Il collezionista

di

Maria Letizia Compatangelo


Un vecchio si aggira sul pancoscenico vuoto, cercando affannosamente. È molto vecchio ma il suo incedere non è cadente, anzi piuttosto nervoso.


Niente! Anche qui…  niente. Il vuoto mi insegue, me lo porto dietro… mi preme da  dentro, mi impedisce di respirare… (si appoggia alla parete) La Natura rifugge il vuoto e io sono ancora umano troppo umano!  (parla rivolto verso l’alto) Ho capito! È la mia punizione, la accetto!
Ma per quanto tempo, mio Dio?! Non sono stato un grande peccatore -  e per questo non merito la dannazione, evidentemente, e Ti ringrazio… - Ma quando finirà questa espiazione!
Purificazione, purificazione e distacco dalle cose terrene, lo so, ma io…  
(al pubblico) Qualcuno ha detto che l’inferno si sconta vivendo, ma il purgatorio, credetemi, è molto peggio.  È… assenza, è oscurità, solitudine. È il dolore della privazione, la penitenza della spoliazione, il buio sospeso nel nulla. Un nulla che ti avvolge, che ti insegue, ricordandoti tutto quello che ti sei lasciato alle spalle… (sorride ironico, suo malgrado) E io me ne sono lasciate, di cose, alle spalle!
- E poi, il Paradiso? Cosa troverò in Paradiso, se mai ne sarò degno? La felicità è diversa per ognuno, per ogni anima… o no?  Per una persona il Paradiso è la contemplazione del volto del Padre, per un’altra ritrovare i propri cari, per un’altra quaranta vergini - non discuto - o un tramonto infinito sul mare …
Io so già cosa vorrei.
Ci ho riflettuto tanto… Sono sessant’anni che ci penso! Nulla che non si possa fare… (guardando verso l’alto) Con le possibilità che avete lassù!
Una Wunderkammer. Solo una piccola, semplicissima wunderkammer.  (socchiude gli occhi, goloso) Una Camera delle Meraviglie tutta per me. Tutta piena piena piena piena di TUTTO, che contenga (rapito) e che consenta… la conoscenza assoluta di tutti i saperi dell’uomo. Sì, dell’uomo. Solo dell’uomo.
Mi interessa la specie di cui ho fatto parte per novantadue anni. Mi basta. Non pretendo di penetrare il mistero del cosmo.
(a Dio) Lo vedi? Non sono poi così blasfemo, così arrogante!
Non ho fatto altro che inseguire questa conoscenza, a modo mio, per tutta la vita, e quindi cos’altro potrei desiderare?

Io sono stato (allarga le braccia, sconfitto) Io sono un Collezionista.
IL Collezionista.
Evan Gorga.
O quel che ne rimane… Diciamo pure il suo fantasma.
E so che qui, in questo luogo di Roma, a Palazzo Altemps, è conservata una parte, uno scampolo… di quello che è stato il mio mondo. La mia collezione.
Ma non riesco a trovarla.
Sapere che è qui, forse a pochi passi, forse al piano di sopra o di sotto di questo palazzo dove tutto è cominciato… (canta) mi fa fremere,  e sospirare…   Ma che sto facendo! - È la mia punizione.  Lo so. Non la troverò mai.
(al pubblico) Ma voi potreste! E io potrei rivederla nei vostri occhi. La collezione di Evan Gorga.
Detto anche il tenore collezionista, ma questa è un’altra storia.
O forse no.
Perché in fondo tutto è cominciato con la musica, quando dal Collegio  scappavo qui vicino, al Teatro Apollo, e mi ubriacavo di opera! Arie, romanze, recitativi… mondi fantastici, emozioni che mi scuotevano il sangue e mi facevano sognare… Io adoravo il teatro! E sognavo di poter essere io, un giorno, sul palcoscenico, a dare voce a quegli eroi  valorosi e incantatori.
Ma a casa mia, è ovvio, non se ne poteva neanche parlare. Nella nobile famiglia Gorga, che alternava il soggiorno tra Roma e il palazzo di Brocco nella Valle Comino, l’arte era qualcosa di alto e spirituale a cui bisognava essere educati per poterne discutere con dovizia nei salotti. - Ma darsi all’arte? Come dire dedicarsi al mercimonio. Alla lussuria. Al peccato e al disonore.
(coro di voci bianche)
Fui mandato al Collegio Ghislieri e mi sfogavo cantando proprio qui, nell’oratorio del Palazzo del Duca Altemps, in attesa di crescere e fare onore ai miei avi. L’unica concessione che riuscii a strappare fu di studiare la musica, occupazione considerata roba da fanciulle, ma solo perché mio fratello Domenico gestiva un importante negozio di pianoforti. Era lì che mi esercitavo, con una passione, una dedizione… una furia… come in tutte le cose della mia vita.
«Senti stu bardascio comme sona bbóne! – esclamava Domenico – Ma da dove le tiri fuori tutte queste note?».
«Sono abbellimenti, Dome’. Sai quando dico che i cantanti dovrebbero porgere il canto in modo più elegante? Io provo a farlo con il piano…».
«Bravo, ma ora dobbiamo riparare il pianoforte degli Odescalchi e l’armonium per Don Giuseppe, vieni ad aiutarmi...».

