Il Memorioso
Breve guida alla memoria del bene
Conferenza-spettacolo per un attore
di
Paola Bigatto, Massimiliano Speziani e Gabriele Nissim
© 2014. Tutti i diritti sono riservati
Una sala allestita per una conferenza. Quella del Memorioso: con carta geografica, lavagna, scrivania e sedia.
Pile di faldoni cartacei e scatole chiuse di cartone, di varia grandezza, sono sparse sul pavimento.
Il nostro conferenziere s’apposta al tavolo, portando con sé una cartellina e una scatola che adagia accanto alle altre.
Fuma un sigaro.
Cominciamo. (Fa per andare verso la scrivania) Ah! Scusate. (Spegne il sigaro) Ecco, spento.
Spero che voi abbiate spento i cellulari. (Va alla scrivania. Poggia la cartellina)
Cari amici, signore, signori, benvenuti!
Benvenuti a questa conferenza dal titolo Breve guida alla memoria del bene.
Innanzitutto: perché breve? Perché il nostro tempo è limitato, anche se noi ringraziamo per l’ora e dieci minuti circa (estrae dalla cartellina un segnatempo e lo carica) che ci è stata concessa. Grazie!
Breve, anche in relazione all’enorme quantità di materiale che io vorrei condividere con voi! (Indica faldoni e cartoni)
Non vi spaventate, serve a me, non tutto sarà oggetto della mia
trattazione, ovviamente. Anche se io non avrei mai immaginato di
raccogliere migliaia di storie da tutte le parti del mondo e di non
aver abbastanza spazio nella mia mente per ricordarle tutte.
“Storie di chi?” voi direte. Storie del bene, storie di Giusti che
hanno fatto il bene, cioè tutti coloro che, nelle situazioni più
estreme hanno avuto il coraggio di prendere iniziative di aiuto e
soccorso in favore di perseguitati. Storie che andrebbero forse
perdute, disperse; forse perché piccole, eppure quanto preziose! Solo
un investigatore, un collezionista, un rabdomante, un archeologo, un
cercatore d’oro, un pescatore di perle, può recuperarle alla memoria:
che è quello che, modestamente, cerco di fare oggi con voi. Perché è
necessario ricordare! non solo i nomi dei protagonisti di queste storie
– migliaia e migliaia di nomi ancora sconosciuti ai più – ma anche
tutti i dettagli, i minimi particolari, le motivazioni intime che si
celano dietro le imprese di ognuno dei Giusti tra le nazioni, perché
questi episodi di responsabilità personale non devono rimanere un
ricordo esclusivo del salvato e del salvatore. Perché – diciamocelo –
non c’è luogo al mondo dove non sarebbe stato possibile salvare delle
vite o almeno rendere meno dure le sofferenze dei perseguitati.
(Andando verso la carta geografica)
Io ritengo che il numero dei sopravvissuti sarebbe stato infinitamente
più alto se molti individui fossero stati capaci di fare anche soltanto
un piccolo passo in favore degli ebrei. Per esempio (sfodera una bacchetta retrattile)
quello che hanno fatto in Polonia 5632 Giusti, in Italia 295, Olanda
4464, Francia 2171, Ucraina 1755, Belgio 1322, Ungheria 587, Lituania
504, Bielorussia 497, Slovacchia 412… e non si tratta certo di numeri
definitivi.
Ma andiamo con ordine, che il tempo si sa (guarda il segnatempo)
è tiranno, e a tal fine ho elaborato – non senza un certo dispendio di
energie – una scaletta a cui mi atterrò il più scrupolosamente
possibile.
(Apre la cartellina e cerca la scaletta senza
trovarla; cerca allora nelle tasche della giacca e dei pantaloni,
rovista sopra la scrivania e nei faldoni intorno) Scusate, lo sapevo, non trovo la scaletta, scusate… Mi pareva di averla messa nella cartellina… scusate.
