I NASTRI

Commedia in due atti di

Salvino Lorefice

(Dal romanzo L’INCISIONE di Giorgio De Simone – Rizzoli )


Personaggi:     

    Stefano Levanzo
    Martha Ross
    Marco Galba
    Nora Galba
    Basilio Mattei
    Vittorio Santorini
    Tom Levanzo


ATTO PRIMO
Scena prima

New York. Grande camera di un lussuoso albergo. Sera. Stefano Levanzo, reggendosi su due grucce, fa il suo ingresso nella camera. Ha una gamba ingessata e viene aiutato da Martha Ross.

Martha: Ancora un piccolo sforzo, poi dovrà riposare. Il dottore ha detto che deve stare con la gamba orizzontale per quattro giorni, poi potrà uscire.
Stefano: Ma cosa mi sono rotto, esattamente? Una tibia o che altro? Da quando quel carrello portabagagli, all’aeroporto, mi è venuto addosso non capisco nulla.
Martha: Riposi, ora.
Stefano: Per fortuna c’era lei ad attendermi. Mi è stata di molto aiuto: in ospedale, per l’albergo…
Martha: ho prenotato una camera grande, come vede. Essendo costretti a lavorare in albergo ci voleva una camera spaziosa ed ho provveduto.
Stefano: Già, dobbiamo lavorare. (Ironicamente:) Vuole che cominciamo ora, subito?
Martha: Riposi, le ho detto.
Stefano: Mi sono rotto la tibia, vero?
Martha: Sì, ma in modo netto. Mi sono documentata: non c’è bisogno di trazione. Per questo l’hanno dimessa subito. Adesso lei deve collaborare con la sua tibia rotta.
Stefano: Per lei l’incidente va preso col sorriso sulle labbra, dev’essere superato al più presto. Farmi da infermiera per lei è lavoro perduto. O sbaglio?
Martha: Tutti i lavori sono perduti quando non piacciono o non si fanno con entusiasmo.
Stefano: Lavorare per le Edizioni dell’Oracle per lei è entusiasmante?
Martha: Signor Lèvanzo, una volta anch’io ero diversa: a diciassette anni, quando mi piacevano i Beatles e mi vestivo color arancione buddista. Portavo riccioli rossi spioventi, semidisfatti, avevo sempre una faccia pallida e leggevo libri magici, esoterici. Compravo dischi indiani che ascoltavo sprofondata su comode poltrone di plastica, sotto riflettori di luci psichedeliche.
Stefano: Un bell’inizio! È proprio un bell’inizio per una ragazza destinata a consumarsi nell’immaginazione.
Martha: Un inizio che però non ebbe seguito, perché poi ho avuto due conversioni. La prima, letteraria. Ho trovato da scrivere sul Greenwich Village Voice, un foglietto stampato male, poche copie settimanali. Ma l’aveva fondato Norman Mailer, capirà. E ho scritto anche sull’East Village Other. Ho conosciuto Allen Ginsberg, Gregory Corso e Jack Kerouac. Sono arrivata a mettere le mani nell’archivio di Lawrence Ferlinghetti, una semplice scatola di scarpe, e ho venduto persino i suoi volumetti non rilegati.
Stefano: E la seconda conversione?
Martha: Ho capito che si poteva essere anche anti hippie, anti giubbotti, anti capelli lunghi, anti luci psichedeliche, volendo.
Stefano: Volendo?
Martha: Volendo fare qualcosa, impegnarsi. Contribuire, collaborare col prossimo. Bisognava rientrare. Il Greenwich Village dopo un po’ non era più quello, era morto. Nemmeno le teorie Zen mi andavano più, nemmeno i City Light Books di Ferlinghetti. E oggi, oggi c’è altro da fare.
Stefano: Ad esempio entrare nelle geometrie dello establishment, lottare per l’ideale superamericano, seguire corsi di aerobica e confondersi alla popolazione di Manhattan. È questo che intende?
Martha: No. Non è come dice lei. Certe cose bisogna viverle per superarle. Non crede?
Stefano: Ma lei, non è di quelle persone chiamate a giudicare un uomo dalla quantità di lavoro che produce?
Martha: No. Adesso me ne vado, la lascio riposare.
Stefano: Certo, deve rimettermi in piedi al più presto e farmi rendere, non è così?
Martha: Se ha bisogno di qualcosa, se le viene qualche idea mi telefoni. (Esce.)
Stefano: Qualche idea? Già, le mie idee valgono, vero? Il dottor Santorini mi paga profumatamente per partorirle. Oggi le multinazionali delle comunicazioni pagano profumatamente le idee. E io ne ho di ottime. Di quelle che fanno concludere ottimi affari.

Scena seconda

Camera d’albergo. Mattino. Stefano è a letto. Dopo aver bussato, entra Martha con dei panini.

Martha: È sveglio?
Stefano: Umh!... Credo di sì.
Martha: Basta entrare in uno snack nell’ora del lunch e i grandi, significativi spazi americani sono perduti per sempre.
Stefano: Da lei non me la sarei mai aspettata una frase simile.
Martha: Non lo penso, infatti. È una frase che direbbe lei. Dormito bene?
Stefano: Una notte da invalido.
Martha: Si ricordi che non esiste la malattia, ma soltanto il malato. Le ho portato panini al prosciutto e caffé.
Stefano: Martha, lei è una fata.
Martha: Per i panini?
Stefano: No, per la macchina da scrivere che è riuscita a trovare con caratteri italiani.
Martha: Mangiamo, ora. Chi lavora deve mangiare, chi consuma energie deve mangiare.
Stefano: Panini al prosciutto… tsé!
Martha: Mangi. Dobbiamo lavorare, oggi.
Stefano: Non mi sento bene.
Martha: Crede di poter pensare, almeno?
Stefano: Lo credo fermamente. E se mangio poco penso meglio. (Butta via il panino.)
Martha: Avevo pensato di ripassare oggi, insieme, le idee generali. E ciò per due motivi: per vedere se le mie idee generali combaciano con le sue e, secondo, perché lei possa poi riflettere e lavorare.
Stefano: In cosa crede lei, Martha?
Martha: Credo nel lavoro che faccio.
Stefano: E lo ritiene un bel lavoro?
(Martha non risponde.)
Stefano: Vuole un sorso di wisky?
Martha: Non bevo. Mai, quando lavoro.
Stefano: E va bene: niente bere! Quali sono le istruzioni?
Martha: Allora vediamo (prende un block notes). Ho qui segnato tre punti. Glieli enumero e mi dirà se corrispondono a quanto lei ha in mente.
Stefano: Va bene.
Martha: Punto primo: si chiede di studiare un programma per una rete televisiva di cui il nostro Gruppo è diventato azionista. Questa rete televisiva – che si chiama Rùak e che in ebraico vuol dire spirito – è seguita attualmente da cinque milioni di spettatori in dodici stati americani. Obiettivo del nostro Gruppo è di triplicare l’ascolto nel prossimo anno televisivo. Ci siamo?
Stefano: Ci siamo.
Martha: Ed ecco il secondo punto. È opinione del nostro Gruppo che la televisione sia un mezzo di comunicazione di massa ideale per diffondere oggi una nuova cultura.
Stefano: Nuova cultura? Di che tipo?
Martha: Di tipo spirituale. Ma mi lasci concludere. Le obiezioni le farà più avanti. Facciamo parte di un’azienda che si propone la diffusione di una cultura spirituale attraverso i grandi mezzi di comunicazione. Abbiamo cominciato a operare con i giornali, abbiamo continuato con la radio, adesso è il momento della televisione. Sulla base di accordi finanziari presi con altri Gruppi, disponiamo di capitali freschi che devono essere impiegati per questo scopo.
Stefano: Diffondere la cultura spirituale negli Stati Uniti.
Martha: Diffonderla cominciando da un programma che ci viene chiesto – che le viene chiesto – di studiare. Scopo di questo programma è di interessare il telespettatore al discorso spirituale.
Stefano: In altri termini, usare i pollici televisivi come pulpito.
Martha: Se vuole metterla in questi termini… Comunque: Accendere la curiosità per la cultura dello spirito è lo scopo del programma.
Stefano: E dove sarà diffuso, questo programma?
Martha: Questo è il terzo punto. Noi siamo dell’opinione che il programma potrà e dovrà essere ritrasmesso in Italia quando avrà ottenuto qui, in America, il successo auspicato.
Stefano: Se ne vada. Mi lasci pensare in pace.
Martha: Come dice? Mister Levanzo, che le prende?
Stefano: Dico che può andare. Il suo dovere lo ha già fatto.
(Come materializzatosi, entra in scena Vittorio Santorini. Chiama in disparte Martha, che gli si avvicina, e le parla come se le desse delle istruzioni.)
Vittorio: Fammi lavorare Levanzo e non irritarlo, tienilo sotto torchio, è pieno di scrupoli, non mollarlo. Il tuo lavoro è stargli addosso. Fagli uscire la trasmissione. Ne ha almeno dieci in corpo, lo so, ma farà un sacco di storie, le ha sempre fatte. Tu stagli addosso: non ti conosce e può darsi che ti tema.
(Martha esce. Come se fosse appena entrato, Santorini si rivolge a Stefano.)
Vittorio: Caro Stefano, come stai? Appena saputo dell’incidente son subito partito. Cosa ti sei fatto?
Stefano: Stai tranquillo, non è niente. Ma non mi dirai che sei venuto dall’Italia per me!
Vittorio: Nooo! Solo che dovevo andare a Chicago e son passato da New York. Per fortuna è solo la gamba.
Stefano: Già, mi sono rotto solo la gamba, non la testa.
Vittorio: Via, Stefano, non fare quella faccia. In fondo ti pago, no?
Stefano: In Italia! Se lì le mie idee sono buone, qui, in America, devono essere ottime per te, proprietario delle Edizioni Oracle, libero tempio multinazionale della comunicazione.
Vittorio: Cos’è, altri soldi che vuoi?
Stefano: Oh, non capisci. Non mi hai mai capito.
Vittorio: Ma cosa c’è da capire?
Stefano: Senti, che roba è questa trasmissione che vuoi mettere in piedi? Di che si tratta? Per cosa vuoi sfruttarmi questa volta?
Vittorio: Oh, così mi piaci: curioso. Dunque: ma non te lo avevo detto?
Stefano: No.
Vittorio: Ah, no. Hai ragione: te ne avevo solo accennato. Ma… miss Martha Ross ti assiste?
Stefano: Sì, anche troppo. Ma certe cose me le puoi spiegare solo tu.
Vittorio: Beh, gli accordi precisi li abbiamo conclusi, firmati e controfirmati, solo due giorni fa, per questo non ho potuto essere più chiaro, prima.
Stefano: Ebbene, ora che avete concluso?
Vittorio: Abbiamo fatto accordi con un paio di Emirati arabi. L’affiliata televisiva che abbiamo adesso non è molto, ma con questi nuovi capitali deve crescere. Ci abbiamo messo le mani dentro, insomma. Stefano, possiamo farci tutto quello che vogliamo; puoi creare tutto quello che vuoi per il monte-tempo che è dell’Oracle. Gli arabi hanno l’altra metà del tempo. Sanno benissimo chi siamo noi. Sanno che abbiamo Gesù Cristo, la Trinità, il Vaticano. Loro hanno Allah, Maometto, il Corano e chesso io. Ci dividiamo lo spazio come ci siamo dividi i pacchetti azionari: in assoluta lealtà. Tu lo sai, l’unica democrazia che sta in piedi è quella economica. Mi ascolti?
Stefano: Ti ascolto, ti ascolto.
Vittorio: Ma a te di questi accordi non interessa niente. I soldi sappi che ci sono, se è questo che pensi. Ne abbiamo. Escogita qualcosa di classe. Ma anche popolare. Cultura spirituale, ecco. Cultura di classe, spirituale e popolare.
Stefano: Cultura spirituale con classe? E per sovrappiù popolare?
Vittorio: Stefano, insomma, qualcosa che si capisca. Non un pastrocchio intellettuale come quelli che si fanno in Italia. In America la gente vuol consumare e lo spirito non gliel’hanno mai dato come intendo io. Mi capisci? Storia, sociologia, fantapolitica, fantascienza: queste cose son tutte consumi, in America. Noi dobbiamo fare lo stesso con lo spirito. È chiaro che non so come dobbiamo fare, sennò non avremmo bisogno di te. Io ci conto, su di te. Caspita se ci conto! … Pensi di farcela? … Hai già delle idee? No, non rispondere, non voglio sapere. Hai capito, allora? Se la cosa viene bene, possiamo farci dei bei soldi: stampare opuscoli, album, dischi, pupazzi. E poi trasferiamo tutto in Italia. Hai capito?
Stefano: Ho capito. Eccome, se ho capito!
Vittorio: O.K., ti lascio. Tieniti buona la Ross, mi raccomando. Rivolgiti a lei per tutto. (Esce.)