E più mio fratello mi insegnava a riparare, restaurare, accordare, più io mi innamoravo perdutamente di quelle macchine meravigliose capaci di produrre non la velocità del treno o l’elettricità delle turbine, ma qualcosa di necessario per gli umani quanto il pane: l’armonia.
(con amore) Ho cominciato così, raccogliendo e curando strumenti abbandonati, e così, pian piano, ha cominciato a prendere forma la mia prima collezione, la più amata. Non esiste strumento, anche il più vecchio e malandato, che con le debite cure non sappia regalarci la musica che possiede.
Perché a me non interessava solo suonare, io volevo impadronirmi del segreto della nascita delle note, là dove si origina e scaturisce la musica: passavo così le mie giornate, ed era un paradiso (guarda di nuovo su) senza offesa.
«O frate, ma sai che stu pezzo che hai scritto è proprio bellillu? E pure li altri! Il Commendatore Ricordi li vuole pubblicare.».
«Sono solo pezzi da ballo, Dome’, per sciogliere la mano… La musica vera è un’altra cosa!».
E un giorno, proprio mentre sono lì che sperimento le mie composizioni, entra in negozio il cavaliere Antonio Pascarella, che decide di assumermi come pianista accompagnatore. Quando lo dissi a casa… Apriti cielo! Ma la proposta veniva dal Maestro di ballo della Corte d’Italia, tutta l’aristocrazia nazionale e il Corpo diplomatico internazionale pendevano dalle sue labbra! I miei genitori dovettero arrendersi… e di colpo le porte dei salotti più esclusivi della Capitale si aprirono per accogliermi. - Ero ufficialmente entrato in società!

Musica. Il protagonista si gira mentre cambiano le luci, si spoglia della sua vecchiezza e quindi  torna a mostrarsi al pubblico, ma ora è giovane, aitante, snello, elegante, con una folta capigliatura e i baffi corvini.
Proiezione di una sala gremita di nobili, ufficiali in alta uniforme e dame ingioiellate che volteggiano allegramente nella danza.

Non lo sapevamo ancora, ma era cominciato il sogno della Belle Epoque! La pace, finalmente, e l’attesa della felicità che sicuramente la scienza, la medicina, in una parola il progresso, avrebbero portato.
Un tempo sospeso e febbrile, sensuale e sfavillante come i diademi adagiati sulle testoline delle damigelle, trionfanti sulle acconciature di nobildonne  potenti, che al ballo mi sfioravano e mi inebriavano con il loro profumo, delicato come il frullare d’ali di farfalle, mentre mi volteggiavano intorno tra le braccia dei loro cavalieri… tutte incuriosite da me, il giovane musicista di nobili origini, bello, colto… e pure facoltoso!
Perché nel frattempo, con mio fratello avevamo inaugurato una fabbrica di pianoforti, la premiata “Ditta Domenico ed Evangelista Gorga”… niente male, a soli ventun’anni, no?

Evan, il maestro Pascarella chiede i nuovi brani per il ballo della Regina Margherita!
Evan, la principessina Pallavicini vuole solo te come maestro di piano!
Evan, la moglie del Commendatore Erculei aspetta per l’accordatura del piano che ha acquistato!
  E gli inviti, le passeggiate a cavallo, i déjeuner sur l’herbe…
(cantando l’aria de Il barbiere di Siviglia, di Rossini) Figaro! Figaro, Figaro, Figaro…
«Evan! Finiscila di pazzia’ e aiutame, che mi stong a struii co’ la sordina de stu pianoforte!» – questo era mio fratello, che si divertiva a parlare ciociaro, quando eravamo soli.  
Evan, Evan, Evan… il nuovo Figaro della città. E che città!

Roma era al culmine della sua bellezza: una gemma preziosa, incastonata tra il verde dei colli e l’azzurro dei laghi, che irraggiava tutt’intorno i riflessi del suo splendore, come una fanciulla che al risveglio allunga le braccia morbide e affusolate tra i capelli dorati sciolti sul cuscino… Così Roma si espandeva, e cresceva…
L’Appia, la Salaria, la Flaminia, la Tuscolana, il Tevere: era tutto un correre e un procedere di carri, cavalli, carrozze, barche, battelli. E tutto un costruire… Ovunque si scavava, si planimetrava, si erigevano monumenti, case, palazzi, teatri… Una febbre contagiosa, una gara per rendere più bella e più grande la capitale del nuovo Regno d’Italia. E io ero lì: non potevo non accorgermi dei tesori che dal ventre della Città Eterna venivano alla luce ogni minuto, non accorgermi di tutti i reperti preziosissimi che finivano ridotti in briciole!
Era come assistere ad un banchetto, e si sa come succede, non si può resistere, prima o poi allunghi la mano anche tu, per assaggiare… e poi ne vuoi ancora, e ancora… E ti guardi intorno e vedi altri come te, intorno al banchetto, antiquari, trafficanti, collezionisti… pronti anche loro ad allungare la mano – e capisci che devi essere più rapido!!!  
Cominciai a comprare. Di nascosto, come un ladro, in gara contro gli altri antiquari e i ricettatori, dicendomi che era per una buona causa, per non far finire al macero o in mani sbagliate preziose testimonianze del passato. Proprio come avevo fatto con gli strumenti musicali, che ormai erano già una vera collezione. (con rimpianto goloso, addirittura retrospettivo) Quando cominciarono a erigere i muraglioni del Tevere ero ancora un bambino, purtroppo… Quanti tesori saranno andati perduti allora… Solo gli scavi a Villa Farnesina, dico, la Villa costruita da Raffaello, dove Lui aveva lavorato! E la distruzione di Villa Altoviti! E il porto di Ripetta!
(si rivolge di nuovo verso l’alto)
Lo so, la mia ingordigia di collezionista non ha fine e nemmeno inizio, a quanto pare, mentre io dovrei preoccuparmi della mia salvazione! Ma è la mia natura! E questo vuoto, tutt’intorno… Si può riempire solo  con i ricordi.