Anche mia moglie me lo dice sempre: fatti un appunto, fatti un nodo al fazzoletto… (Continua a cercare nelle tasche) Eccolo! (Tira fuori un fazzoletto annodato)
È il nodo al fazzoletto che mi serviva per ricordare di prendere la
scaletta. Ma dove ho messo la scaletta… ho capito… l’ho lasciata
nell’impermeabile… (Esce, torna tastando l’impermeabile e togliendone dalle tasche altri fazzoletti annodati) Qui non c’è, mi pare… l’ho dimenticata.
A meno che… scusate… (fruga di nuovo nei faldoni e crea un gran disordine)
non c’è… sicuramente l’ho lasciata sulla mia scrivania… Dovreste vedere
che disordine, ma non riesco mai a trovare il tempo per metterla a
posto… Eppure l’ho promesso a mia moglie, che appena avrò un po’ di
tempo lo farò…
Scusate: la scaletta non la trovo. Non mi ricordo dove l’ho messa. Ma non importa: possiamo farne a meno (guarda il segnatempo), me lo ricordo benissimo da dove iniziare.
(Prende una delle scatole, la posa sul tavolo e ne tira fuori un oggetto ricoperto di stracci che appoggia sulla scrivania)
Accadde, nemmeno tanti anni fa, che un paese fosse colpito dalla
maledizione della guerra, venne invaso dal nemico, che incominciò a
perseguitare ferocemente una parte della popolazione, in quel caso, gli
ebrei. Anche tutti coloro che non erano ebrei erano perseguitati se
avessero dato aiuto, anche nella più piccola cosa, a un ebreo
fuggitivo. Uno di questi scappò da un campo di prigionia e si trovò in
una grande città, solo, affamato e senza amici, braccato da tutti.
Mentre camminava rasente i muri, (e scopre l’oggetto, un’antica pendola da tavolo)
vide l’insegna del negozio di un orologiaio: quello era il suo
mestiere, anch’egli era stato orologiaio. Entrò e chiese del lavoro.
“Cosa sai fare?” chiese il padrone.
“Dammi un orologio che non sei riuscito ad aggiustare e ti farò vedere”.
Dopo neanche un’ora l’orologio (muove le lancette così che inizi a suonare)
aveva ripreso a funzionare. Il padrone allora, ammirato della sua
perizia, gli consentì di lavorare presso di lui. Ma ogni mattina
l’abile dipendente arrivava al lavoro sempre più stanco, sporco, con
gli occhi segnati e la barba lunga.
“Cosa ti sta succedendo?” gli chiese un giorno il suo padrone.
“Nessuno mi vuole dare dove dormire, passo la notte sotto i ponti, sussulto a ogni rumore… te lo confesso, sono un ebreo”.
E aspettava che il suo padrone facesse come tutti gli altri, lo denunciasse e lo consegnasse ai suoi persecutori.
Ma l’orologiaio gli disse: “Non ti preoccupare, non hai nulla da
temere, potrai stare qui da me e dormire nel retrobottega dove tengo la
merce preziosa”. (Pausa)
Questi episodi rappresentano l’unica sorgente di luce in un mondo di
atrocità, piccole luci solitarie nell’inferno; gli uomini come
l’orologiaio erano riusciti a dare un aiuto in caso di necessità, a
sostenere l’altro nella disgrazia, a proteggere il suo onore e la sua
vita; hanno amato il loro prossimo come se stessi; per questo sono dei
Giusti, sono l’élite dell’umanità intera: avevano salvato degli ebrei
ma avevano salvato anche l’onore del mondo, perché basta che esista una
sola persona degna di questo nome per poter credere negli uomini. Ma
tutto ciò rischia di essere vanificato sotto l’azione del tempo (interrompe il suono dell’orologio).
Passarono i mesi, e finalmente il nemico lasciò la terra dei due
orologiai. L’ebreo, salvo, lasciò quella parte di mondo e se ne andò in
un paese molto lontano.