Scena terza

Studio di psicanalista. Stefano è in seduta analitica. È presente Basilio Mattei, psicologo e amico di Stefano.

Mattei: Lo sai che tutti noi abbiamo un doppio dentro, no? Ecco, tu devi buttar fuori il tuo doppione, Stefano. Te lo dico come tuo psicanalista e come tuo amico.
Stefano: Ma come posso fare? Mica lo vedo, e lo prendo, e lo butto fuori, il mio doppio!
Mattei: Ma ci sarà pure qualcosa che non sei più disposto a tenerti in corpo, no?
Stefano: Sì, il mio personaggio di una volta. Forse.
Mattei: Bene: prova a buttarlo fuori.
Stefano: E come?
Mattei: Semplice: puoi farlo con un registratore, per esempio. Prendilo e parlaci dentro, Racconta, registra.
(Stefano si mostra confuso, incredulo, indeciso.)
Mattei: Parliamoci chiaro, Stefano. Tu ti rifiuti di collaborare, ma un uomo come te, sano e intelligente, che si è impedito per vent’anni di andare in America dopo che ha divorziato e che, soprattutto, si rifiuta di conoscere il figlio, è normale che si senta perseguitato dal suo senso di colpa. È classico.
Stefano: Ma io non mi sento colpevole.
Mattei: Ecco: una colpa che ti rifiuti di ammettere razionalmente. Ma ci pensa il tuo subconscio a segnalartela.
Stefano: Vuoi dire che il mio subconscio vuol vedere mio figlio?
Mattei: No, tu lo vuoi vedere. Ma il tuo subconscio ti ricorda una colpa che tu razionalmente hai cancellato e t’impedisce di vederlo. Te lo impedisce, però vuole che tu lo veda.
Stefano: Non capisco.
Mattei: Allora: quasi certamente è a tuo figlio che dovresti rivolgerti. Fa’ conto che tuo figlio sia l’occhietto della telecamera. È lì che devi guardare. Devi rivolgerti a tuo figlio. Tu probabilmente ti senti colpevole verso di lui per qualcosa che hai fatto al momento in cui doveva nascere. La sua nascita era troppo importante per te. Tu in tuo figlio pensavi di riprodurre un te stesso quasi perfetto. Però non ci sei riuscito e così, poi, ti sei rifiutato di vedere il risultato. In realtà, per una colpa che tu hai commesso nel momento in cui lui doveva nascere, tuo figlio per te non è mai nato.
Stefano: Invece mio figlio è nato ed è stata mia moglie che mi ha praticamente impedito di vederlo.
Mattei: Questa è la tua giustificazione. E poiché è banale, insostenibile, il tuo subconscio ora la rifiuta in blocco.
Stefano: Un registratore, dici?
Mattei: Sì. Gridaci o piangici dentro tutta la tua rabbia, sentimenti e ciò che vuoi. Sembra una sciocchezza, ma è un metodo efficace. L’uomo si inventa e si scopre parlando.

Scena quarta

Camera d’albergo. Notte. Stefano tira fuori dalla valigia un registratore, vi inserisce una cassetta magnetica, traffica coi fili e gli spinotti.

Stefano (provando): Pronto, pronto… Eh, già, è come se uno si sfogasse. Parlare a se stessi è come se uno si sfogasse. (Traffica ancora con i tasti e comincia a registrare) A Tom, che adesso ha diciannove anni. Tom, anche se non ti conosco, tra tutte le persone a cui potrei parlare di me, tu sei l’unico che ha diritto di ascoltarmi. Sono tuo padre. Dico meglio: avrei dovuto essere tuo padre. Tu sai meglio di me che non lo sono stato e che non ci siamo mai visti. Non puoi ricordare. (Preme il tasto dello STOP. Porta indietro la registrazione senza riascoltare.) No, non va. Cancelliamo tutto.
(Riprende a registrare:) Tom, sono a New York. Dopo vent’anni sono venuto a trovarti. Che ne dici? All’aeroporto mi sono rotto una gamba. Sono in America per pensare a una trasmissione televisiva che dovrebbe parlare dello spirito. A me sembra una cosa strana e assurda, eppure Vittorio Santorini, il capo, è convinto che oggi sia venuto il momento di vendere lo spirito. … Mi accorgo di essere bloccato, Tom. Se non ti vedo sono fermo, finito. La società non è cresciuta, tu sì. Sono qui per lavorare, Tom, ma perché un uomo deve lavorare? Me lo sono sempre chiesto: “Il lavoro rende liberi”: questo era scritto sui campi di concentramento nazisti, però potrebbe essere scritto anche qui, alle porte di Manhattan. E anche tu sarai stato allevato come un bravo ragazzo convinto che il lavoro rende liberi. … Sai? Nora, tua madre, mi ha mandato delle foto di quando avevi diciassette anni, e nei tuoi capelli ho riconosciuto i miei capelli di una volta. Anche l’altezza e le spalle… Tutto. È una faccia intelligente, la tua.
(STOP al registratore)
E proprio perché ha una faccia intelligente non posso raccontargli storie. Che dirgli, che la mia decisione è stata frutto di un processo mentale e perciò, razionalmente, ho deciso di non vederlo per vent’anni? Oppure che la mia coscienza ha scavato una buca e io mi ci sono nascosto dentro fino a oggi, quando scopro che il sentimento è inevitabile perché è energia che tutto muove? No, non posso parlargli così. Occorrono segni, fatti. Vediamo… Dirgli: c’era una volta Stefano Levanzo, che a diciannove anni andò in America. Telefonò alla madre e disse: vado a New York. Sì, sì, forse così, raccontandogli dei nonni paterni che non ha conosciuto.
(Rimette in funzione il registratore e incide:) Tom, ti parlo adesso di mia madre e mio padre. Dovevi sentire mia madre quando le telefonai per avvisarla che andavo a New York. Non avevo trovato il coraggio di dirglielo a voce e così le telefonai. La mamma pensava che io dovessi crescere come una pianta, la quale se non dà frutti non importa purché lei potesse innaffiarla e avercela vicino. Perciò andare a New York per lei voleva dire restare intrappolato in qualche strano traffico. A papà glielo spieghi tu, mamma, le dissi. Fagli capire che è importante. A quel tempo la mamma cominciava ad invecchiare. Mio padre lavorava in banca e sia io sia lui sapevamo che in banca, io, non ci avrei mai lavorato. Papà, lui, credeva nella forza morale. Per lui, se si sta dodici ore di fila a lavorare, quella è forza morale; se si è pazienti e si sopportano le ingiustizie, quella è forza morale. Lavorava in una banca di provincia e mia madre lo seguì. Io non mi volli staccare da Milano: pensavo che solo in una grande città avrei avuto delle occasioni. E più una città è grande più le occasioni aumentano. Ero figlio unico e a fine mese mi davano una somma. Grazie a quelle somme potevo pagarmi il viaggio a New York… vent’anni fa.
(STOP al registratore. Stefano va a letto.)

Scena quinta

Camera d’albergo. Mattino. Sono presenti Martha Ross e Stefano Levanzo.

