ricordo. Cancellata: zero. Mi ricordo il baccano dei colpi, quello sì. La sgommata delle ruote. E i fori sulla lamiera. Poi buio. Niente sangue, niente grida. Niente. Vomitai la notte dopo, tutto lì. Da quella volta fu più facile. Non mi tirai più indietro: se era utile che andassi, andavo. Senza pensarci. Mi dicevano “tocca a te”. Ed io c’ero. 

SIGNORA M. Lo dici per provocarmi, ce l’hai scritto in viso.

NORA Spiacente, tutto vero. (pausa) Che c’è? Ho rotto la favola? Dopo undici anni pensavi di risolvere il problema: venire qui e svegliarti dall’incubo, vero? Scoprire, all’improvviso, che tua figlia è un’innocente… Parola magica: innocente. Bene, la realtà è questa. Questa e basta, non ce n’è un’altra: tua figlia sparava. Con queste mani, le vedi? Ho imparato a caricare un mitra. Ho imparato a reggerlo, mentre scarica. Automatici, marca tedesca, ne avevamo dieci nascosti sotto i letti. Negli armadi, fra i vestiti, cinque pistole. Munizioni a pacchi. E in tasca documenti falsi: anche di quelli mi occupavo io. Sufficiente?

La Signora è colpita. Fissa Nora che le dà le spalle. Non accetta di sembrare sconfitta, prende forza e contrattacca.

SIGNORA M. Va bene… Ora lo so… Che ti credi? 

NORA Ma chi sei venuta a cercare? Chi pensavi di trovare? Qui non c’è tua figlia. Chiunque ti sta davanti ora, in questo momento, non è lei...

Nora non regge lo sguardo della madre e si allontana, poi ricomincia.

NORA Sono passati undici anni ma sono più che cento. Fra me e te ci sono montagne di roba, e non le superi. (scandendo) Non le superi… Stiamo dalla parte opposta. Tu coi tuoi libri, io col mitra che tenevo in mano. 

SIGNORA M. Sono venuta solo a vedere.

NORA Ora mi vedi. Allora?

SIGNORA M. Allora non ti conosco.

NORA Brava. E’ la prima cosa vera che dici. Tu non mi conosci. Sono un’estranea: una qualsiasi, senza nome, senza viso. Come la gente che ti passa accanto, mentre vai per strada: di loro non sai niente, e niente devi sapere. Con me è lo stesso.

Silenzio.
La Signora apre la borsa, tira fuori un biglietto. Lo legge.

SIGNORA M. “Voglio essere un’estranea. Una qualsiasi, senza nome, senza viso. Non mi cercate, non voglio tornare. Nessuna famiglia, nessuna gabbia! Ho vent’anni, ho diritto a vivere…” Così sparisti: con un biglietto, da un giorno all’altro. Ho diritto a questo, a quello… e via dicendo. 

NORA Era vero.

SIGNORA M. (gelida) Intanto sei chiusa qui. E’ a questo che avevi diritto? Rispondi.

NORA (una pausa, la fissa) Ecco: sua maestà ha fatto la morale. Assolto il compito, puoi andare. Ci vediamo fra undici anni.

SIGNORA M. Se vuoi che me ne vada devi sbattermi la porta in faccia. 

NORA Certo che me ne vado. Non ho niente da fare qui. 

Nora si avvia all’uscita, verso il pulsante di chiamata.

SIGNORA M. Io non credo che te ne andrai.

NORA No?

SIGNORA M. Un’altra se ne andrebbe, tu no. Tu sei una che sparava! Scegli la strada più difficile, quella in salita. Se mi lasci qui, in questo forno di parlatorio, è come se chiudessi la partita, senza giocare. Chi fugge è debole, abbandona il campo: lo fanno i vigliacchi. Tu non lo sei.

NORA (quasi divertita) E tutto questo lo pensi veramente…

SIGNORA M. Penso che io e te ci stiamo davanti, ora, una all’altra. La prima volta dopo undici anni. Ed è una sfida. Sì, lo è. Forse peggio che freddare quell’autista. Una sfida a chi è più forte… La prima di noi due che sbatte quella porta, avrà perso. Lo sai. E’ l’unica regola, non ce n’è altra.

NORA Perché le regole le fai tu, anche qui.

SIGNORA M. Certe regole stanno in piedi da sole, si sentono nell’aria. E questa è una.

NORA Allora stammi bene a sentire: mettiti in testa che qui dentro non vali niente, chiaro? Tu, la signora dei romanzi, qui dentro vali meno che il mio sputo. E non c’è nessun cavolo di regola che mi tenga a darti spago. Se voglio andarmene, devo solo premere un pulsante. Mi vengono a prendere e fine della storia: tu resti qui come una cretina, io torno in gabbia, tanti saluti. Nessuno ha vinto e nessuno ha perso, perché la sfida la vedi solo tu: io la mia l’ho chiusa, da undici anni.