Tanti e tanti anni dopo, la figlia dell’orologiaio che aveva accolto
l’ebreo andò a fare un viaggio proprio in quella terra lontana. Suo
padre le aveva donato per il viaggio un prezioso orologio (ne fa uscire uno ‘a cipolla’ da sotto la pendola).
Ma appena giunta nel paese lontano, l’orologio cadde a terra e si
ruppe. Cercò un buon orologiaio, e vedendo un’insegna in città vi
entrò.
“Scusi, saprebbe aggiustarmi questo orologio?” Era proprio
nella bottega che l’ebreo perseguitato aveva aperto nella sua nuova
patria. “Tengo tanto a questo orologio perché me lo ha dato mio padre,
che è un anziano orologiaio, che ha un negozio nella tale città nella
tale via, con un retrobottega fatto così e così, dove ripone le merci
preziose… ”.
Man mano che il dialogo procedeva, l’orologiaio riconosceva la sua
patria e il luogo dove era stato salvato, e si affacciò nella sua mente
il pensiero che questa donna potesse essere la figlia dell’uomo che lo
aveva tirato fuori dall’inferno, e che aveva dimenticato per tutto quel
tempo. Le aggiustò l’orologio gratis, ma non le rivelò che lui era un
ebreo salvato da suo padre.
Però, scusate: è forse giusto che venga dimenticato un salvatore per la
superficialità e il disinteresse di chi è stato salvato?
Se sono vivo lo devo a qualcuno e quindi mi sento responsabile nei suoi
confronti. Talora il bene, anche se ricevuto in circostanze
eccezionali, diventa un evento normale, un gesto dovuto che non
richiede riconoscenza.
Lo so, lo so, quando si è attraversato il male, spesso si vuole solo
dimenticare. È normale, è umano e so che quando si è sommersi dal male
è difficile distinguere quei chiarori, quelle luci solitarie
nell’inferno; ed è anche per questo che la resistenza più convinta di
un essere umano contro la barbarie rischia di essere vanificata, sotto
l’azione del tempo. È questo il fondamento dell’ingratitudine; anche la
resistenza più convinta di un essere umano contro la barbarie rischia
di essere vanificata sotto l’azione del tempo (ricopre la ‘cipolla’).
Tuttavia esiste un luogo dove vengono ricordati coloro che hanno fatto
del bene: è un grande giardino dove, per ricordare e onorare ciascuno
di loro, viene piantato un albero. Vi si recò l’orologiaio, pentito di
aver dimenticato il suo salvatore, e raccontò la sua storia all’uomo
che si prendeva cura del giardino e decideva chi meritasse o meno
l’albero.
”Vorrei che il mio salvatore venisse ricordato per sempre qui, in questo giardino”.
Il giudice di quel giardino aveva ascoltato attentamente il suo
commosso racconto. Dopo un lungo silenzio guardò l’interlocutore negli
occhi, e gli disse:
“Che cosa hai fatto in questi quarant’anni? Com’è possibile che dopo
essere stato salvato ti sia dimenticato dell’uomo che ti ha tirato
fuori dall’inferno?”.
Quarant’anni! Quarant’anni! Non ho mai trovato, neppure una volta (guarda le scatole), una risposta abbastanza convincente a giustificare questo ritardo!
Ma non fa niente: le impronte del bene non si perdono, basta che uno si decida a raccontare (indica il materiale) e basta che ci sia solo uno che ti ascolti.
Il bene non va in prescrizione, non è come i reati, non ha una data di scadenza; in altre parole, il bene non va a male.
E se non fosse più possibile ritrovarne le tracce? Non bisogna mai
smettere di cercarle. E bisogna farlo al più presto! Bisogna evitare
che il tempo inesorabile ricopra quelle degli uomini giusti! Il dovere
della memoria non si deve concentrare solo sul male, ma anche sul bene
ricevuto, perché la memoria del bene può portare più lontano della sola
consapevolezza dei torti subiti.