Suono melodioso di una lira chitarra.

«Senti, Dome’, la senti la tonalità, com’è più squillante, adesso?»
«Nun la tocca’ Evan, pe’ carità, che è perfetta! Ricordate di comme diceva zì’ Guglielmina: “il meglio è lu nemicu del bene”! Questa lira chitarra, col sistema nuovo che ti sei inventato, alla Mostra Industriale è stata battezzata e comunicata da tutti gli esperti, ci hanno dato la medaglia e persino la Regina Margherita ne ha ordinata una, dopo che l’ha sentita sona’ dal Basile! - Lo dicevo io, a mammà e patemo: lasciatelo fare, a stu bardascio! Io sono l’imprenditore e penso ai piccioli, ma Evan è l’artista!».
«L’idea di indirizzarla alle signore, però, è tua! E ora tutte le dame di Roma vogliono la lira chitarra, per suonare in una postura ispirata e sembrare più belle! Sei tu il  genio, Dome’.».

Era bello stare con mio fratello, l’unico che mi ha sempre capito.
La musica era la nostra vita e il nostro pane dorato. Immaginate il mondo a quell’epoca… la radio non era ancora nata, il fonografo stava ancora nella mente di Edison… Oggi non sembra concepibile, ma allora, per godere della musica, esistevano solo due possibilità: o recarsi a sentirla suonare nei teatri, oppure eseguirla in casa. (sorride furbetto) E per questo tutti dovevano venire da noi, dai Fratelli Gorga, o dai Ricordi, o dai Massarotti… a comprare strumenti e spartiti. Chiunque desiderasse addolcire le proprie giornate con la musica, doveva possedere uno strumento, e accordarlo, e farlo riparare…
Insomma, un settore in costante sviluppo, Domenico e io avevamo di che essere tranquilli e soddisfatti per il resto dei nostri giorni.
MA “soddisfatto” è un termine che poche volte ho adoperato nella mia vita. Oh sì, lo sarò sicuramente stato, a volte coscientemente e a volte no, ma si è sempre trattato di uno stato mutevole e passeggero, inafferrabile, come la felicità… che è qualcosa che non si vive ma si ricorda, perché mentre la viviamo non ce ne rendiamo conto.
O vanitas vanitatum! (guarda in alto) Noi umani siamo stupidi, ci dovevi fare più intelligenti! E la vanità ci mette una bella mano a non farci capire niente.
(sorride) Ero bello, giovane, ricco, facevo un lavoro che amavo, ero corteggiato da un nugolo di fanciulle in fiore… cosa mi mancava? Potevo dirmi più che soddisfatto, no? E invece, da qualche angolo nascosto della mente in cui era rimasto annidato per anni, rispuntò fuori il mio vecchio sogno.
«Ma che vai cercanno?», si chiedeva Domenico.
«Mi so’ stufato, Dome’, tutti vogliono sentirmi cantare e io mi sento un pappagallo messo in mostra nei solotti. Sono troppo ignorante!».
«Ma se ‘ggni volta se ne cadono i lampadari per gli applausi!».
«Dome’, lo sai che voglio dire. Io devo capire la tecnica, come funziona. - Come con i pianoforti. Voglio prendere lezioni di canto.».
«E che tte devo da di’? Li piccioli te li sì guadambiati… E gioca, se vôi gioca’!».