Silenzio. Per alcuni istanti la Signora M. fissa il viso di Nora.

SIGNORA M. Mi ero scordata la sensazione di avere a che fare con te. Una maschera d’acciaio. Impenetrabile. E’ un’esperienza da provare: sentire che neanche una parola arriva a destinazione, che cancelli tutto quanto nell’attimo stesso in cui lo ascolti. Complimenti, non sei cambiata.

NORA Ti riguarda?

SIGNORA M. L’hai detto. E’ la frase che hai stampata in fronte… Ancora, come undici anni fa: “chiunque tu sia, non ti riguardo e non mi riguardi”.

Nora fissa l’altra.

NORA Senti: basta con la recita. 

SIGNORA M. Nessuna recita.

NORA Vorrei la soddisfazione di sapere… 

SIGNORA M. Sapere cosa?

NORA Da me che diavolo vuoi?

SIGNORA M. Niente. Non voglio assolutamente niente. 

NORA Non ci credo.

SIGNORA M. Solo una visita, tutto qui.

NORA Così, all’improvviso?

SIGNORA M. All’improvviso, perché no?

NORA Dopo undici anni mi fai una visita all’improvviso.

SIGNORA M. E’ vietato? Sono tua madre.

NORA Per favore.

SIGNORA M. Ho deciso ieri sera, all’ultimo momento. (pausa) Mi sono resa conto che…

NORA Che?

SIGNORA M. Il tuo viso, la tua faccia… Non sapevo più com’erano, ecco tutto.

NORA Cos’è? Fai la patetica? Guarda che non attacca. 

SIGNORA M. Vuoi dire…

NORA Voglio dire che tu non sei il tipo che - dopo undici anni - si umilia a venir qui per una visita.

SIGNORA M. Io non mi umilio. Affatto.

NORA No?

SIGNORA M. Ti sembro umiliata?

NORA Mi sembri falsa. 

SIGNORA M. Addirittura.

NORA Falsa e ridicola.

SIGNORA M. Nel senso?

NORA Nel senso che sei falsa e quindi fai ridere. 

SIGNORA M. E’ già qualcosa, se non altro. Sorriso è simpatia: ti sto simpatica.

NORA Non ho detto divertire, ho detto ridere.

SIGNORA M. Perché? Tu sai ridere? Non si direbbe: la tua faccia…

NORA L’avevi scordata.

SIGNORA M. Infatti: è così. 

NORA Ascolta…

SIGNORA M. (con forza) No, ora ascolta tu. (pausa) Dici che faccio la scena, che sono patetica? Va bene: ecco la verità. Cruda, così com’è.

NORA Sentiamo.

SIGNORA M. Non sono qui per affetto, contenta? Né per affetto né per compassione. Non sono qui per i buoni sentimenti. Tu con me non li hai mai avuti, non vedo perché dovrei offrirmi a bersaglio. Ho imparato la lezione: tu nel tuo, io nel mio. D’altra parte come dicevi? ”La famiglia è cellula marcia del sistema borghese”. Benissimo, carte in tavola: non ho gli occhi lucidi, lo vedi. Non li avevo quando sono entrata e non li ho ora. Niente abbracci. Niente smancerie. Niente “figlia mia mi sei mancata” e il bla bla bla di circostanza. A te non servirebbe ed io non sono il tipo, l’hai detto. Punto e a capo. 

NORA Va’ avanti.

SIGNORA M. Sono qui per curiosità. Pura, semplice, bassa curiosità. Banale? Forse. Ma tant’è.

NORA Spiegati.

SIGNORA M. Ho scritto un libro: un nuovo romanzo.

NORA Io che c’entro?

SIGNORA M. C’entri molto. Ti riguarda.

NORA E qual è il titolo? “Storia di una figlia rinnegata”? “Tradimento in famiglia”? O “La serpe in seno”?

SIGNORA M. “La gabbia”. Si chiama così.

NORA Titolo strano.

SIGNORA M. Che c’è? Non ti convince?

NORA Come ti è venuto in mente?

SIGNORA M. Per caso: l’ho inventato. E’ un problema?

NORA Per niente. Affari tuoi. Figurati.

SIGNORA M. Se tu un giorno scrivessi un libro…

NORA Io non scrivo libri.

SIGNORA M. Lo escludi?

NORA Se anche lo facessi, saresti l’ultima a saperlo. 

SIGNORA M. Non me lo diresti.

NORA Mai. Penseresti che ti imito, come le bambine coi vestiti dei grandi. Diventare come te: penso a tutto fuorché a questo.