Stefano: Ho pensato al nostro lavoro, Martha.
Martha: Davvero? Mi dica.
Stefano: Sono stato spesso molto attivo nella mia vita e ho sbagliato. Perché essere molto attivi vuoi dire non fermarsi a pensare.
Martha: Vada avanti.
Stefano: Ho pensato che dalla cultura laica dovremmo averne piene le scatole. E anche della ragione. Almeno io. Lei sa chi sono io?
Martha: Chi è lei? Mi è stato descritto come un uomo che ha delle buone Idee. Un ideologo, diciamo.
Stefano: Allora, come ideologo, dovrei essere capace di elaborare ideali, princìpi-guida, valori: diciamo, una concezione del mondo al riparo del sentimento e della passione. Le sembra possibile? Ma, ammesso che lo sia, sa le difficoltà che ha oggi l’uomo di credere nello spirito?
Martha: Certo che lo so e anzi, guardi, dalle nostre statistiche risulta: dunque… (legge da un taccuino): Scienza, sofferenza, assenza di significati. Queste tre cose rendono difficile la vita dello spirito. Occorre allora aggrapparsi a delle Idee-forza.
Stefano: Non proprio Idee-forza, bensì qualcosa cui aggrapparsi.
Martha: Se ciò le semplifica il problema, sì.
Stefano: In Italia, in questo momento non si fa altro che rendere semplici i problemi. E in realtà li si complica. Lo spirito è qualcosa di inarrestabile, prorompente…
Martha: Ma l’uomo è necessario. La guida. Il prescelto.
Stefano: E sarei io l’uomo scelto?
Martha: Parliamo della trasmissione. A quanto sembra il mio schema di lavoro non le è piaciuto. Me ne proponga lei un altro.
Stefano: Dunque: dobbiamo fare una trasmissione che convinca l’americano medio a pensare all’anima sua.
Martha: Non proprio.
Stefano: Diciamo: che lo convinca a ripensarsi come uomo, come essere infinito. Boh, non mi sento mandato qui per far rinascere la spiritualità umana. Non sono un inviato, un profeta.
Martha: Io sono convinta che anche per il nostro lavoro dobbiamo domandarci se l’uomo oggi è libero. Sappiamo che il condizionamento che subisce da mezzi di comunicazione, partiti, sport, famiglia, mode, luoghi comuni è quasi totale. Ho detto quasi: e spiego perché. È stato calcolato che tutto ciò si porta via solo un settanta per cento dell’individuo. Rimane un trenta per cento che noi dobbiamo salvare.
Stefano: Salvare?
Martha: Sì, occupando prima di altri questo spazio.
Stefano: Occuparlo?
Martha: Spingere l’individuo a interessarsi dello spirito per il trenta per cento di spazio libero che mentalmente gli rimane. È chiaro?
Stefano: Non solo chiaro, ma perfino onesto, detto così. Trenta per cento, ha detto?
Martha: Sì, trenta per cento.
Stefano: Ma quale individuo, benché povero e infelice, oppure ottuso e decerebrato, non vorrà tenersi per sé questo trenta per cento?
Martha (spazientita): Senta, Levanzo. È stato calcolato che il trenta per cento di cui parliamo non è assolutamente sfruttabile con beni materiali. L’individuo moderno rigetta beni materiali che lo coprano oltre il settanta per cento. Non solo: col tempo li rigetterà oltre il sessantacinque, il sessanta, speriamo. Ciò che conta è che in questo momento sappiamo di avere a disposizione un trenta per cento come “terra di nessuno”.
Stefano: In cui dobbiamo entrare prima di altri. Cosicché è chiaro, a questo punto, che lo spirito di cui dovrei occuparmi è solo una merce che raffinate indagini statistiche suggeriscono di produrre.
Martha: I problemi dello spirito sono sempre stati spiegati male, in questo Paese. Bisogna fare di meglio.
Stefano: Spiegare lo spirito? E la Chiesa cosa ha fatto, in questo Paese, finora?
Martha: Qui le Chiese sono tante, non c’è solo la chiesa cattolica.
Stefano: E perché questa storia non provate a trattarla con una di queste Chiese? Perché proprio con me?
Martha: Levanzo, è lei che è stato incaricato di fare questo lavoro.
Stefano: Ho capito: il trenta per cento nessuna Chiesa lo accetterebbe mai. Non si accontentano. Vogliono il cento per cento. Tutto l’individuo, sennò niente. Caspita! spirito. Mi sarei lasciato affittare per produrre spirito.

Scena sesta

Flash back. Stefano rievoca una conversazione con Vittorio Santorini.

Vittorio: Va bene, hai ragione. Sai cosa faccio? Ti licenzio. Colpa mia. Ti licenzio e ti prendo come consulente. Ti pago a cachet. Le cachet du génie. Guadagnerai molto di più e farai quello che vuoi. A proposito, visto che vai in America, comprami una buona tintura per capelli. Guadagnamo dagli otto ai dieci anni con una buona tintura. E poi in America ti terrà compagnia una mia bellissima collaboratrice, Martha Ross, si chiama.
Stefano: Ti dico che non ci vado, in America.
(Sullo sfondo si intravede la figura di Basilio Mattei, che scambia un eloquente sguardo con Stefano.)
Stefano (a Santorini): E sentiamo: cosa dovrei andarci a fare in America?
Vittorio: Non te ne preoccupare, per ora. Martha Ross ti metterà al corrente di tutto, a New York. Stai tranquillo, si tratta di spirito, un campo in cui tu sei un esperto. Il mondo è diviso in tanti spicchi, affettato. Ogni spicchio una branca. Storia, fantapolitica, sociologia, romanzi rosa… e poi lo Spirito, uno spicchio che è la somma di tutti gli altri. Dobbiamo aggiungercelo noi. Eh, eh! una società non può fallire se si sottopone a esperimenti che diano alti profitti.

Scena settima

Camera d’albergo. Giorno. Stefano è solo. Passeggia nervoso e indeciso. Poi si siede e forma un numero telefonico.

Stefano: Pronto? Sono Stefano Lèvanzo. È in casa Mrs. Nora Galba? … Grazie, attendo… Come? non è in casa? Per favore, quando torna dica che ha telefonato il suo ex marito. Mi trovo a New York, all’hotel Embassy. Mi faccia richiamare. Grazie.

Scena ottava

Camera d’albergo. Giorno. Stefano è al registratore.

Stefano (registrando): Tom, il primo animale americano che vidi a New York, quando ci venni la prima volta, fu una farfalla. Stava appesa a una vetrata dell’aeroporto, in pieno sole, le ali color cobalto appena oscillanti e le sue antenne elastiche tastavano il vetro. Ad attendermi all’aeroporto, vent’anni fa, c’era Nora. Con la sua auto era venuta a prendermi per portarmi a casa sua, da suo padre. Ci arrivammo dopo un lungo tragitto, tra le auto di New York prima, e sul traghetto che ci portava a Staten Island poi, dove respirai un’elettrizzante aria marina. Ad attenderci oltre il cancello di una villa c’era un uomo, Marco Galba, il padre di Nora. Scultore.

Scena nona

Casa-studio di Marco Galba. Molte sculture, attrezzi e lavori ancora a metà.

Stefano (registrando, mentre entra Marco Galba): Entrando in casa mi accorsi che il suo lavoro in America era stato fruttuoso: si capivano dalle sculture i periodi creativi di Galba: il periodo Maya, il secondo periodo, di vena surrealista, il periodo di ricerca, per far battere i cuori.
Galba: Ora sto lavorando con legno, colla, chiodi, pennelli, creta e barattoli di birra schiacciati. Io ho cercato di evitare la trappola di stili derivati.
Stefano (registrando): Non stava bene. Un giorno Nora mi manda un cablo per dirmi che suo padre non ce la fa – avevo visto Nora solo poche volte, allora, a Firenze –. Io parto, ma quando arrivo la crisi del padre era già passata. Ma ormai ero lì, in America. Ed eccomi osservatore di tre periodi artistici di uno scultore-pittore, padre di una ragazza che mi piace ma conosco poco e al cui richiamo non ho resistito. Era amore, Tom.
Galba: Nora è appena salita a prepararti la camera.
Stefano: Non vorrei essere di disturbo…
Galba: Disturbare? Questa casa è così grande che in due spesso non ci troviamo: credo che mia figlia sia fuori e invece è in casa. Quando c’era mia moglie Esther, lei sì che sapeva sempre dove eravamo. Ci sentiva senza bisogno di vederci.
Stefano (registrando): Quella sera cenammo all’italiana. In mio onore, mi disse Nora. Risotto ai frutti di mare, costata, frutta e vino toscano. Il giorno dopo raggiunsi mio suocero nel suo studio: stava già lavorando. Tutto, lì dentro, odorava di vita. Galba era un uomo che scolpiva, dipingeva, partoriva senza posa. Lui era giovane dentro, giovanissimo per me. E non so perché mi venne in mente mia madre, che mi braccava: un lavoro, un lavoro fisso, con lo stipendio a fine mese, questo voleva. Uno di quegl’impegni dove t’ammali d’ipocondria. E tutto questo lo voleva per me, per il mio bene, per risparmiarmi delusioni e amarezze, domani. Galba non era un professore o un dottore, ma sapevo che mi avrebbe dato qualcosa.
Galba: E allora, Stefano, che mi dici di mia figlia?
Stefano: Le voglio bene, ma non riesco a giudicarla. Mi piace perché è splendida e fresca.
Galba: Io sono molto attaccato a Nora. Amare troppo è un difetto, lo so, ma non posso farci nulla e se muoio voglio morire innamorato. Nora non è serena. Mia moglie è morta e abbiamo sofferto molto, ma se anche io muoio non voglio che Nora sia infelice. Capisci?
Stefano: Vedrò di parlare con sua figlia.
Galba: Parlarle? Per cosa? Parlarle e basta? Senti, Stefano, ho capito che il mio lavoro, il lavoro creativo in genere, ti piace. Con quali intenzioni sei venuto in America? Cosa ti proponi di fare?
Stefano: Ancora non lo so…
Galba: Vedi? Non hai le idee chiare. Ognuno in America deve sapere quello che vuole. Deve giocarsi la vita per conto suo. Io l’ho fatto, mi son fatto da solo, ho sudato, e non mi sono mai lasciato influenzare da nessuno. Nemmeno da Esther, mia moglie. Però, tu, vuoi parlare con Nora.
Stefano (registrando): Non capivo cosa volesse dirmi, ma mi sentivo provocato e mi piaceva. Quel modo di essere colpito all’improvviso mi faceva partecipe della lotta per la sopravvivenza. Comunque, l’amore per Nora non era come l’avevo sentito a Milano e a Firenze, romantico e zuccheroso.
Galba: Mi hai preso per un vecchio padre geloso? O per un artista finito?
Stefano (registrando): Forse era questo ciò che Nora si aspettava da me: che l’aiutassi in qualche modo ad uscire dal mondo di suo padre. Gli dissi che volevo vedere Nora.
Galba: Non c’è. L’ho mandata via perché volevo restare a parlare solo con te. Devo essere sicuro.
Stefano: Ma sono ancora giovane, ho anni davanti a me… per decidere…
Galba: Tiri dalla tua parte, con la scusa che sei giovane. Ma se ti metti con Nora, appena io morrò tu diventerai adulto. Adulto di colpo. O diventi adulto o sprofondi. Le responsabilità arrivano tutt’a un tratto. E allora ti giochi la vita. Dunque: che ne dici?
Stefano: Beh, cercherò di parlare con Nora e…
Galba: Nora è d’accordo di seguirti. Le donne sono sempre d’accordo con l’uomo che hanno scelto. E tu, dove la vuoi portare, eh?
Stefano: Non lo so, sono appena arrivato. Ma non si preoccupi.
Galba: Preoccuparmi? Ma la preoccupazione è l’unica cosa che può tenermi in vita. Non lo capisci, questo? Tu ti stai formando lo scafo del classico intellettuale italiano: che non vuole pensare, non vuole disubbidire e così non ha idee. Se ti propongono la rivoluzione tu dici che devi parlare con Nora. Se io ti annuncio che ti lascio mia figlia, tu mi dici che devi parlare con Nora. Allora perché sei venuto?
Stefano: Mister Galba, stia calmo, non si affatichi.
Galba: Sei arrivato qui con la patente del bravo ragazzo. Come tutti gli italiani, anche quelli che poi hanno fatto Cosa Nostra. Diffido degli italiani, te lo dico subito. Tu non mi vuoi fregare, credo. Però non sei pronto a prenderti responsabilità. Non sai patteggiare. Vedi il mio lavoro? Dimostra che non ho fatto il baccalà, io. Non farlo nemmeno tu. Scongelati, fatti la rivoluzione dentro.
Stefano (registrando): Sembrava un vecchio gufo appostato su una trave marcia. Mi domandò di che partito fossi, se mai ci appartenessi. Aveva un occhio più grande e uno più piccolo. Il più grande lacrimava e lui non se ne accorgeva. Il più piccolo mi fissava. Capì che non ero di nessun partito e di nessuna religione e ne fu contento perché da giovane, lui, era stato anarchico. Anzi Razionale. Sì, Anarchico Razionale, Tolstojano.
Galba: Sai cosa volevano da me, in Italia? Mi volevano patentato mangiatore di merda: perbenismo e fiamme, questo volevano da me. Li ho cacciati: mercanti, figli di puttana, famelici. Quando ho cominciato ad avere qualche successo mi hanno fatto le proposte più oscene. Mi volevano far produrre e produrre. Un politico, un artista politico mi volevano. La mia arte al servizio dell’uomo. Chiedevo e loro mi davano e poi ecco la proposta scurrile: tu sei dei nostri. Un gioco mafioso, massonico, da P2. L’Italia è tutta mafia, ormai. In realtà loro volevano solo aiutarmi a morire. Quando sei arrivato tu, ho sperato in te, nel tuo aiuto. Giovane, innamorato: Chi meglio di te può prendere il mio posto vicino a Nora?
Stefano (registrando): Galba si era sfogato. Con Nora non doveva essergli mai riuscito. La figlia aveva paura che il cuore gli saltasse. Impedire di parlare a un uomo per farlo star bene è una strana ricetta. Da parte mia lo cominciavo a capire. Gli dissi che stavo per pubblicare delle cose con Santorini.
Galba: Con Santorini? L’ho conosciuto: è un marpione, quello. Stai attento. E non farti comprare. Non venderti l’anima. Vuoi scrivere? In America si può fare anche questo. In un anno o due scoprirai l’America e ti farai le ossa. La letteratura è infame anche qui, ma almeno non è così squallida e provinciale come in Italia. Quella è roba da caverna. E tu puzzi ancora di grotta, si vede.
Stefano: Ma non riesco a scrivere in inglese. Lo parlo, ma scriverlo…
Galba: Ah, c’è mia figlia, per questo, e io, se starò meglio. Vedrò di farti collaborare con qualche rivista.
Stefano: Ma…
Galba: Non dirmi che devi parlare con Nora anche di questo.
Stefano: Ma devo pur consigliarmi con lei.
Galba: Ma per cosa l’hai scambiata mia figlia? Per un programmatore delle tue incertezze?
Stefano (registrando): Mi sentivo provocato. Un artista è un artista, ma lì c’era di mezzo il padre, l’amore per la figlia, la rabbia, la delusione, la vita – sua – che se ne andava. Non ero come Galba mi voleva. Non ero un pazzo ancora. Poi udii il rombo di un’auto che arrivava, come una liberazione. Era Nora.