E io giocai, senza sapere che non si può giocare con l’arte. È come scherzare col fuoco, e a scherzare col fuoco ci si può bruciare, o scatenare un incendio... Il che fu esattamente quello che avvenne, il 1° febbraio 1896, al Teatro Regio di Torino. E le fiamme divamparono altissime, in tutto il mondo.
Era la prima della Boheme del Maestro Puccini.
Perché fui io il suo primo Rodolfo. Il primo Rodolfo della storia.
Ma cosa era successo? In realtà io avevo solo soddisfatto il mio desiderio e preso lezioni di canto dal maestro Aristide Franceschetti, senza lontanamente immaginare quanto si sarebbero rivelate preziose: una tecnica corretta sostiene tutto, l’emissione, l’interpretazione, la comunicazione con il pubblico. Ti aiuta a non rovinarti le corde vocali, ad affrontare il palcoscenico più tranquillo, e cantare anche quando non sei in perfetta salute… Ma all’epoca tutto questo non si studiava, a un cantante si richiedeva solo “Voce, voce, voce!”. Come un bue che deve solo tirare, tirare, tirare.
E infatti i cantanti spesso assomigliavano anche, a dei buoi.
Mentre io ero snello, alto, elegante. Conoscevo la musica, frequentavo i teatri, ponevo delle domande, ero amico di tutti. E un giorno Francesco Tamagno, rimasto all’improvviso senza voce, mi fa: «Gorga, mi devi fare un favore, domani devi sostituirmi nell’Ernani…. Te la senti? Tranquillo, è solo una recita in provincia.». Cantare? Per davvero?! Il grande Tamagno mi stava chiedendo di prendere il suo posto?! Avevo una paura tremenda ma l’occasione era troppo ghiotta: potevo mettermi alla prova, con la scusa del favore a un amico, e se avessi fallito non l’avrebbe saputo nessuno.

Aria dall’Ernani

Invece andò bene, ma così bene… che se Tamagno l’avesse immaginato, forse avrebbe preferito annullare la replica!
Da cosa nasce cosa: la voce si sparse e arrivò il debutto ufficiale, a Cagliari… e poi a Roma, di fronte al mio pubblico, al Costanzi, con I lombardi alla prima crociata! Un trionfo. Delirio del pubblico, osanna di tutti i critici.
E dopo un po’ Giulio Ricordi mi chiama su a Milano per un’audizione per la nuova opera di Giacomo Puccini, La Bohème.
Davanti a me trovo schierati Ricordi, Puccini, Carignani, Illica, Giacosa… e Toscanini! Ancora giovane ma già rinomato per severità e caratteraccio.
Chissà, forse mi ha aiutato sapere di non dipendere da loro per vivere, fatto sta che non mi scomposi e cantai, aria dopo aria, imponendo il mio stile… concludendo ad arte proprio con un’aria di Puccini, “Donna non vidi mai”, della Manon. Mentre uscivo, udii Illica che diceva in milanese a Giacosa: «El g’ha pur le physique du rol!». La parte era mia.
Ma non furono rose e fiori. Le prove furono massacranti, Puccini era diffidente, scontento, temeva che non ce l’avrei fatta ad arrivare sino in fondo. E invece la tecnica mi venne in aiuto e alla fine il temutissimo pubblico del Regio decretò il successo de La Bohème. O perlomeno di interpreti e orchestra: quindici chiamate alla ribalta e non so quanti bis reclamati a gran voce - che però nessuno concesse, su ordine di Toscanini. E regali, gioielli, corone di alloro, pioggia di nuovi contratti! Giulio Ricordi aveva fatto centro, puntando su giovani artisti per un’opera nuova, che parlava di giovani, ma soprattutto scommettendo su di me, Evan Gorga!

Che gelida manina

Ero entrato di diritto nell’olimpo dei maggiori, tra Marconi, Tamagno, De Lucia… e Caruso. E tra tutti, il più bravo come attore ero io. Sapete cosa disse Mascagni a Puccini? «Ma  che, te lo sei fabbricato apposta, quel tenore?». Perché nessuno prima di me si era mosso sul palco come il sottoscritto, nessuno si era mai calato nel personaggio come me! (tira fuori dalla tasca uno spartito) Ecco qua, lo spartito originale, dono del Maestro: «Al bravo mio primo Rodolfo, signor Evan Gorga. Ricordo di Giacomo Puccini.».
Ero riuscito a guadagnarmi la stima del più grande compositore vivente… e stavo anche guadagnando una montagna di soldi, ero diventato l’idolo delle folle! Soprattutto femminili, è ovvio, con grande disappunto della mia piccola Loreta, perché nel frattempo mi ero anche sposato, soddisfacendo almeno una delle aspettative dei miei genitori. Una vita piena.

Ero felice? Non lo so. Ero lusingato, camminavo a mezzo metro d’altezza per l’orgoglio… Soprattutto ero sopraffatto dallo stupore di vivere nella realtà il mio sogno di ragazzo: emozionare le folle sull’onda della musica, con la mia voce! Ho cantato nei più importanti teatri lirici italiani, incessantemente, per tre anni di fila, inanellando successo dopo successo… - Ma non ho mai detto all’attimo fuggente «Fermati, sei bello!». E presto l’eccitazione della scommessa, la gioia dell’esibirmi di fronte al pubblico, il brivido provocato dagli applausi cominciarono ad affievolirsi, a non appagarmi più.
Stavo cominciando ad annoiarmi.
E visto che di soldi ne avevo guadagnati a palate - senza contare quelli di Loreta - forse per distrarmi, o per riempire il vuoto delle giornate lontano da casa, ricominciai a cercare. Ovunque andassi, mercati, scavi e botteghe antiquarie erano il mio territorio di caccia: ricordo che tornai da Napoli felice come una pasqua, e non per aver retto degnamente il confronto con De Lucia, ma per i reperti che ero riuscito a portarmi a Roma!
«Che strana passione ti ha preso, Evan!», esclamò Loreta, quando mi vide arrivare a casa con quindici quintali di reperti stipati in tre carrozze. Lo disse con tenerezza, in fondo contenta che applicassi la mia attenzione a pezzi di terracotta e vetri colorati piuttosto che a procaci donnine, ma quella frase cominciò a farmi riflettere.