SIGNORA M. Ad ogni modo il mio libro si chiama “La Gabbia”.

NORA E parla di carcere: ecco perché stai qui.

SIGNORA M. Nessun carcere. (pausa) C’è un posto, in fondo alla Cornovaglia. Si chiama Land’s End. E’ un promontorio, uno sperone di roccia che entra nell’oceano… Io e tuo padre ci finimmo per caso, tanti anni fa. Quasi per scommessa: seguire una strada, fino in fondo. Scoprire dove va a finire. Beh: finiva là… Poche case, i tetti bianchi. Nuvole basse, una grande villa in cima alla scogliera… E un silenzio strano. Perché nessuno parla, a Land’s End. Lo senti subito, appena ci arrivi. Perfino i bambini che giocano in strada: senza gridare. E’ come se l’uomo si cucisse la bocca, e lasciasse parlare l’Atlantico... Quel giorno pensai che posti come quello sono fatti per ritrovarsi. Lontano da tutto, lontano dai fatti, dalle parole. Ai confini della terra, a Land’s End, dove l’oceano è più forte dell’uomo e pretende silenzio. Laggiù – solo laggiù – chi si è perduto si può ritrovare.

NORA Quindi?

SIGNORA M. Due personaggi. Una madre e un padre.

NORA Cercano la figlia.

SIGNORA M. La cercano, sì. Invano, da anni.

NORA Undici anni.

SIGNORA M. Trent’anni. 

NORA E la trovano, dopo trent’anni.

SIGNORA M. Pagano un annuncio, su tutti i giornali della terra: chiedono alla figlia di raggiungerli, a Land’s End.

NORA Così accade. Lacrime e sorrisi. Lieto fine sull’Atlantico.

SIGNORA M. Nessuno si presenta. (citando, a memoria) …“La donna dal vestito scuro guardò l’Atlantico. E in quel momento sentì, gelido, il ferro di trenta sbarre. Trenta sbarre: la gabbia del suo tempo. Di quella gabbia – allora capì – anche l’oceano era ignaro e prigioniero”…

NORA Così ti sei ricordata che esisto. Hai preso i tuoi treni ed eccoti qua.

SIGNORA M. Ho voluto la mia Cornovaglia. Prendermela, senza annunci. 

NORA E mio padre? 

SIGNORA M. Tuo padre…

NORA Lui non ci torna a Land’s End? 

SIGNORA M. Tuo padre non esce mai, sta chiuso in quello studio: dorme là da mesi.

NORA Il notaio e la sua gabbia.

SIGNORA M. Ognuno ha la sua.

NORA E la tua? Qual è?

SIGNORA M. Scrivere. La miglior cosa che sai fare è la peggiore delle gabbie. Ce la costruiamo da soli. Pezzo per pezzo, senza rendercene conto. E alla fine ti ci trovi chiuso. Prigioniero. 

NORA I tuoi libri una gabbia.

SIGNORA M. A volte lo penso.

NORA In bocca a te sembra una bestemmia.

SIGNORA M. Chissà che non lo sia.

Silenzio.

NORA Dammi una sigaretta.

SIGNORA M. Tu non fumi.

NORA Ho voglia di una sigaretta. Se me la dai ti ringrazio.

SIGNORA M. (offrendo una sigaretta) A te.

NORA Che marca è? 

SIGNORA M. (accendendola) Senza filtro… Le mie preferite.

NORA (fumando) Fanno schifo.

SIGNORA M. Punti di vista.

NORA Fanno schifo. Sotto tutti i punti di vista.

SIGNORA M. Sono inglesi, le compro là.

NORA Inutili. Non c’è sapore, non sanno di niente. Inutili.

SIGNORA M. Non sono troppo forti né troppo leggere: una via di mezzo.

NORA (fumando) Allora sarà questo.

SIGNORA M. A farti schifo?

NORA A farle inutili. La via di mezzo! Nessun colore, nessun sapore, né troppo forti né troppo leggere: il niente. Squallido, come tutti i compromessi. 

SIGNORA M. Tu non ne hai mai fatti?

NORA Io che c’entro.

SIGNORA M. Ne parli come fosse peste.

NORA Lo sono. Il compromesso sfascia tutto. Rovina ogni cosa.

SIGNORA M. E gli estremi? Quelli salvano?

NORA Ci vuole forza nelle cose. 

SIGNORA M. Certo.

NORA Decisione. Sicurezza. Coi mezzi termini non cambia nulla. 

SIGNORA M. Bene o male, bianco o nero… O di qua o di là.

NORA Giusto o ingiusto, sì. Non c’è via di mezzo.

SIGNORA M. Così la vita è un lager.