Scena decima

Camera d’albergo. Sera.

Stefano (al telefono, dopo aver formato un numero): Pronto?! sono Stefano Levanzo… Mrs. Nora Galba non è ancora in casa? … Non rientrerà per la notte? Grazie… Buona notte.

Scena undicesima

Studio di psicanalista. Mattei e Levanzo.

Stefano: Sai cosa dice Santorini? Dice che dobbiamo operare su gente già cloroformizzata, su dei semidesti. Va cercata una scossa, forte, perché la gente apre il televisore per non pensare, dormire, instupidirsi beatamente. In fondo ha ragione. Forse. Dice che tutto è favola e che non è favola. Che tutto è un trucco… un business… Tutti credono che le favole siano evasione e invece no. Le vie per immobilizzare la gente sono tutte queste. Ha convertito più gente al capitalismo Walt Disney che Marx e Lenin al Marxismo-comunismo. Ed è convinto di ciò. E forse ha ragione. Ha ragione? Ma io non sono qui per salvare il mondo. … Ho voglia di parlare con mio figlio. Tom. Non l’ho mai visto. Per vent’anni. Ma ho voglia di parlargli. Forse l’ho generato troppo presto. O troppo in fretta. Ma le cosce di Nora… Dio!... Come mi piaceva morire dentro di lei. Cosce da favola, capaci di convertire al matrimonio più di tutta l’apologia matrimoniale della Chiesa. … Appena la conobbi capii che avrei finito con lo sposarla. E dopo averla sposata… Volevo dimenticare, ma è difficile dimenticare, cancellare un certo passato. Si fa presto a dire che bisogna essere freddi per cancellarlo, razionalmente. È difficile. Impossibile. … Eppure volevo credere che fossero tutti frammenti delle mie debolezze…
Mattei: Anche tuo figlio era un frammento?
Stefano: No, lui no. Avevo creduto che lo fosse, invece non lo era. Eh! Nora l’avrà fatto uguale a sé perché non può aver accettato che venisse uguale all’ex marito. Eh, io lo so come agiscono le donne che restano sole con un figlio: riagganciano il cordone ombelicale e cancellano il padre. Io non esisto per Tom. Questo è sicuro. Ma voglio parlargli.
Mattei: E allora parlagli. Nessuno te lo può impedire.

Scena dodicesima

Camera d’albergo. Notte.

Stefano (registrando): Tom, tu hai conosciuto poco tuo nonno Marco, e me ne dispiace. Era un uomo affascinante. Un pazzo straordinario. Forse inventeranno un congegno che permetterà di rivivere il passato e forse sarai tu, e la tua generazione, che potrà usarlo, e potrai realmente sapere chi era tuo nonno chi era tua madre e chi ero io. Soprattutto io, visto che non ci siamo conosciuti. (Ferma il registratore. Va a dormire)

Scena tredicesima

Camera d’albergo. Mattino. Stefano e Martha. Stefano è appena uscito dal bagno.

Martha: Ha l’aria stanca. Non ha dormito?
Stefano: Ho fatto uno strano sogno, stanotte. Forse un incubo. E ora ho mal di testa.
Martha: È pronto a cominciare?
Stefano: Da bambino, quando dicevo a mia madre che avevo mal di testa, che non avevo dormito, lei non mi mandava a scuola.
Martha: Ottimo! Solo che io non sono sua madre, lei von va più a scuola e soprattutto non è più un bambino. Come va la gamba? Può lavorare?
Stefano: Le ho già detto che non lavoro con la gamba, lavoro con la mente. E se proprio lo vuol sapere ho pensato al piano di lavoro che mi ha sottoposto ieri.
Martha: Magnifico! Mi dica, allora.
Stefano: Ieri lei ha sostenuto che resta un trenta per cento di spirituale a disposizione della gente, però non ha tenuto conto del fatto che la società contemporanea non è più spirituale. Bene. Ho riflettuto e ora mi chiedo: chi mi assicura che quel trenta per cento ognuno non voglia tenerselo per sé? Ora, noi sappiamo che la televisione non è di carne e ossa, però vogliamo metterci dentro del sangue. È assurdo, mi capisce? La gente vede la televisione per dimenticare, per non parlare, per non comunicare, per evitare il sentimento, la sensibilità. O, in ultima analisi, perché non ha nulla da dirsi.
Martha: Uhm! … È sicuro di aver pensato alla trasmissione? Con simili ragionamenti non approderà a nulla.
Stefano: Senta, Martha, per quel che mi riguarda lo spirito può essere solo una parola sul vocabolario. Non so, non sappiamo nemmeno cos’è, lo spirito, e pretendiamo di volerlo vedere? Santorini! Cosa non venderebbe, cosa non darebbe a bere alla gente con i suoi mezzi di comunicazione! Beh, stavolta dovrà fare a meno di me.
Martha: Lei è di quelli che credono che la cultura di massa sia l’anticultura. Ma la cultura di massa nasce quando la massa scende in piazza, quando partecipa e si fa notare. Lei crede che ciò che noi facciamo sia parodia della cultura, falsificazione della cultura a fini commerciali. Noi daremmo al pubblico prodotti condensati, livellati, incoraggiando così la sua visione acritica del mondo lo intorpidiremmo e favoriremmo la sua proiezione verso i modelli ufficiali.
Stefano: Non è così?
Martha: E secondo lei, naturalmente, siamo anche colpevoli di produrre a comando, di provocare consumi artificiali, di imporre simboli e miti, di diffondere una cultura omogenea.
Stefano: Non è così? Non è così? Lo dica che non è così, glielo voglio sentir dire… No, non c’è bisogno che lo dica: come farebbe a sapere queste cose, se non fosse così?
Martha: Sono stata brusca con lei, mi scusi.
Stefano: Sa cosa sono io per lei? Sono il suo lavoro. Lei ha consacrato la sua vita al lavoro, alla carriera. Prima magari non ci credeva e così ha fatto l’hippie, ha venduto libri di Ferlinghetti. Poi ha ceduto. Non c’è peggio di questi convertiti all’Idea-Forza del lavoro, al lavoro come fede. Adesso è impegnata a vendere lo spirito per conto di una multinazionale della comunicazione di massa.
Martha: Le ho chiesto scusa!
Stefano: Ho cercato lo spirito per tutta la vita per scoprire che c’è chi lo vuole vendere senza averlo mai cercato. Ma è proprio per questo che avete chiamato uno come me. Perché io, lo spirito saprò pure cosa sia.
Martha: È molto agitato, Levanzo. Ho capito che le devo lasciare più tempo. Lei ha bisogno di riflettere da solo. La capisco. Per me è come se non l’avessi ascoltato oggi. E domani non verrò. Ma faccia qualcosa, escogiti… Qualco…
Stefano: Vuol fare colazione con me?
Martha: Grazie, ho molto da fare. Sarà per la prossima volta. Ha bisogno di qualcosa?
Stefano: Molto gentile, ma nel caso le telefono.
(Martha esce. Stefano si appresta a registrare.)
Stefano (registrando): Tom, tuo nonno era malato, probabilmente anche pazzo. Tua madre, proprio perché viveva con un malato, aveva voglia di vivere. E la prima volta che feci l’amore con lei fu dopo un collasso di suo padre. Poi dovevo partire. Dovevo recarmi in Italia per partecipare alla presentazione del mio primo libro. Se te ne vai perdi tutto, mi disse Nora. Lei si definiva “tutto”. Ma devo pur combattere questa battaglia, dissi io.

Scena quattordicesima

Casa-studio di Marco Galba.