Avevo sempre pensato che il canto fosse la mia passione, e invece mi ero sbagliato. Il canto era il sogno, il primo amore, purissimo, di ragazzo, un amore che ho onorato con tutto me stesso, ma la passione – la passione è un’altra cosa. È travolgente, irragionevole, esigente.
Avrei dovuto saperlo, io che in palcoscenico ne avevo interpretate tante di passioni, e da dio! (guarda verso l’alto) Si fa per dire!
Quando me ne resi conto pienamente, ero ormai divorato. Perso, preso, posseduto senza rimedio. La mia passione era cercare, raccogliere, catalogare, ogni possibile testimonianza della civiltà umana nella religione, nelle scienze, nelle arti e nel lavoro… Tutto! Io volevo tutto, mi interessava tutto e ogni volta che riuscivo a mettere le mani anche solo su un piccolo frammento colorato riemerso da chissà quale notte dei tempi il brivido, quel brivido che ti fa sentire vivo tornava a scuotermi, e ogni volta avvertivo la carezza sfuggente della felicità!
Ma le passioni si pagano e richiedono un prezzo altissimo: la vita.
La tua e quella di chi ti sta accanto.

Essere costretto ad allontanarmi da Roma in quel periodo di scavi febbrili e continue scoperte archeologiche era un tormento: quanto tesori mi stavo facendo scappare, quanti preziosi reperti stavano per finire distrutti o nelle mani dei miei concorrenti?
No, non potevo più permettermi le tournées. Dovevo stare all’erta, dovevo sorvegliare. Anche di notte. Quante volte ho inseguito gli operai con le carriole traboccanti di detriti! E se vi scorgevo qualcosa, se anche solo un briciolo di manufatto spuntava tra i calcinacci, io compravo, compravo tutto.
Intanto la mia piccola Loreta si angustiava per le mie assenze, pensando a delle amanti: temeva soprattutto le cantanti, maliarde fatali contro le quali lei, giovane e inesperta, sentiva di non poter competere. Era un fiore delicato e dolce, Loreta, proprio come Margherita di Faust. E io un po’ mi sentivo Faust – che tra l’altro avevo interpretato con grande successo – e incurante del pericolo di una tale similitudine, cominciai in segreto a pensare come Faust, e come Faust a cercare di possedere tutto il sapere, a modo mio, a vagheggiare la creazione di un Museo Enciclopedico che comprendesse tutto lo scibile, dai tempi protostorici all’epoca contemporanea.

Tradivo mia moglie per un unico vizio, il collezionismo, ma non osavo confessarglielo, lasciandola a tormentarsi… sino a quando, un bel giorno,  Loreta prese coraggio e, accennando con garbo al fatto di essere abbastanza ricca per tutti e due, per mi propose di lasciare il teatro: «Tu sei un gentiluomo, Evan, non hai bisogno di lavorare. La vita del teatrante non si addice a un vero signore, potresti impegnarti in altre attività, più confacenti al nostro rango… Il collezionismo, per esempio, che ti piace tanto!».
La mia piccola, innocente Margherita! Ignara che, lungi dal chiedere a me un sacrificio, stava invece offrendo il suo, Loreta aveva compiuto il miracolo, esaudendo il mio desiderio più profondo: poter restare a Roma e dedicarmi alla costruzione del mio Museo dello scibile!

Il canto è un’arte magnifica, ma la sua consistenza è effimera, come la magia del teatro. Passa, come sono passati i re e le feste della regina Margherita…
Forse per questo collezionavo con tanto accanimento ogni tipo di strumento venuto al mondo: perché lo strumento conserva la musica dentro di sé, mentre il cantante, perdendo la voce, la perde.
L’effimero contro il duraturo, l’eterno.
  Era questo che volevo, e non mi è costato affatto rinunciare al successo come  tenore per tuffarmi nello studio, come Faust.
Anzi, me la sono proprio goduta!
Vivere a Roma mentre si costruivano il Vittoriano, Piazza Venezia, il Palazzaccio, la via dell’Impero! Mi sentivo un bambino nel paese dei balocchi: reperti, reperti, reperti, cocci, vasi, vetri, fibule, aghi, monete…
Un’orgia, uno spasso, una scorpacciata!