NORA Apri gli occhi: la gente non si espone, mai. Sta nascosta, zitta, accetta tutto, china la testa: non reagisce. C’è il Potere che sfrutta, tutti lo sanno e nessuno fa niente.

SIGNORA M. Si chiama paura.

NORA Si chiama interesse. Coi soldi si compra tutto. E la via di mezzo è figlia dei soldi, sempre. Compromesso uguale soldi. Soldi uguale compromesso. 

Nora spegne la sigaretta.

SIGNORA M. (fissandola) Dev’essere dura avere in testa questa roba.

NORA Perché? Non è vero? Pura verità.

SIGNORA M. La verità non esiste. 

NORA Esiste eccome. E non ha via di mezzo, garantito.

SIGNORA M. Tutto è falso e tutto è vero, dipende cosa vuoi vederci.

NORA Beh, io ci vedo che…

SIGNORA M. Che?

NORA Che il compromesso mi fa mi schifo. Sempre e comunque: schifo.

SIGNORA M. (la fissa, come se intravedesse qualcosa) Eccola qua… Sì, deve essere lei.

NORA Che dici?

SIGNORA M. La tua gabbia. Mi chiedevo quale fosse.

NORA Mi prendi in giro? Ci sto fissa fra le sbarre.

SIGNORA M. La verità con la V maiuscola. E’ lei la tua gabbia.

NORA Esci da questo discorso.

SIGNORA M. Ti dà fastidio.

NORA Non sopporto che si parli di me. Quel che ho in testa è fatto mio: appartiene a me. E le mie idee sono mie: solo mie. Mi hanno tolto tutto, ma non quelle.

SIGNORA M. Le tue idee. Altra gabbia.

NORA Insisti?

SIGNORA M. Quando a volte capitava ancora di parlare, undici anni fa, mi chiedevo sempre se eri tu a controllare i tuoi pensieri o i tuoi pensieri a controllare te… Chi tiene il timone? Bella domanda. Me la faccio ancora.

NORA Ridicolo.

SIGNORA M. Certe volte la testa sfugge di mano: prende il potere, fa un colpo di Stato. E diventi schiavo. Delle idee, dei pensieri. Guidano loro, tu obbedisci e basta. A quel punto le idee si vestono da regole, i pensieri da princìpi. Diventa religione: i peccati, i precetti… La tua battaglia – la lotta rossa – in fondo è questo: religione senza Dio. I comandamenti senza l’Arca. Non puoi più scegliere: devi eseguire. Altrimenti…

NORA Altrimenti?

SIGNORA M. Sei perduto. Come la droga: ne hai bisogno, è necessaria. Quelli come te si drogano di idee. Ma fa lo stesso.

NORA Quanto ti piace definire gli altri: creare personaggi…

SIGNORA M. Abitudine. Vizio da scrittore.

NORA Malattia borghese. 

SIGNORA M. Certo: dimenticavo, sono una corrotta.

NORA E’ tipico della vostra specie. Giudicarvi, senza pietà. Farvi a pezzi, l’uno con l’altro, ma senza guerra. Anzi: incollate sulla faccia la maschera beata. La conosco, ormai. Quel sorriso sulle labbra, come niente fosse: seduti sui divani, col liquore nel bicchiere. Undici anni fa - mentre ti chiedevi se ero schiava dei miei pensieri – io mi domandavo che razza di merdaio era il tuo salotto. Mattatoio vestito da palazzo. Sentivo ridere, scherzare, certo: era solo la facciata. L’apparenza. L’alibi. Dietro quello c’erano i pugnali. La lingua che correva, passando su tutto e tutti. Neanche lo immagino quante volte mi hai sputato addosso. Come mi hai buttata in piazza, fra i cioccolatini e i regali di Natale. Io sparavo con il mitra, certo. Ma anche tu ne hai fucilati coi discorsi da borghese. A decine, eccome. Omicidi con la messa-in-piega, senza neanche una goccia di sangue. Che schifo. 

SIGNORA M. Te ne andasti per questo.

NORA Me ne andai perché non c’entravo niente. Me ne andai perché ero ancora in tempo: prima che il salotto inghiottisse anche me. Prima che l’unica regola – la religione, come dici tu – diventassero i soldi che sventolate dappertutto come fossero bandiere.

SIGNORA M. Non sono mai stata venale! Né io né tuo padre. E sai benissimo che in casa nostra i soldi sono…

NORA In casa del notaio! In casa del notaio i soldi sono sottintesi. Come tutte le cose importanti: non se ne parla ma sono dovunque. Li senti nei discorsi, nei pensieri, nei silenzi: sempre presenti, dietro l’angolo. E per voi sono tutto.

SIGNORA M. Preferivi la miseria? La fame? Le pezze sul culo!