Nora: Una battaglia da cui spunteranno nuove preoccupazioni, vedrai.
Stefano: E va bene, Nora, quando nasceranno le affronteremo.
Nora: La verità che ti rifiuti di ragionare. O forse ragioni troppo e vuoi piantare tutto, mi vuoi piantare. Ma vai incontro a forti delusioni. Preparati.
Stefano: D’accordo. Se sbaglio, sbaglio da solo. Tu non c’entri.
Nora: Pensavo che saresti rimasto almeno sei mesi, Stefano: il tempo di prepararci a vivere insieme, se è quello che vogliamo. Ma tu non è così che la pensi.
Stefano: Perché non vieni con me?
Nora: Non posso venire con te, lo sai.
Stefano: E perché? Non sei italiana? Non possiamo portare in Italia anche tuo padre?
Nora: Lo vedi? Tu vai e pensi di restarci, altrimenti non mi chiederesti di venirti dietro con mio padre.
Stefano: Puoi lasciare tuo padre qui. Si tratta solo di qualche settimana. Forse meno.
Nora: Lasciare mio padre? Come fai a pensare una cosa simile?
Stefano: Affidarlo a qualcuno, dicevo.
Nora: Non ragioni, Stefano.
Stefano: Va bene, calmati. Non puoi lasciarlo, d’accordo. E allora, vedi? L’unica è che vada io, da solo. Ma di che cosa hai paura? Che non torni?
Nora: Sento che non dovrei lasciarti andare, ecco.
Stefano: Non fare la donnetta, Nora.
Nora: Ti amo… E forse… Forse sono… (Esce.)
Stefano: Non lo disse e io non lo capii che forse era incinta. Nei giorni che mancavano alla mia partenza Nora era nervosa. Non la riconoscevo più. Sembrava cambiata anche fisicamente. Dov’era la ragazza di Firenze?
(Entra Marco Galba.)
Stefano (registrando): Poco prima di partire ebbi un colloquio con tuo nonno, che dopo l’ultimo collasso sembrava essersi ripreso.
Galba: Tu ti devi attrezzare, Stefano. Lo studioso, il letterato, l’operatore culturale, perfino queste orribili cose si possono fare, oggi. Purché si sappia
cosa si vuole alla fine. Il successo? Te lo devi comprare: il successo si compra. Santorini: ti usa, quello. Con lui non l’avrai mai il successo. Oppure vuoi soldi, viaggi, auto, bella casa? È un altro tipo di successo. Però devi stare da una parte o dall’altra. Non in mezzo.
Stefano: E lei non è mai stato in mezzo?
Galba: Vorrei poterti aprire gli occhi. Guardami: sono arrivato in America a cinquant’anni che non ero nessuno. Però guardavo tutti dall’alto, anche se avevo bisogno dei trafficanti, mercanti birboni, per vendere, e che mi beccavano il cinquanta e il sessanta per cento. Tu hai venticinque anni e cosa vorresti? Essere accolto come un genio! Non dimenticarti che lavoriamo per gente che non ci ha chiesto niente e per di più è mediocre, sospettosa, limitata. Solo quando sei famoso ti vogliono, ma a quel punto sei un oggetto di consumo fra persone che aspettano di pronunciare per te la parola “finito”. Devi concentrarti su una cosa.
Stefano (registrando): Capivo che quell’uomo, abituato a stare sempre sopra, quando si trattava di sua figlia era pronto a sottomettersi. Ma non ci riusciva.
Galba: Devi concentrarti. Anche per i sentimenti ci vuole concentrazione.
Stefano: Io vado, però poi torno. Nora si preoccupa troppo per questa partenza.
Galba: Poi torni? … Poi torni! Hai ragione, ti capisco. Ma anche Nora è una ragione.
Stefano: Credete che non torni, vero? Ma anche per me Nora è una buona ragione per tornare.
Galba: Cosa vuoi fare con lei?
Stefano: Cosa voglio fare? Tutto ciò che posso.
Galba: Ah, bene. Anch’io avrei detto la stessa cosa al tuo posto. Però vuoi partire! Ti capisco. Tu hai ragione a voler sbagliare: ecco il tuo vero diritto: la libertà di sbagliare!
Stefano: Ma chi vi dice che sto sbagliando, che non posso far centro?
Galba: Far centro? A venticinque anni? È proibito alla tua età, in quel mondo.
Stefano: Perché proibito?
Galba: Stai sbagliando. Ma sbaglierei anch’io. Avevo la tua età quando cominciavano gli anni ’20. Tempi duri e ancor più duri negli anni successivi. Ma non avevo una figlia, come adesso, o una ragazza, come te. Certo, se tu eri un ingegnere, un tecnico, un elettronico, ti avrei detto che va bene. E mi sarei sentito più tranquillo. Ma uno scrittore! (Esce.)
Stefano (registrando): L’indomani partivo. Nora era venuta ad accompagnarmi all’aeroporto. Indossava una gonna verde e una camicetta giallo-sole, aderente. L’aereo era in ritardo, e mentre aspettavamo pensavo: cosa le dico in queste due ore?

ATTO SECONDO

Scena prima

Camera d’albergo. Giorno.

Stefano (registrando): In Italia, per il lancio del mio primo libro, e di altri della stessa Editrice di Santorini, venne organizzata una “serata speciale”. Santorini per me non si sprecò molto in parole, né come qualità né come quantità; disse che avrebbe avuto tempo per parlare di me, in futuro. Poi mi presentò Silvia, una bellissima ragazza ebrea, vecchia amica di tua madre, figlia di un finanziere ai cui piedi Santorini sarebbe stato felice di strisciare se ciò gli avesse permesso di spillargli soldi. Quella sera, io e Silvia ci defilammo all’inglese dal ricevimento e andammo a casa sua per conoscerci meglio. A Silvia il mio libro piaceva, a suo padre invece sembrava non interessare l’editoria. Come avrebbe potuto Santorini spillargli dei soldi da investire in quel campo? Conobbi anche il padre di Silvia, quella sera, e capii che gli ero completamente indifferente. Al padre però, non alla figlia, e una volta a casa sua ci sentimmo attratti l’uno dall’altra. Ma prima che tra noi due succedesse qualcosa tornai in America. Tornai in America perché tua madre era incinta, Tom. E le dichiarai che per me l’America non era la terra promessa, che non ero adatto per la trafila americana.

Scena seconda

Casa-studio di Marco Galba.

Stefano (a Nora, che entra): No, non mi va di stare in America. Se vuoi che ci sposiamo vieni in Italia…
Nora: Mi ricatti?
Stefano: Ma che mestiere posso fare qui? Non mi va di farmi mantenere da tuo padre. A proposito: come sta?
Nora: Sta meglio: fa lunghe passeggiate, lavora…
Stefano: Mi fa piacere.
Nora: C’è spazio anche per te in America. Starai meglio, vedrai.
Stefano (registrando): Certo, l’idea dello spazio, della libertà mi andava. In Italia invece sarei dovuto diventare una tarma nella grande cassapanca dell’industria. Tuo nonno, quando ci raggiunse, quasi non fece caso a me. Solo un “ciao, Stefano” e andò a dedicarsi ai quadri di un giovane pittore venuto a chiedergli consigli.
Nora: Se vuoi possiamo dormire insieme stanotte. È casa tua, questa. Ti ho aspettato tanto. Ho anche temuto che non venissi più. Che stupida sono stata.
L’importante è che tu sia qui.
Stefano (registrando): Invece per me non era importante esser lì. Tuo nonno era tornato ad essere l’estroso artista di una volta. Era noto, intervistato, ammirato, richiesto dalle gallerie.
Galba (entrando): Allora sei deciso, finalmente? Era ora che vi sposaste, tu e Nora.
Stefano: Le dispiace che ciò avvenga con Nora in questo stato?
Galba: Dispiacermi? E perché? Mi dispiace solo che non vedrò il mio nipotino crescere.
Stefano: Spero tanto di riuscire a lavorare.
Galba: Ti preoccupa? Conosco il direttore della Rivista Letteraria: gli parlerò e scriverai per quel giornale. Hai tante cose da dire, vero? Puoi scrivere sugli artisti emigrati italiani. E anche su di me. Dì che ci ha pensato mia moglie, un’americana, a farmi strada. Dio, che vitalità aveva Esther! Credeva in me e critici, giornalisti, intellettuali erano tutti ai suoi piedi. Un vero accendifuoco. Ah, ma Nora non è come lei. Poco male: vuol dire che ci penserò io a farti avere un colloquio con qualche scrittore. Ti servono delle interviste. Me ne occuperò io.
(Galba esce. Stefano rimane pensieroso per un po’.)
Stefano (registrando): Fu così che entrai nel giro. Prima uno scrittore bianco poi uno nero. Prima Truman Capote, poi James Baldwin. Quest’ultimo mi parlò col cuore, come tuo nonno, e da quel colloquio ne uscii come in possesso di qualità nuove. Avevo in nano materiale per un altro libro. Dovevo parlarne a Santorini. Però, prima, dovevo sposarmi. E la sposai, Nora. Inviti, festeggiamenti con acquazzone e poi il viaggio di nozze, in Italia, dove avrei parlato con Santorini.
Nora: Credo che dovremo rimandare il viaggio di nozze. Sai, non posso lasciare solo papà. Non mi divertirei pensandolo solo. Vai tu se proprio non ne puoi fare a meno.
Stefano: Possiamo pagare un’infermiera, qualcuno.
Nora: No, è malato di cuore. Nessuno si prenderebbe la responsabilità. E poi deve “sentire” che c’è qualcuno accanto a lui.
Stefano (registrando): Oh, come avrei voluto picchiare tua madre, Tom. Mi invitava a partire, ma non ne era convinta. E capii che io e Nora non ci conoscevamo. Lo capii da come mi guardava, con uno strano, curioso interesse, come se volesse scoprirmi in quel momento. Mi trattenni e non glielo diedi, quello schiaffo. E forse fu uno sbaglio.
Nora: Puoi tornare con i tuoi genitori, così fai loro compagnia.
Stefano: Già, mi sposo e vado in luna di miele coni miei.
Nora: Che c’è di male?
Stefano: Ma è ridicolo, grottesco! La verità è che tu non vuoi rischiare niente, nemmeno di conoscermi.
Nora: Per conoscerci abbiamo tempo. Quanti giorni pensi di fermarti a Milano?
Stefano: Quanti? Non lo so. A questo punto, Nora, non so più niente.
Nora: Credi che a tua moglie non piacerebbe fare il viaggio di nozze con suo marito? Avremo tempo anche per questo, Stefano.
Stefano: Con te non ho diritti. Decidi sempre tu.
Nora: Li hai, visto che riparti.
Stefano: Riparto perché ho delle idee per il mio lavoro e devo cercare di farle rendere.
Nora: Dunque io ti servirei a poco, non credi?
Stefano: Una volta tu mi seguivi, mi ascoltavi, mi aiutavi, parlavamo. E poi Santorini me lo hai fatto conoscere tu, l’hai dimenticato?
Nora: Non ti è servito a molto, però. E come dice papà: quello ti sfrutta soltanto: del tuo primo libro chissà che ne ha fatto. Ma se vuoi prova ancora.
Stefano: Forse ho fatto male a sposarti. Non ci capiremo mai, noi due.
Nora: Ma che dici, caro? Non avvilirti, te ne prego. Il fatto è che siamo stanchi, nervosi.
Stefano (registrando): Mia madre era gelosa di Nora, ed era contraria al mio matrimonio, come mio padre, del resto. Me lo dicevano che Nora voleva dimostrarmi che senza di lei io non contavo. Ed era terribile, perché forse avevano ragione. Sapeva essere dura, mia madre. Me lo diceva: “quella ragazza ti rinfaccerà sempre troppo. E inoltre non gliene importa delle tue idee”. Dopo qualche giorno e altre discussioni con Nora partii per l’Italia, dove mi diedi da fare. Dio, se mi diedi da fare. Però finii ancora dritto nelle braccia di Santorini. Rividi Silvia, le parlai dei miei progetti e lei si prodigò per coinvolgere Santorini.
Vittorio: Un libro sullo spirito? Beh, può essere un’idea. Però senti, per ora perché non te ne torni a New York e rimandiamo tutto a più in là? È ancora presto per parlare di spirito agli italiani, siamo in pieno consumismo, c’è il boom economico, vanno forte i beni materiali, non le cose spirituali. Non te ne accorgi? Tornatene a New York, dai retta a me.
Stefano (registrando): Tornai a Staten Island in primavera, e fu la mia ultima primavera in America.