Madamina, il catalogo è questo

Ogni giorno passavo in rassegna i miei fornitori di fiducia: antiquari e mercanti, ladri e tombaroli, contadini che smerciavano a piazza Montanara le “anticaje e petrelle” rinvenute lavorando i campi,  e gli operai addetti agli scavi, che ormai si erano imbirbiti e vendevano di tutto, aggirando con abilità le Commissioni di controllo per i Beni archeologici.
Avevo un biglietto da visita speciale per questi commerci… (lo estrae dalla tasca) “G. Evan. Acquista istrumenti musicali di qualunque specie, vetri, smalti, terracotte, ossi, avori, bronzi ed altre antichità di scavo e di altre epoche.”.  
Sì, mi interessava praticamente tutto. Perché vi ho detto come succede… inizi allungando una mano ma non sai cosa ti capita: cerchi un liuto e ti propongono una serie di antefisse, tratti per delle armi dell’Impero romano e ci trovi in mezzo ferri chirurgici medievali… Un lavoro senza fine, non facevo che iniziare nuove raccolte.
Ho acquistato e catalogato materiali per ventidue collezioni e otto Musei: il Museo dei Bronzi di scavo; degli Istrumenti musicali; della Maiolica e Porcellana; della Sanità dal X secolo; il Museo del Teatro; delle Terrecotte; dei Vetri e Smalti e un Museo Enciclopedico, con oggetti di tutto lo scibile – questi però li usavo essenzialmente come scambi… oppure come cadeau.

Ah, sì! Ne hanno dette tante, su di me, ma nessuno ha mai potuto definirmi avaro: ho donato con gioia a chi sapevo in grado di apprezzare il valore dell’oggetto, così come volentieri prestavo i miei strumenti ai grandi musicisti.
I miei concorrenti hanno tentato di dipingermi come un accumulatore maniacale, o come un commerciante senza preparazione… ma bastava entrare nelle stanze dei miei tesori per ricredersi. E in quanti sono venuti! Toscanini, Mascagni, il Duca d’Aosta, l’Infanta di Spagna, principi e nobili d’ogni rango, direttori di Musei, critici musicali, studiosi: era un piacere offrire un cadeau a siffatti ospiti, in cambio chiedevo solo che mi scrivessero le loro  impressioni sulla visita.
Mi piaceva rileggerle, riassaporare la loro meraviglia e il loro entusiasmo, rivivere ogni volta la conferma che tante belle menti avevano apprezzato la mia creatura e condiviso la mia gioia. Era carburante che ridava impulso al mio ardore, e spesso ne avevo bisogno: non potete immaginare le gelosie, i tiri mancini, le calunnie tra collezionisti!
Io li lasciavo parlare… e continuavo a comprare, analizzare, catalogare, sistemare nelle stanze.
Tra loro e me, che stavo costruendo il Museo dello scibile, c’era un abisso.
Amatoriale io? Loro, dilettanti. Io, leonardesco.
Possedevo un eccezionale intuito per l’antico, capacità innata che però io ho coltivato, e accresciuto, con notti e notti di studio, come Faust! – Tant’è che nessuno mai – beh, quasi mai – è riuscito a rifilarmi dei falsi.
Tenevo segreta la provenienza di alcuni pezzi? Ma è ovvio! Cosa dovevo scrivere sul cartellino: «Fibula d’età imperiale proveniente dal magazzino di Giovannino Fabiani, trafficante noto ai Reali Carabinieri»?! L’importante per me era salvare preziose testimonianze della civiltà.

E comunque si trattava di casi sporadici: gli strumenti musicali, per esempio, erano tutti certificati e con loro mi sono preso una delle soddisfazioni più grandi della mia vita… perché chi c’era nel 1911 alla Mostra per i cinquant’anni del  Regno d’Italia? C’erano loro? Gli altri antiquari pettegoli? No. C’era Evan Gorga! Con i miei mille strumenti, esposti accanto a quelli prestati dalla Regina – molto pochi –, con la mia tromba da araldo adoperata per la canonizzazione di Santa Caterina, con i miei bozzetti di Michelangelo e del Bernini, con il mio cembalo tedesco, il più antico al mondo, e le due tibie di età romana e le spinette, i liuti, le mandole, i pianoforti…
Fui orgoglioso di donare al nascente Museo di Castel Sant’Angelo alcuni preziosi bronzetti, e con orgoglio di patriota declinai l’offerta di John Morgan, che mi offrì due milioni di lire per portarsi in America gli strumenti esposti.
Quando rifiutai, Morgan propose di fissare io stesso il prezzo.
Stavo finendo di dilapidare due patrimoni, quei milioni sarebbero stati la soluzione di tanti problemi, avrei potuto ricominciare con nuove collezioni…
Avrei potuto, certo… - se il mio fosse stato solo un vizio, un commercio o una volgare speculazione, senza uno scopo superiore, senza l’ardente desiderio che tutti i miei tesori restassero in Patria, per diventare patrimonio di tutti gli italiani.
Rifiutai nuovamente.