NORA I soldi sono come calamite: attirano tutto, ogni cosa che fai. Ogni momento. Stanno lì per non essere scordati.

SIGNORA M. Se tu fossi nata in una baracca con le crepe d’umido sul soffitto…

NORA Lo vedi? C’è sempre stato questo fra me e voi: qualsiasi cosa fossi, dovevo dire grazie ai vostri soldi. 

SIGNORA M. E per non dire grazie hai preso il mitra?

NORA Per non guardarmi allo specchio e pensare che sto al gioco.

SIGNORA M. Farebbe ridere se non facesse piangere.

NORA Non ti ho chiesto di capire.

SIGNORA M. Non c’è niente da capire.

NORA Infatti. Stare qui è inutile, non ha senso. (si avvia verso il fondo)

SIGNORA M. Che fai?

NORA Me ne vado. Li chiamo: che vengano ad aprire. (preme il pulsante della chiamata, sul fondo)

Rumore di una sirena nel corridoio, fuori dalla porta.

SIGNORA M. Così è finita.

NORA Non doveva neanche iniziare.

SIGNORA M. Io… avevo alcune cose da dirti…

NORA Se ancora non le hai dette, non erano importanti. 

SIGNORA M. Invece lo erano. Assolutamente.

NORA Le dirai un’altra volta. Fra undici anni. (bussa con forza alla porta) Mi sentite?... Aprite la porta, voglio rientrare!...Ho premuto il pulsante!

La porta non si apre. La Signora ride.

SIGNORA M. Non viene nessuno?

NORA La guardia non c’è, il posto è vuoto. 

SIGNORA M. Con questo caldo. Sarà uscito un attimo. A bere.

NORA L'estate è così. Non funziona niente. La metà è in ferie, l’altra metà se ne frega. Stronzi.

Silenzio.

SIGNORA M. (ridendo, divertita) E’ destino che tu resti. Almeno sembra. Tu dipendi da me, io dallo sbirro: gerarchia di ruoli e comunque siamo tutti in gabbia.

NORA Ti diverte? A me per nulla.

Nora siede per terra, in un angolo. La schiena al muro.
Silenzio.

SIGNORA M. Perché mi guardi in quel modo.

NORA Che modo?

SIGNORA M. Lo sai benissimo.

NORA Guardo la tua faccia.

SIGNORA M. Beh, che ha?

NORA Me lo chiedo. 

SIGNORA M. E’ invecchiata. Solo invecchiata. 

NORA Solo invecchiata?

SIGNORA M. Ti sorprende.

NORA Tu che riconosci d’invecchiare… E’ come se il tuo Dio sbucasse fuori dalle nuvole a dire “non sono immortale”.

SIGNORA M. Lo misi in un libro… “la natura ci scrive in viso: riga su riga- ruga su ruga“…

NORA Non hai imparato ancora.

SIGNORA M. Imparato cosa?

NORA A parlare senza i tuoi romanzi. Senza tirarli dentro, sempre.

SIGNORA M. Io sono i miei romanzi. 

NORA Ah!

SIGNORA M. E loro sono me.

NORA Infatti non esisti. Stai dentro le tue pagine, chiusa, sepolta. E da lì guardi il mondo, come se fosse un’altra cosa.

SIGNORA M. Mentre tu l’hai affrontato, vero? 

NORA Io?

SIGNORA M. Tu, sì. La combattente! 

NORA Finiscila.

SIGNORA M. Tu l’hai guardato in faccia. Senza romanzi, sissignora! L’hai sfidato, eccome. 

NORA Era questa la cosa importante?

SIGNORA M. Ma non ti rendi conto che eravate fuori dal mondo? Come dici di me, sì: esattamente. Io sarei sepolta nelle mie pagine? Bene: tu nelle teorie. Negli ideali, nel progetto! 

NORA (scatta verso la porta e bussa) Secondino!...

SIGNORA M. Il riscatto proletario, il comunismo combattente, la resistenza armata! E’ un pianeta che non c’è. Non esiste: inventato, come i miei romanzi! Vuoi sapere cosa penso? Penso che io e te siamo uguali. In fondo, sì: uguali. Ci fa schifo la realtà: quella vera., quella intorno, quella con cui devi fare i conti, comunque: prima o dopo. Ci fa talmente schifo che – io e te – cerchiamo di scappare. Ci illudiamo di scappare, di farla franca: lasciare la gabbia, come i carcerati con la corda di lenzuola… Io fuggo fra i personaggi, e tu… tu nei vostri piani: quelli come te dicono di cambiare il mondo, ma la verità è che lo rifiutano. E con la testa se ne vanno altrove.

NORA Va bene, forza: dove vuoi arrivare? 