Scena terza

Casa-studio di Marco Galba. Visibile gravidanza di Nora.

Stefano (registrando): Scoprii che Nora era protettiva, gelosa, e aveva un progetto preciso: aspettava che finissi i miei soldi per poi amministrarmi i suoi. Io non potevo accettarlo.
Nora: Le respirazioni che mi hanno insegnato sono utilissime per la gestazione e il parto. Uno… due…
Stefano: Torniamocene in Italia, Nora. Per un po’ almeno. Farei grandi cose con te vicino. In America mi sento come un sentiero sperduto fra le montagne.
Nora: Ti ci abituerai. Uno… due. Lo chiamerò Tom.
Stefano: Portiamo anche tuo padre. Solo per qualche settimana, ti prego.
Nora: Carino quest’abito premaman, non credi?
Stefano: In Italia potrei lavorare di più e meglio.
Nora: Ma qui o in Italia non è lo stesso?
Stefano: Non è lo stesso. Qui non sono nessuno, non conosco un cane, non posso lavorare.
Nora: Ma c’è papà! Ti ha già messo sulla buona strada. E poi non vorrai diventare subito qualcuno, spero. Sai papà quanto ci ha messo per arrivare? Su, non scoraggiarti. Ti aiuterà la tua mogliettina.
Stefano: Aiutarmi? E come?
Nora: Lo saprai quando avrai deciso di farti aiutare.
Stefano (registrando): Con lei era come parlare alla Sfinge. Sull’argomento Italia Nora non voleva starci. Ma tanto lei era incinta. Se perdeva me le restava il figlio. Tutto suo.
Nora: Andiamo, papà ci starà aspettando per la cena.

Scena quarta

Camera d’albergo. Sera.

Stefano (registrando): Nora non immaginava che Silvia fosse venuta per me. Era innamorata di me ed era decisa a guidare la danza. Ma io non avevo nessuna intenzione di stare al suo gioco. E per qualche giorno tutto trascorse normalmente. Nora e Silvia, da buone amiche uscivano al mattino per compere e non tornavano che a sera. E io restavo solo nella grande casa ad ornare come una statua i viali del giardino. Ma la solitudine non mi pesava. Quella sera, dopo cena, tutti andarono a letto. Io restai in salotto a leggere un po’: a tua madre dava fastidio la luce, non ce la faceva a prendere sonno con me che leggevo a letto. Quando tutti dormivano mi si presentò Silvia, e successe quello che sempre noi due avevamo pensato. Ci abbracciammo teneramente, ci baciammo e ci sdraiammo sul sofà. Tutto avveniva razionalmente e nello stesso tempo con sentimento. Nora dormiva qualche camera più in là e io facevo l’amore con un’altra donna. E quando il nostro contatto ebbe fine, entrambi sapevamo che quello che era successo poteva essere considerato come mai successo. E capii che mi amava, e che se fossi andato con lei tutto sarebbe stato facile per me. Sarei stato un protagonista, nell’editoria, questo sì. Però all’ombra dei suoi soldi e di quelli di suo padre. Ci baciammo ancora, ma ad un tratto udii dei passi dietro la porta: tua madre aveva scoperto tutto. E l’indomani non chiese spiegazioni, niente. Volle solo che me ne andassi, che sgombrassi al più presto. E io partii pensando che sarei stato di ritorno per la nascita di mio figlio, la tua nascita, Tom. Invece tua madre mi scrisse venti giorni dopo il parto, informandomi che di me non ne voleva più sapere. Divorziammo per lettera. Però mentirei, Tom, se dicessi che da tua madre non ricevetti altra posta. Mi scrisse, per esempio, quando è morto tuo nonno. Mi scrisse per la tua prima comunione. E poi, su mia richiesta, mi ha spedito delle foto recenti di mio figlio. Così ho fatto il conto che in vent’anni Nora ed io ci saremo scambiati una dozzina di lettere.

Scena quinta

Camera d’albergo. Notte. Come in un sogno di Stefano, si materializza lo psicanalista Mattei.

Mattei: Hai fatto come ti ho detto?
Stefano: Sì, ho inciso ieri e oggi tutto il pomeriggio; guarda quanti nastri.
Mattei: Non ti senti liberato, decompresso? Hai sostato nell’inconscio, anche se ambiguamente.
Stefano: Come sarebbe a dire ambiguamente?
Mattei: Sì, perché una metà di te ce l’ha messa tutta, sicuro, ma l’altra metà? Una metà ha fatto tutto ciò per amore, ma l’altra metà ha risposto: E tu, mi ami tu?
Stefano: L’altra metà chi, mio figlio?
Mattei: Tu che pensi?
Stefano: Sai che musica ho avuto dentro le orecchie per vent’anni? Non l’ho mai detto a nessuno. Ho sempre udito le parole di un mio avo, il mio venerabile arcizio. “Devi pagare il fio. Non vedrai più tua moglie, che hai tradito. Né tuo figlio, su cui ricade la colpa paterna. E non vedrai la tua concubina mancata, peccatrice e miscredente: un’ebrea! “Le ho avute dentro per vent’anni queste parole.
Mattei: La sensualità repressa dei mistici si è rigenerata in te. Ma deformata, di modo che tu sei diventato uno psicotico ipersensibile, sofferente di crisi depressive, soggetto alle inondazioni della falsa coscienza.
Stefano: Ho telefonato a Nora. Non era in casa. A quest’ora dev’essere già tornata, ma non ha richiamato. Non le importa nulla di me.
Mattei: Dostoevskij ha celebrato le proprie turbe in quelle dei suoi eroi che cadevano a terra cianotici, schiumavano, si mordevano la lingua, perdevano le urine. Si chiamavano epilessie ma erano crisi mistico-sessuali, come la tua. E come si liberava Dostoevskij? Attraverso i propri personaggi. Anche tu devi farlo.
Stefano: E non è ciò che ho fatto? Sai cosa mi disse in sogno una volta l’arcizio? Che soltanto dopo molti anni, se fossi stato irreprensibile, avrei visto mio figlio. Io non ci ho mai creduto. Ma forse aveva ragione. … (Gridando:) Tom, per vent’anni non sono stato niente. Niente! Niente… (Si addormenta)

Scena sesta

Camera d’albergo. Mattino.

Martha: Allora, mister Levanzo. Le notti americane, benché chiuso qui dentro, le hanno dato delle buone idee?
Stefano: Non capirò mai l’America, Martha.
Martha: L’America non la si deve capire: l’America è lì: basta leggerla. E se abbiamo voglia di fare, può essere come la vogliamo noi.
Stefano: È più facile dire che fare. Per quanto mi sforzi non riesco a cambiare.
Martha: Ma lei non deve cambiare. Nessuno glielo ha chiesto.
Stefano: Non so disegnare mondi colorati, Martha. Per me il mondo è come lo vedo io, non come mi dicono di vederlo.
Martha: Perché crede di non farcela, Levanzo? È comodo non provare.
Stefano: Provare per me vorrebbe dire entrare in gara con me stesso. Sì, lo so: adesso mi dirà che la vita stessa è una gara. Sciocchezze.
Martha: Ma cosa non è sciocchezza, per lei, nella vita?
Stefano: La morte.
Martha: E la vita?
Stefano: Forse! Ma la maggior parte delle vite sono spese a fare corse, fare bucati, crescite di figli e ferie al miglior prezzo. Io ho sempre disprezzato queste vite perché mi credevo un cercatore dello spirito. Lo spirito è rannicchiato dentro il mistero e l’uomo si scontra in ogni momento con il mistero. Sì, disprezzavo quelle vite. Ora non mi sento di disprezzare più niente.
Martha: E sua moglie, fa parte delle donne che ha disprezzato?
Stefano: Mia moglie? Non ci ho mai pensato. … Sa una cosa? Santorini sa scegliere bene i suoi collaboratori: Lei è molto combattiva. L’ammiro.
Martha: Grazie. Ma mi dica di sua moglie, mi parli di lei, se vuole.
Stefano: Mia moglie? (Pausa).
Martha: Non me ne vuole parlare? Immagino sia una donna squisita.
Stefano: Mia moglie… la mia ex moglie è una donna ben fatta. Educata. Bellissime gambe, occhi azzurri, sguardo intenso….
Martha: E perché avete rotto?
Stefano: Mi sentivo un predestinato. Ma mia moglie non mi considerava un predestinato. Lei era una che teneva alla praticità. Io invece credevo di dover fare strada come cercatore di cose spirituali.
Martha: La praticità è un elemento importante nella contabilità di una donna.
Stefano: Oggi sono d’accordo con lei, ma allora non la pensavo così.
Martha: E dopo, dopo perché non si è più risposato?
Stefano: Perché avrei dovuto?
Martha: E ora, è ancora un cercatore di spirito?
(Stefano non risponde.)
Martha: Ma lei ha anche un figlio, Levanzo. Non vorrà tenerselo nascosto, spero.
Stefano: Nascosto? E perché dovrei?
Martha: Non lo so, me lo stavo appunto chiedendo.
Stefano: Cosa gliene importa che io abbia o no un figlio?
Martha: M’importa, invece. Anche se lei se ne meraviglia. Vuole che me ne vada?
Stefano: No, resti. Cosa vuol sapere di Tom? Anzi, no: un momento.
(Stefano prende uno dei nastri su cui ha inciso e lo inserisce nel registratore)
Stefano: Ascolti.
Voce dal registratore: “Tom, tuo nonno era malato, probabilmente anche pazzo. Tua madre, proprio perché viveva con un malato, aveva voglia di vivere.” (STOP)
Martha: Che cos’è?
(Stefano cambia il nastro.)
Stefano: Proviamone un altro.
Voce dal registratore: “…mi presentò Silvia, una bellissima ragazza ebrea, vecchia amica di tua madre…
Martha: È sempre lei, Levanzo.
Stefano (fermando il registratore): Già.
Martha: Chi è Silvia?
Stefano: Silvia Coinzi. La conoscerà di certo.
Martha: Silvia Coinzi, la moglie di Santorini?
Stefano: Proprio lei, la moglie del capo.
Martha: E queste incisioni?
Stefano: “Raccontare! raccontare di sé ad alta voce, per scoprire chi siamo. Confessarsi, espiare anche, forse. Rimescolare nel fondo della coscienza vincendo forme e pregiudizi. Scoprirsi parlando, insomma, per ricrearsi e rinascere.” Basilio Mattei, un mio amico psicologo, mi ha detto di parlare a me stesso, di incidere. Lui ci crede a queste cose.
Martha: Anche lei deve crederci, se ha inciso.
Stefano: Sa perché ho inciso? Perché era l’unico modo che avevo di comunicare con mio figlio. Tom in vita mia non l’ho mai visto. Ho pensato che potevo dargli i nastri.
Martha: I nastri?
Stefano: Sì, questi nastri, che ho inciso tra ieri e oggi.
Martha: Questi nastri al posto suo, voglio dire…
Stefano (con commozione): Sì, al posto del padre, lo dica pure.
Martha: Questi nastri devono essere molto belli.
Stefano (con affetto): Le piacerebbe sentirli?
Martha: Oh, sarebbe magnifico.
Stefano: Se le può far piacere sentirli, li prenda pure.