Loreta capì, e non si oppose alla mia decisione. Non le importava che spendessi tutti i nostri averi per la mia passione, l’unica con cui era disposta a dividermi.
Ci eravamo trasferiti nel nuovo quartiere di Prati, in un elegante stabile in via Cola di Rienzo, dove per far posto alle mie collezioni avevo affittato dieci appartamenti comunicanti - che bastavano a malapena per contenere i 150.000 pezzi che le componevano. Arredai io stesso le varie sale, la maggior parte occupate dal Museo degli strumenti musicali: centinaia di esemplari che esposi ad arte, riuscendo a coniugare la corretta classificazione Sachs/von Hombostel – alla faccia di chi mi diceva ignorante – con un effetto estetico di grande spettacolarità.
Costruire il mio museo era la mia vita, che dividevo con Loreta e il piccolo Pio: quante volte ho costruito per lui piccole armate con le mie statuine dell’età del bronzo! – Ma lui preferiva i suoi soldatini di piombo colorati… Naturale. Era troppo piccino. Tendeva a rompere un po’ tutto, come fanno i bambini, e quindi molte sale dovevo tenerle chiuse a chiave… ma non perché non volessi condividere i miei tesori! Aspettavo solo che Pio crescesse, per raccontargli le storie bellissime che ogni oggetto racchiude, anche il più minuto, anche una piccola scheggia di vetro colorato. Gliene avrei svelato l’anima segreta. E forse lui, dopo di me, avrebbe continuato a raccontarle...
Perché è questo che fa un Museo, raccoglie e tramanda le storie, per far capire all’uomo che cosa è e cosa vuol dire esistere sotto il cielo.
Provvedevo personalmente al restauro e alle riparazioni degli strumenti, non lo avrei permesso a nessun altro. Era il mio piacere. E ogni giorno, a turno, ne suonavo qualcuno, per fargli riprendere vita. Sapevo che ne avevano bisogno e sapevo che a Loreta piaceva ascoltarmi. Viveva come un’ombra, dopo la scomparsa di nostro figlio. La mia ombra fedele e discreta.
E morì, ancora giovane, nella nostra casa-museo di via Cola di Rienzo 285, raggiungendo in cielo il nostro bambino.

La sua morte cominciò a farmi riflettere sul futuro. Avevo sessant’anni, ero solo… cosa ne sarebbe stato dei tesori ai quali avevo dedicato tutta la mia vita?
Sì, c’erano anche i creditori da tenere a bada, ma non erano loro il problema: sarebbe bastato cedere una o due collezioni a qualche antiquario straniero per sistemarmi per il resto dei miei giorni. Bastava un telegramma a Morgan, si sarebbe precipitato.
Ma io non volevo vendere! Non volevo smembrare le mie raccolte, facendo finire qua e là nel mondo la mia creatura ridotta in pezzi. Ma quale mecenate italiano avrebbe potuto permettersi di comprare in blocco le mie collezioni?

L’unico possibile acquirante era lo Stato, che nel ’26 incaricò Ottorino Respighi di stendere una relazione sul Museo degli Strumenti Musicali. Respighi scrisse parole ammirate, musica per le mie orecchie: la collezione di gran lunga più importante e più completa del mondo, ricca di cimeli preziosi, che sarebbe “danno irreparabile” disperdere o far uscire dall’Italia, un patrimonio inestimabile che doveva essere “definitivamente assicurato ed esposto al pubblico e agli studiosi in una  sede degna”.
La raccolta più completa del mondo… Ero riuscito nel mio intento!
Ma dopo tre anni le raccomandazioni di Respighi erano rimaste lettera morta e stavo rischiando di perdere tutto: con le ingiunzioni del Tribunale in mano, i creditori volevano obbligarmi a vendere all’asta… Dovevo agire!
Ci pensai a lungo, disperatamente.
E il risultato fu una mossa da maestro.
Pubblicai un vibrante compendio di riflessioni e suggerimenti Per la rinascita dell’arte lirica italiana, e contemporaneamente, con lettera inviata a mezzo stampa, offrii al governo la cessione in blocco di tutte le mie collezioni in cambio della realizzazione di un Teatro Massimo del Popolo, con annesso Collegio lirico - un convitto gratuito per giovani dotati che non potessero permettersi di pagare gli studi di canto. E il risanamento dei debiti: una quisquilia, confronto al valore miliardario della donazione, ma era una questione d’onore.
La risposta non si fece attendere: lo Stato mise immediatamente sotto sequestro tutte le collezioni, impedendone la vendita e lo smembramento, inviò esperti a fotografarle e catalogarle.
Brindai alla vittoria, felice. Champagne! In una mossa avevo salvato la mia creatura, fatto del bene alla lirica italiana e legato per sempre il nome dei Gorga al futuro della cultura nazionale.
…Ma per la stipula della convenzione dovetti attendere vent’anni. Venti anni! Io credo, Signore, di essere sopravvissuto tanto a lungo solo per portare a termine questo compito.
E che Tu mi abbia lasciato vivere così a lungo per cominciare a scontare i miei peccati vivendo!
Perché nel frattempo, con la guerra, si verificò ciò che più temevo: la dispersione delle collezioni in vari depositi, e purtroppo la perdita di centinaia di reperti.