SIGNORA M. A questo: forse puoi uscire di qui. Prima del tempo.

NORA (con sospetto) Va’ avanti.

SIGNORA M. Potresti uscire se solo…

NORA Se solo? Solo cosa?

SIGNORA M. Non far finta di niente: l’avvocato te l’ha detto. Lo so.

NORA Mi ha detto di fare la commedia. Sputare su me stessa, far finta di cambiare. Convertita. Pentita. “Non credo più alla causa: ho sbagliato, riconosco. Siate clementi” …

SIGNORA M. Ritrattare.

NORA Tradire. 

SIGNORA M. Collaborare.

NORA No grazie.

SIGNORA M. Vuoi stare qui? Quanto ancora?

NORA Non sono l’unica.

SIGNORA M. E ti consola? A trent’anni, chiusa a marcire.

NORA (fissandola) Ora mi torna. (pausa) Ora torna ogni cosa… Fu così che il buon avvocato disse alla madre: “Per carità, vada a trovarla. Ci provi lei a convincerla”… 

SIGNORA M. Se anche fosse?

NORA Perdi fiato.

SIGNORA M. E tu? Cosa perdi tu?

NORA Non mi piego.

SIGNORA M. Non sei di ferro.

NORA Non mi piego.

SIGNORA M. Hai una vita e la perdi qui dentro?

NORA Era in conto. Lo sapevo, che ti credi? Io, come tutti. Faceva parte dei rischi: morire ammazzati, finire in galera… Tutto chiaro, fino dall’inizio. Ed io ho accettato.

SIGNORA M. A quell’età? Eri giovane.

NORA Quanto basta per decidere.

SIGNORA M. Troppo giovane! Giovanissima.

NORA Quindi stupida. Non capivo, vuoi dir questo.

SIGNORA M. Dico che a vent’anni ci si butta.

NORA Ero convinta. Ero e sono.

SIGNORA M. Per dimostrare cosa?

NORA Dimostrare niente!... Questo è il fatto: tu continui a credere che la mia scelta – quella scelta – fosse solo contro te. L’hai sempre pensato: una vendetta, un affronto, una rivolta! Per te ogni cosa che facevo la facevo per dimostrarti qualcosa! Non ci riesci a pensare che io vivo per me? Per me! Senza dimostrare nulla, né a te né a nessun altro. Quello che ho fatto, l’ho fatto perché era giusto. E tornassi indietro lo sarebbe ancora, tale e quale se non di più: giusto. 

SIGNORA M. (alzando la voce) Ma cosa? La Rivoluzione? 

NORA (tenendole testa) Giusta.

SIGNORA M. La stella a cinque punte? L’attacco al sistema?

NORA Giusti.

SIGNORA M. (con foga) I mitra! Le bombe!

NORA (quasi gridando) Giusti.

SIGNORA M. Il terrore! Le piazze, gli attentati! 

NORA Tutto giusto! Tutto giusto!

La Signora M. tira un forte schiaffo in viso a Nora.

Silenzio. 

Ora si trovano ai due lati opposti della stanza, come due pugili dopo una ripresa.

SIGNORA M. Scusami. E’ stato più forte di me. Non so cosa… Se ora te ne vai, beh… lo capisco.


Lungo silenzio. Non si guardano.

NORA Certo è strano. Ti fai trovare qui. Parliamo mezz’ora. Ed ho la sensazione che sia tutto finto: falso come non so cosa. Poi d’un tratto mi giri la faccia con uno schiaffo… Ed è la prima cosa vera che succede qui. Senza maschere. Senza discorsi.

Silenzio.

SIGNORA M. (senza guardarla) Ti ho mentito. 

NORA Era chiaro.

SIGNORA M. Non sono qui per una visita. 

NORA Sei qui per convincermi. Ma non collaboro.

SIGNORA M. Non è neanche questo. L’avvocato mi ha parlato, mi ha chiesto di venire. Ma… gli ho detto che era inutile. Se non volevi, non ti avrei convinta. Nessuno può farlo. 

NORA Allora cos’è? La Cornovaglia? Quel tuo romanzo col titolo…

SIGNORA M. “La Gabbia”? Non l’ho scritto. Inventavo.

NORA Allora perché?...

SIGNORA M. Ecco il tuo perché. 

La Signora M. apre la borsa e butta sul tavolo una cartella piena di fogli, un manoscritto.

SIGNORA M. Non lo riconosci? Il manoscritto del tuo libro. “Diario di prigioniera politica”. Sottotitolo: “La Gabbia”… Titolo strano, non trovi?

NORA Come l’hai avuto?...

SIGNORA M. L’ho avuto.

NORA Ti ho chiesto come.

SIGNORA M. Fammi capire: davvero pensavi che non mi sarebbe arrivato? 