Scena settima

Camera d’albergo. Giorno. Entra Nora Galba.

Stefano: Nora! Potevi telefonare, prima: mi sarei reso più presentabile. Entra… siediti…
Nora: Ti sei rotto una gamba, a quel che vedo.
Stefano: Sciocchezze… Nora! …Sei ancora… Ti trovo bene, ancora fresca.
Nora: Anche tu stai bene.
Stefano: Sono invecchiato, invece.
Nora: No, sei ancora come nelle fotografie che mi hai spedite qualche anno fa.
Stefano: Ti domanderai perché ti ho cercata, dopo vent’anni.
Nora: Hai una bella camera, grande.
Stefano: Bella, grande ed è proprio qui che mi hanno rubato il portafoglio.
Nora: Ti hanno derubato? Ma come è successo?
Stefano: Mentre ero in bagno. Ho dimenticato la porta aper…
Nora: Hai lasciato la porta aperta? Ma non sai che in America non si lascia mai la porta aperta? E quanto ti hanno rubato?
Stefano: Quattromila dollari. Ora sono a secco.
Nora: Quattromila dollari?
Stefano: Ti volevo chiedere un prestito.
Nora: E a che servono, se no, le ex mogli? Comunque, nessun problema. Ti farò avere un assegno.
Stefano: Volevo vederti: ti avrei telefonato anche senza il furto. Mi tolgono il gesso domani.
Nora: Vuoi che t’accompagni?
Stefano: No, grazie, sarebbe troppo fastidio, per te.
Nora: Come vuoi… Hai visto Silvia, recentemente?
Stefano: Silvia?
Nora: Era innamorata di te, no?
Stefano: In vent’anni l’ho vista occasionalmente un paio di volte. Ha sposato Santorini, lo sai.
Nora: Sì. E come va il loro matrimonio?
Stefano: Non ne so molto. Lavoro per Santorini, questo sì, ma non siamo amici.
Nora: Pensa: se sposavi Silvia saresti tu, ora, al posto di Santorini.
Stefano: Sposare Silvia? Ma se ero sposato con te.
Nora: Sposato con me? Ma per quanto tempo? E dopo non ti sei fatto più vedere.
Stefano: Pensavo che facevo bene a non venire.
Nora: Sì, facevi bene! … Fa un gran caldo. Non c’è, qui, l’aria condizionata?
Stefano: La spengo sempre: mi fa venire mal di testa. Preferisco fare una doccia.
Nora: Doccia? Perché no? (comincia a spogliarsi e va in bagno)
Stefano: Ma che fai?
Nora (fuori scena): Cosa hai detto che sei venuto a fare a New York?
Stefano: Son venuto per una trasmissione sullo spirito.
Nora: Su cosa?
Stefano: Sullo spirito. Uno show televisivo sullo spirito. Hai capito?
Nora: Ho quasi finito.
Stefano: Te l’immagini? Lo spirito in televisione.
Nora: È proprio il tuo chiodo fisso, lo spirito. Mi passi l’asciugamano, per favore?
Stefano: È a destra, uscendo dalla doccia.
Nora (rientrando in scena): Mi ci voleva proprio. Ti dispiace asciugarmi le spalle?
Stefano: Però non la faccio, quella trasmissione.
Nora: Asciugami anche più giù.
Stefano: La televisione uccide lo spirito, non credi?
Nora: Non lo so, non la vedo mai.
(Stefano continua ad asciugare Nora, che lo lascia fare, e succede che i due si baciano e fanno l’amore.)

Scena ottava

Camera d’albergo. Nora e Stefano dopo aver fatto l’amore.

Stefano: Dimmi di Tom.
Nora: Non è a New York, per adesso. È in vacanza, fa giornalismo.
Stefano: E come si trova? È inserito?
Nora: Sta tentando d’inserirsi. Non ho un rapporto facile con lui in questo periodo.
Stefano: E lo studio? Come va?
Nora: Va bene. È un intellettuale smarrito. Ti somiglia.
Stefano: Sul serio?
Nora: È uguale a te. Sembra che tu abbia sputato per terra e lui sia spuntato dalla tua saliva. Per questo non ci vado molto d’accordo.
Stefano: E quando torna dalla vacanza?
Nora: Stasera, credo. O domani.
Stefano: Mi piacerebbe vederlo.
Nora: È per lui che sei venuto, vero? Non per la trasmissione.
Stefano: Mi hai detto che Tom è come me. È vero?
Nora: Sì, ma… è vissuto qui, con me. È americano.
Stefano: Ma ha il mio carattere. Prima hai detto che sembra nato dalla mia saliva.
Nora: Tom non merita di fare la tua fine.
Stefano: La mia fine? Sei ingiusta, stai esagerando. Ho ancora qualcosa da dire, mi sembra.
Nora: Hai sempre avuto qualcosa da dire. Tom, però, deve anche fare.
Stefano: Deve distinguersi, lo so. Suppongo che tu gli avrai fatto frequentare un sacco di amici che domani gli potranno essere utili. È così che si fa qui, vero?
Nora: Non solo qui. Mi preoccupo del futuro di mio figlio. Faccio male? Non ti sei mai fatto vedere. Nemmeno quando è morto mio padre. Eppure mio padre ti andava a genio. Ma tu sei fatto così. Te ne vai e lasci terra bruciata.
Stefano: Voglio vederlo, Tom.
Nora: Non erano i soldi che volevi da me? Te li farò avere.

Scena nona

Camera d’albergo. Sera.

Martha: Ha fatto un ottimo lavoro, mister Levanzo.
Stefano: Ottimo lavoro? Di cosa sta parlando?
Martha: Dei suoi nastri. Ci siamo: ci ha azzeccato in pieno.
Stefano: Guardi che continuo a non capire.
Martha: Ho trascritto il contenuto dei suoi nastri, guardi. L’idea funziona. Santorini è d’accordo.
Stefano: Come d’accordo? D’accordo con chi, per cosa?
Martha: Gli ho parlato mezz’ora fa. Volevo essere sicura. Dice che va bene. La trasmissione si fa. Lei non ha davvero buttato via il suo tempo, Levanzo.
Stefano: Se lo dice lei! ma mi spieghi.
Martha: Questi nastri, la sua incisione. Non è contento?
Stefano: Lei vede il contenuto di quei nastri come una trasmissione televisiva?
Martha: Certo! Un uomo cerca lo spirito per tutta la vita sotto un impulso potente, misterioso, soprannaturale. È un uomo che ricorda, sogna, rinuncia, soffre. A un certo punto quest’uomo trova qualcosa che lo libera da tutto, che scava in profondità. Sì, una specie di confessione, ma di più: un’incisione profonda. Ed eccola qui.
Stefano: Mi sembra troppo entusiasta, trionfalista.
Martha: Trionfalista?, ma… Stefano, nella sua incisione milioni di persone si possono riconoscere. Ecco perché ci piace, perché funziona.
Stefano: Cosa le fa credere che può interessare milioni di individui?
Martha: Il fatto che tutti ci raccontiamo sempre. Ogni giorno ripassiamo dentro di noi la nostra vita come se fosse una lezione. Mai che abbiamo il coraggio di liberarci. In realtà ci nascondiamo. Conviviamo tutta la vita con un’altra persona che è dentro di noi e che teniamo soffocata, prigioniera. Ha presente la novella di Cechov Il monaco nero? C’è un uomo che parla con la propria allucinazione, la materializza, la vive. Gli altri però non lo sanno, non vedono il monaco nero. Lei, Levanzo, invece l’ha visto, ha parlato col monaco nero e l’ha svelato a suo figlio. Ora noi possiamo dire questo a milioni di persone perché milioni di persone non soltanto possono ma devono riconoscersi in questa storia.
Stefano: Ma quale storia? Non ho inciso nessuna storia.
Martha: Mi ascolti, Stefano. Una trasmissione è fatta soprattutto di ritmo, di montaggio. In America sono maestri, in questo. Ma sotto ci vuole sempre un’idea, un idea originale, che spacchi tutto quanto è stato fatto finora: i soliti valori: la famiglia, il lavoro, i quadretti borghesi. Cose insopportabili.
Stefano (ironico): E lei pensa davvero che i miei nastri, come ha detto?, “spaccano” tutto ciò?
Martha: Lo so a cosa pensa. Pensa che voglio manipolare i sentimenti. Lei pensa che voglio trasformare tutto in energia televisiva. Beh, si sbaglia: non è così.
Stefano: Perché non è così?
Martha: Perché c’è gente che sta quattro, cinque ore al giorno davanti al televisore e noi non possiamo farci niente. Sono degli animali? Si vogliono suicidare? Va bene. Ma noi facciamo mai qualcosa per rendere questa gente, queste persone meno animali? Se provassimo a occuparci di loro e a dirgli ciò che loro si aspettano?
Stefano: E cosa si aspettano?
Martha: Le nostre debolezze e le loro, le nostre ansie e le loro. No? Ma non è forse ora che la finiamo di prendere in giro questa gente considerandola idiota e dandole un’idiozia dopo l’altra? Basta con gli stereotipi zuccherosi. Dobbiamo entrare in televisione con tutto ciò che siamo. Quando si è pensato a una trasmissione sullo spirito, a questo si è pensato.
Stefano: Non mi dirà che sapeva che avrei fatto ciò, che avrei inciso quei nastri!
Martha: Questo non ha importanza. È importante che adesso abbiamo l’idea.
Stefano: Avete la mia vita, invece. Il mio passato.
Martha: Se vuole può anche rifiutarsi di mettere il suo nome nella trasmissione.
Stefano: Già, tanto ormai il mio “prodotto” l’avete!
Martha: Vedo che ha capito, perché le trasmissione si farà.
Stefano: Si farà? È deciso?
Martha: Certo, gliel’ho detto. Ho già parlato con Santorini. E poi, scusi Levanzo, non è venuto in America per darci una trasmissione? Lei ce l’ha data e pace.
Stefano: E se vi faccio causa?
Martha: Sarebbe nel suo diritto. Ma stiamo ai fatti. Lei sa che una trasmissione televisiva come questa nasce da uno spunto, da un’idea. Ma poi diventa tutt’altro. Ora, la sua idea sarà utilizzata, certo, ma non così com’è ora. Bisogna manipolare la storia, adattarla, arrangiarla. Solo così può funzionare. C’è uno staff che suddivide in fasi la lavorazione, la realizzazione del programma, e poi… Ma queste cose lei le sa meglio di me. Quindi perché vuole crearsi e crearci delle seccature?
Stefano: Non mi piace finire in televisione, confessare i miei sentimenti, le mie colpe segrete, tirare in ballo gli affetti che mi furono – che mi sono – cari.
Martha: Stia tranquillo: se lei non vuole, nessuno nella trasmissione sarà riconoscibile. Né lei, né sua moglie, né suo figlio.