La convenzione tra il Ministro dell’Istruzione della Repubblica Italiana e il “Prof. Evan Gorga”, come fui definito, arrivò nel 1949. Con il Paese distrutto dalla guerra, di Teatro Lirico non se ne parlò neanche, riuscii soltanto a far istituire 10 borse di studio di 300.000 lire per giovani di talento privi di mezzi. Per me ci fu un decoroso vitalizio e il saldo dei debiti… compresi quelli per la custodia delle raccolte messe sotto sequestro!
Bene per lo Stato e per i dieci ragazzi meritevoli, bene per i creditori ma tardi per me, che avevo passato gli ultimi vent’anni in povertà, ad aspettare una soluzione e ad angosciarmi per la sorte dei tesori accumulati con tanta passione che non erano più miei e che non potevo più controllare, spediti qua e là in depositi,  magazzini e Musei in tutta Italia.
Nessuno più sapeva chi fosse Evan Gorga. Da dove provenissero tutti quei reperti archologici, quei bronzi, quei rivestimenti parietali, quei bozzetti di terracotta, le porcellane, le armi, le tabacchiere, i vetri antichi…  
Non esistevo più.
Sapete cos’era successo l’anno prima, quando inaugurarono il Museo di Storia della Medicina, interamente costruito sulle mie collezioni di vasi da Farmacia, strumenti, ferri chirurgici, libri e manoscritti dal medioevo all’800? Non mi hanno nemmeno invitato!
Pensavano che fossi morto.
Sì, io ho comniciato a scontare l’inferno vivendo.
Solo grazie a Luisa Cervelli, una grande studiosa, ebbi negli ultimi anni un po’ di consolazione, sapendo che con lei almeno la mia raccolta più amata, quella degli strumenti musicali, sarebbe rimasta integra e allestita in un Museo.
Il nome Gorga sarebbe rimasto vivo!
E ora so che qui, in questo luogo, hanno raccolto una parte delle mie collezioni di antichità… 10.000 pezzi…ma non riesco a trovarla.
Vorrei vedere cosa è stato scelto, come sono stati disposti i reperti… in ordine cronologico, di provenienza, o per tipologia?
Per anni, per tutta la vita ho collezionato incessantemente e non ho mai chiesto niente in cambio! Perché, Signore, non mi è stato dato di vedere il frutto dei miei sacrifici?!

Suono di una ninna nanna

La ninna nanna di Pio! La cantava sempre Loreta, per farlo addormentare. Mi piaceva ascoltare la sua voce dolce… (si incupisce) E allora perché, invece di restare con loro, a godere di quegli attimi di felicità… te ne tornavi nelle tue stanze segrete, a curare quella che continui assurdamente a chiamare la tua creatura?
  (colpito dalla sua stessa domanda)
Che diritto ho io di parlare di sacrifici? È un sacrificio dedicarsi a ciò che si ama? No. Il sacrificio è stato quello di Loreta…
Dopo la morte di nostro figlio, io avevo la mia passione a tenermi compagnia, a lenire lo strazio, ma lei? Povera madre. Povera Loreta… Quanto si sarà aggirata, sola, in quei dieci infiniti appartamenti,  in quelle stanze che per me erano il godimento della vita? Chissà se anche a lei i miei tesori parlavano, come a me… L’ho lasciata sola.

(guarda verso l’alto, meravigliato) Non è l’ingordigia del collezionista, non è la gola, il mio più grande peccato da scontare: è la vanità!
Era morto nostro figlio! E io che ho fatto? Mi sono gettato nella mia impresa con ancora più ardore, con un furore cieco, sordo, perché volevo, bramavo che restasse qualcosa, che restasse la mia opera a parlare di me, nel futuro!
 (si accascia, mormorando tra sé) Vanitas vanitatum et omnia vanitas…

  Sale piano l’aria dall’Andrea Chenier “La mamma morta”

Non è un peccato capitale, la vanità, Signore… ma non merito la tua misericordia. Io merito di pagare per quello che non ho capito di Loreta, del sacrificio della mia piccola Margherita.
Sessant’anni per capire veramente quello che da vivo ho sempre avuto sotto gli occhi. E ora è tardi. Loreta è lontana, non posso chiedere il suo perdono. Spero solo che non sia più sola, che sia con il nostro bambino.
(guarda verso l’alto) Sono pronto, Signore. Lo accetto. Accetto la mia dannazione.

Mentre l’aria dell’Andrea Chenier arriva alle parole “Io son l’amore”, si accende la Wunderkammer.

Tutto lo spazio diventa un’epifania armoniosa e avvolgente di forme e di oggetti: tutti i reperti delle sue collezioni, tutti i suoi strumenti musicali, e alternati i capolavori dell’arte e della scienza umane nei secoli. L’uomo vitruviano di Leonardo e le Vergini delle Rocce, il Partenone e l’Annunciazione del Beato Angelico, il Trono Ludovisi e la Primavera del Botticelli,  Guernica e il Colosseo, una locomotiva a vapore e la spirale del DNA,  eccetera… eccetera… eccetera…
Evan si guarda intorno meravigliato ed estasiato, mentre le forme, i colori e la musica incalzano

La Wunderkammer! Il Paradiso che avevo chiesto! La mia Wunderkammer!
È opera sua, vero, Signore? Il suo amore ha compiuto di nuovo un miracolo, oltre il tempo e oltre la vita… Quanto hai amato questo sciocco, Loreta!
(guarda un’ultima volta verso l’alto) E tu Signore, ora che vorrei tanto rivedere il suo viso, mi lascerai qui, per sempre tra i miei oggetti, per sempre Evan Gorga, G. Evan…
Per sempre il collezionista.