NORA Francamente no.

SIGNORA M. Mandi il tuo manoscritto – col tuo nome – a uno dei miei editori e non ti aspetti che me ne parli?

NORA E’ il tuo editore?

SIGNORA M. Da trent’anni.

NORA Scordavo. Tu sei dovunque… come Dio.

SIGNORA M. Ad ogni modo, io il tuo libro l’ho letto. Eccome se l’ho letto. Perché questo libro è tuo, no?

Silenzio. Si fissano.

NORA E’ mio.

SIGNORA M. Perfetto: sono qui per questo.

NORA E perché ci hai messo tanto? 

SIGNORA M. Orgoglio. Credo fosse solo quello.

NORA Dev’esserci dell’altro.

SIGNORA M. Non credo. E’ che fra me e te la strada è sempre a curve. Mai diretta. Mai. E’ un fatto strano, non me lo spiego: ci sono persone fra cui la verità è impossibile. Affrontarsi, parlarsi chiaro: non ci si prova nemmeno. Tiri fuori un’invenzione dopo l’altra, cambi la realtà, fingi, metti e levi la maschera finché un giorno ti resta attaccata. Così si arriva a un punto in cui tutto è contorto, quasi per natura. Prendersi in giro diventa una regola. La regola. Le menzogne si ammassano sulla strada e ti ci trovi incastrato dentro: prigioniero di tutte le balle che ti sei inventato. Anche questa forse è una gabbia. E non se ne esce. 

Silenzio.

NORA Hai un’altra sigaretta?

SIGNORA M. Le mie non ti piacciono. 

NORA Fa lo stesso. Ce l’hai?

SIGNORA M. Puoi tenere il pacchetto. 

Mette il pacchetto sul tavolo, Nora si accende una sigaretta.

NORA Racconta…

SIGNORA M. I fatti stanno così…Un bel giorno il mio editore mi chiama e dice “Ho qui un libro di sua figlia”… Penso a un errore, perché mai e poi mai tu scriveresti… Lui insiste. Io rido, gli spiego chi sei, gli dico che niente e nessuno ti metterebbero in mano una penna perché tu vuoi agire, detesti pensare… Mi chiede da quanto non ti vedo. Rispondo undici anni. “Senza un contatto”? “Senza un contatto”… “Allora col tempo sua figlia è cambiata perché ho un manoscritto”. Detto fatto: me lo spedisce. Fino all’ultimo resto convinta che non può essere. Apro la busta: “Diario di prigioniera politica”. Chiudo la porta, mi siedo, lo leggo… E ti confesso: non ero tranquilla, l’unica idea che mi ronzava in testa era che a un tratto mi stavi sfidando. Tu contro di me, nel mio stesso campo. Tu con le mie armi, tu col mio mestiere, tu che provavi – è stupido, lo so – provavi a rubarmi qualcosa. Ciò non toglie che leggessi. E con curiosità, molta. Sapevo bene che se era uno schifo avrei tirato un sospiro di sollievo. Se invece era bello, una parte di me avrebbe detto “purtroppo”. L’ho letto in due ore.

NORA E allora?

SIGNORA M. Allora purtroppo. (pausa) E’ bellissimo.

NORA Mi fai ridere. Se fosse vero quel che dici, sapresti bene cosa c’è dentro quel libro. Sapresti cosa ci ho scritto. E guarda che non tutto ti andrebbe a genio.

La Signora M. apre il manoscritto ad un dato segno. Legge, interrompendo l’altra:

SIGNORA M. “…mia madre è il ritratto di ciò che non vorrei assolutamente essere. Nessuna più di lei rappresenta il modello opposto al mio modo di esistere e concepire l’esistenza. Mia madre fa parte di quel gruppo maggioritario di intellettuali e artisti che a parole dicono di voler cambiare le cose ma nei fatti sostengono il sistema. Lo sostengono con quella rete fitta di rapporti politici che li mantiene a galla. Un pantano di accordi personali, cordate di simpatie, reciproci favori che trasformano l’arte da voce critica di un popolo a giullari di un’elite. Mi chiedo come possa essere autentica quella presunta cultura che si regge sulla compiacenza, sull’inchino, sull’obbedienza – più o meno dichiarata – a logiche politiche che niente hanno a che fare con una vera cultura popolare. Chi ti paga non vuol essere accusato, ed è il principio per cui la cultura di regime è innocua, serva, schiava. Schiava ricca, ma comunque schiava. Il sistema compra ciò che vuole controllare. E per questa politica del consenso, l’unico modo per imbrigliare la cultura non è sabotarla, ma – per assurdo – finanziarla…” Alludi a questo? 

NORA Alludo a questo.