Scena decima

Camera d’albergo. Giorno. Valige pronte. È presente un giovane, Tom. Entra Stefano, che non ha più l’ingessatura.

Stefano: Tom! Sei Tom.
Tom: Mi hanno detto che eri andato al Medical Center e che saresti tornato. Ho preferito aspettarti qui.
Stefano: Hai fatto bene. Io sono…
Tom: Sì, lo so. Mamma mi ha detto che avevi le stampelle, ma ti ho riconosciuto anche senza.
Stefano: Sapevo che eri in vacanza… Non mi aspettavo di vederti.
Tom: Sono tornato ieri sera.
Stefano: Vieni, sediamoci, parliamo un po’. Dove sei stato in vacanza?
Tom: Da zia Clara. È un po’ maniaca: sta per ore davanti al televisore.
Stefano: Tu non la vedi la televisione, vero?
Tom: Preferisco un buon libro, se non esco.
Stefano: Ieri ho visto tua madre, siamo stati insieme tutta la mattina.
Tom: Lo so. Mi ha detto lei che volevi vedermi.
Stefano: Avevo una gran voglia di vederti, Tom. Di conoscerti… Parli benissimo l’italiano.
Tom: In casa parliamo sempre italiano, io e la mamma. Ma tu come mai sei venuto in America?
Stefano: Sono venuto per un lavoro, che poi non ho fatto: ma altri dicono di sì, che l’ho fatto.
Tom: Che genere di lavoro?
Stefano: Un lavoro per la televisione. Ma non so a chi e se potrà interessare.
Tom: A zia Clara di sicuro. Figurati che tiene le fotografie dei parenti defunti schierate davanti al teleschermo. “Devono vedere pure loro”, dice. “Ma non andare in giro a raccontare che sono una vecchia pazza. Quando loro sono morti la televisione non c’era ancora”.
Stefano: Ah, ah! Dice così?
Tom: Proprio così. E lì in mezzo, che guarda la televisione, c’è anche mio nonno Marco.
Stefano: Proprio lui che non poteva soffrirla.
Tom: Pensa che, immaginandolo, gliel’ho detto. Le ho detto: “zia Clara, mio nonno la televisione l’ha conosciuta molto bene e forse non gli fa piacere stare qui tutto il giorno a vederla”.
Stefano: E lei?
Tom: E lei: “Sì, ma quella a colori non era ancora stata inventata!”
Stefano: Ah, tuo nonno era davvero straordinario, ma non puoi ricordartelo.
Tom: Sì che me lo ricordo. Qualcosa, almeno. Mi ricordo che quand’ero bambino saltava come un orso, i piedi larghi, le braccia in avanti, in mezzo alla strada. Per farmi divertire. “Ti faccio l’orso”, mi diceva. Una volta, pensandoci, mi sono vergognato, ma poi ho capito che avevo un grande nonno. Peccato che sia morto presto.
Stefano: Sì, era davvero straordinario, tuo nonno. Ma parliamo di te. Come va all’università?
Tom: Né bene né male.
Stefano: C’è molto da studiare?
Tom: C’è da studiare. Qui, ora ci si è messi in testa che a diciannove anni uno non sa né scrivere né leggere. Diciamo che si scrive con molti errori e che non si capisce ciò che si legge. E gli studenti hanno messo a ferro e fuoco i dipartimenti di Letteratura Comparata, di Linguistica e di Storia dell’Arte. E ciò non aiuta né a leggere né a scrivere.
Stefano: Ma quali sono le vostre tendenze?
Tom: Stiamo a vedere. Siamo scettici. La tendenza non è più umanistica ma sociologica. Si vuole attrezzare lo studente alle battaglie per il posto, gli si vuole dare una garanzia nel tempo.
Stefano: Ma tu non sei d’accordo.
Tom: Non riusciamo a trovare una logica per una azione comune. I tentativi fatti negli atti scorsi sono falliti e ora c’è chi approfitta di quel fallimento. L’azione comune doveva sboccare nella rivoluzione, probabilmente. Ma questo non è il paese delle rivoluzioni.
Stefano: Tuttavia le ideologie ci sono, restano.
Tom: Si vede che vieni dall’Italia. Le ideologie non riescono neanche a realizzare la parte buona di sé, cioè l’uguaglianza tra gli uomini. Ci sono sempre enormi distanze tra ciò che si pensa e ciò che non si può dire.
Stefano: Ma in Italia, pensi che non ci sia più intelligenza?
Tom: Ce n’è, ma molto viziata.
Stefano: Viziata da cosa? L’intelligenza o c’è o non c’è.
Tom: No, non è così. Per esempio: non si riesce a capire perché in un paese dove c’è l’idolatria dei test di intelligenza il potere sia sempre in mano a degli stupidi. E sai chi è che non riesce a capirlo? La gente che passa cinque ore al giorno davanti al televisore.
Stefano: Tu capisci, invece?
Tom: Forse.
Stefano: Ma tu e la tua generazione, non siete preoccupati del futuro?
Tom: Vuoi dire, la Bomba e la fine del mondo? Uhm, si preferisce stare nel concreto. Io preferisco non pensarci, tanto dovrà tutto finire, un giorno. Ah, prima che me ne dimentichi: eccoti l’assegno. Mamma dice che la cifra dovrebbe andar bene.
Stefano: È troppo, una tale somma. È molto gentile, e generosa, ma non posso accettarla.
Tom: Perché no? Parti oggi, mi sembra, come farai senza? Tienilo.
Stefano: Dì alla mamma che la ringrazio.
Tom: Sai? tu piaceresti a Delma. Delma è la mia ragazza, si occupa di astronomia. Anzi, è un’appassionata dello spazio, di cose extraterrestri. Fa pratica nella redazione di una rivista specializzata. C’è un sacco di cose da dire sullo spazio.
Stefano: Davvero? Se è così mi hai dato un’idea: appena sarò a Milano proporrò una trasmissione sullo spazio. Meglio smetterla con lo spirito.
Tom: Come si sta a Milano adesso?
Stefano: Milano non è una bella città, ma è una città straordinaria.
Tom: Vederti mi ha fatto desiderare di venire a Milano.
Stefano: Sul serio?
Tom: Ma pensavo che prima fossi tu a volere venire a N. Y.
Stefano: Vuoi sapere una cosa? Prima credevo di essere venuto a New York per lavoro. Poi mi sono accorto che c’era dell’altro. Che c’eri tu. Certe cose si fanno, prima o poi. Senti, Tom, perché non vieni a Milano in settembre? È un bel mese. A casa mia c’è posto. Ci arrangiamo. Poi prendiamo la macchina e giriamo come ci pare, a pelle di leopardo.
Tom: Vedremo.
(Squilla il telefono.)
Stefano: Pronto?! … Sì… Scendo subito. (Riattacca.) Era la portineria. Il taxi che mi porterà all’aeroporto mi sta aspettando… Beh, credo che dobbiamo salutarci.
Tom: No! … Non ancora. Ti accompagno con la mia auto… Così possiamo parlare ancora, dirci le cose che possiamo fare a Milano.
(Tom prende le valige ed esce precedendo il padre. Stefano esita, si guarda attorno, vede i nastri rimasti sul tavolo, li prende, li guarda pensieroso e poi li butta nel cestino. Esce soddisfatto.)

Scena undicesima

La scena precedente è stata per Levanzo un sogno ad occhi aperti. La sua realtà comincia dalla presente scena.
Levanzo è in camera, ha la gamba ancora ingessata e tiene ancora in mano i nastri che Martha gli ha consegnato. Echeggiano le ultime parole di Martha Ross.

Martha: Stia tranquillo: se lei non vuole, nessuno nella trasmissione sarà riconoscibile. Né lei, né sua moglie, né suo figlio.
.................
Martha: È sicuro che non vuole essere accompagnato a togliere il gesso?
Stefano: Sì. Verrà mio figlio a trovarmi, oggi. Lo sto aspettando. Gli chiederò di accompagnarmi al Medical Centre. Ne approfitterò per domandargli di sé, dei suoi progetti. Scambieremo quattro chiacchiere e poi mi porterà all’aeroporto: di sicuro ha l’automobile. Mi accompagnerà all’aeroporto e magari vorrà venire a Milano con me. Proprio così. Ma io gli dirò che lo aspetto a settembre. È bella Milano di settembre. Che ore sono? Nora mi ha detto che sarebbe venuto a trovarmi stamani, ma avrà avuto qualche incontro: sà come sono i giovani. Lo aspetterò ancora un po’, se non si farà vivo chiamerò un taxi.
Martha: Come vuole lei.
Stefano: E se non verrà telefonerò a sua madre… anzi, andrò personalmente da lei e… Ma no: verrà, verrà. Sono sicuro che verrà. Ho questi nastri da consegnargli. Ho tante cose da dirgli, da raccontargli, che mi racconterà.
(Pausa. Stefano passeggia nervosamente, guarda l’orologio.)
Stefano: Va be’: lo aspetterò giù nell’atrio.
(Stefano si avvia ad uscire quando, all’improvviso, compare Nora sulla porta d’ingresso.)
Nora: Ciao Stefano.
Stefano: Nora! Mi avevi detto…
Nora: È qui. Tom è qui. (Girandosi verso la porta e porgendo la mano:) Vieni Tom, vieni a salutare papà.
(Tenuto per mano, entra in scena Tom: è lo stesso ragazzo della “scena decima”, quella del sogno. Però adesso Tom è un minorato psichico.)
Nora: Eccolo, tuo figlio.
Tom: Ci-ao papà. Co-come stai? È mooolto… teempo… che vole-vo… salutarti.
Nora: Per vent’anni gli ho insegnato questa frase.
(Stefano si avvicina al figlio, lo guarda, guarda la moglie, si gira a guardare Martha, poi abbassa lo sguardo sui nastri, li soppesa e li va a gettare nel cestino.)

B U I O