SIGNORA M. Ci ho fatto un segno, per ricordarmelo. 

NORA E’ quello che penso.

SIGNORA M. Beh, non hai usato mezzi termini.

NORA L’hai detto tu che era bellissimo.

SIGNORA M. Lo è, infatti. Non ha secondi fini, è oggettivo, essenziale. Drammatico.

NORA Ma tu non ne esci molto bene.

SIGNORA M. Quindi per te sono una schiava.

NORA I tuoi romanzi stanno in libreria. Qualcuno li paga: non puoi tradirlo. Il tuo editore, come si chiama?

SIGNORA M. Treves.

NORA Se tu scoprissi che Treves è un corrotto, lo metteresti in un romanzo? Non dire di sì.

SIGNORA M. Lo scriverei per un altro editore: tutto qui. Voce del dissenso, si chiama democrazia.

NORA Davvero? E se il sistema è marcio? Se fa schifo nell’insieme? Se devi condannarlo, tutto? Allora chi ti pubblica, eh? Chi ti paga perché tu lo faccia a pezzi? 

SIGNORA M. Se la gamba è in cancrena si taglia.

NORA E’ l’unico modo.

SIGNORA M. Mi sono fatta anch’io la stessa domanda. 

NORA E la risposta?

SIGNORA M. Non ho mai scritto niente che desse fastidio.

NORA Appunto. Per questo sei famosa.

SIGNORA M. Forse. (pausa, poi quasi a se stessa, ma senza alcuna gravità) Forse hai ragione.

Silenzio.

NORA (fissandola) E comunque se tu l’avessi letto veramente, sapresti che…

SIGNORA M. …Che non è finito? Vuoi dir questo?

NORA L’ho lasciato a mezzo, sì. Di punto in bianco, ho smesso di scrivere. Lo facevo per passatempo: sempre meglio che contare i ragni sul soffitto. Poi mi sono seccata: non serve a niente. C’è una tizia in biblioteca, mi ha detto “Spedisci quello che hai scritto: magari piace”. Ha continuato a insistere per sei mesi, tutti i giorni all’ora d’aria: alla fine l’ho fatto perché stesse zitta. Così, senza pensarci. Comunque se sei venuta fin qui per questo, sappi che non me ne frega niente .....

Nora lancia il manoscritto per aria. Una pioggia di fogli cade sulle due.

SIGNORA M. L’avrai anche fatto per passare il tempo, ma l’impressione è un’altra… Con la scusa di scrivere ti sei guardata dentro. E’ chiaro: salta agli occhi. Scrivere fa quest’effetto a volte: ti dà il coraggio di chiederti chi sei. Tu qui l’hai fatto. Non ti vedo da undici anni ma ti conosco. So chi sei e come sei. So che la tua paura è sempre stata scoprirti debole. Vuoi essere rigida. Dura. Tutta d’un pezzo. Ti sei data alle Brigate Rosse perché non sopportavi l’idea di essere sconfitta. E non avere una risposta per te era una sconfitta. Arrenderti? Non lo faresti mai. Pur di non sentirti debole, hai preso un mitra in mano… Nel manoscritto c’è tutto questo. Ma anche il resto. (pausa, fissandola) Qui sei umana: dal vivo non lo sei.

NORA Sei venuta fino qui per questo?

SIGNORA M. Per questo. Per dirti di scrivere ancora. Farlo per te.

Silenzio.

NORA Te ne vai?

SIGNORA M. Se non voglio perdere il treno, l’ora è questa.

NORA Non credo che scriverò. Non ne ho più voglia.

SIGNORA M. Fa’ come vuoi.

La Signora M. preme il pulsante di chiamata.

NORA Continuo a non capire.

SIGNORA M. Passerai i prossimi giorni a chiederti perché sono venuta.

NORA Vorrei saperlo. Averlo chiaro.

SIGNORA M. Le cose più belle sono quelle non chiare. Dove c’è tutto da capire.

NORA Cos’è? Una delle tue frasi?

SIGNORA M. Davvero non te la ricordi? Sta scritta là dentro, nel manoscritto.

Si apre la porta, scorrono le sbarre.

SIGNORA M. Continualo. (la fissa un solo attimo) E non farlo per me.

Nora non risponde.
La Signora M. fissa Nora per un istante. Poi esce.
Si chiudono le sbarre.

Nora resta sola. Si avvicina al tavolo. 
Guarda il pacchetto di sigarette lasciato dalla madre. Ne prende una. 
La accende. Quindi si siede.
Rimane ferma a pensare, immersa nel silenzio, mentre il fumo della sigaretta le sale fra i capelli.
Poi gira lo sguardo e fissa il manoscritto appoggiato dall’altra parte del tavolo.
Su questo sguardo, buio.