Vorrei che alla fine di questo poco tempo usciste di qui con il maggior numero di nomi sconosciuti impressi nella memoria. (Aprendo una scatola piena di carte e post-it)
Perché sono proprio tanti quelli dei Giusti, sono proprio migliaia.
Solo della Shoah, per la precisione, sono a tutt’oggi 19.140 (mostrando
post-it di vario colore con delle cifre scritte, che poi attacca di
volta in volta sulla cartina geografica e – sempre più frenetico –
nello spazio intorno, mentre va elencando):
Polonia, 6195;
Olanda, 4464;
Francia, 3158;
Ucraina, 1755;
Belgio, 1322;
Ungheria, 587;
Lituania, 504;
Bielorussia, 497;
Italia, 485 (in aumento…);
Germania, 476;
Slovacchia, 412;
Grecia, 306;
Serbia, 113;
Repubblica Ceca, 103;
Austria, 83;
Russia, 79;
Albania, 60;
Romania, 60;
Moldavia, 52;
Svizzera, 45;
Bulgaria, 14;
Gran Bretagna, 13;
Svezia, 10;
Macedonia, 9;
Armenia, 6;
e negli Stati Uniti e in Brasile, ma anche in Cina e in Vietnam e in Giappone e anche qui e qui e qui…
Quello che penso veramente è che solo il bene è profondo e può essere
radicale. Il male non è mai radicale, ma soltanto estremo e non
possiede né profondità, né dimensione demoniaca. Anche se, nonostante
Auschwitz, il male ha continuato a presentarsi sulla scena del mondo:
in Biafra, in Ruanda, nell’ex Jugoslavia, in Cambogia, nel Darfur, in
Cecenia…
Ma se il male continua, cerchiamo di capire come possa continuare a
esistere anche il bene. Giusto? Ma per rispondere a questa domanda è
necessario trovare la risposta a un altro interrogativo: chi è l’uomo
giusto che compie un atto di bene?
Come archivista del bene (mostra alcune delle sue carte)
sono un sostenitore della parola scritta e di un quadro di lavoro ben
chiaro, basato su regolamenti. Non mi sono mai tirato indietro di
fronte alla difficoltà di stabilire delle regole per determinare o
definire chi sia un Giusto (indica il suo taccuino). Ad
esempio, secondo una legge approvata dal parlamento di Israele nel 1953
per commemorare “i martiri e gli eroi della Shoah”: (va alla lavagna, e scrive mentre pronuncia le parole)
“Un Giusto è un non ebreo
che ha rischiato la vita
per venire in aiuto a un ebreo”.
Ma è un’illusione pensare che sia semplice scoprire il meccanismo
intimo di un uomo in un atto di bene. In questi casi non si possono
applicare le norme stabilite dalla legge, come si fa in un processo
penale. Il meccanismo del bene (prendendo l’orologio e riponendolo in uno scatolone che, poi, rimette sul pavimento) è delicato, è complesso, come può stare dentro a una definizione?
Bisogna saper ascoltare il soffio del bene.
“Un Giusto è un non ebreo
che ha rischiato la vita
per venire in aiuto a un ebreo”.
È necessario pensare e ripensare, da tutte le angolazioni.
“Un Giusto è un non ebreo
che ha rischiato la vita
per venire in aiuto a un ebreo”.
È necessario rivedere sempre le proprie posizioni, tenere aperti gli interrogativi.
“Un Giusto è un non ebreo
che ha rischiato la vita
per venire in aiuto a un ebreo”.
E coloro che non hanno rischiato la vita? Che non sono stati esposti
al pericolo di morte e però hanno raggiunto lo stesso fine, cioè hanno
salvato delle vite umane? Non sono forse anche loro dei Giusti?
(Piglia una scatola) E allora Grüninger? Paul Grüninger! È uno dei 45 Giusti svizzeri!
(Da un faldone ecco timbri, fogli e passaporti)
La Svizzera è il paese neutrale per eccellenza, non ha mai partecipato
a nessun conflitto mondiale ed è per questo che era diventata meta di
tutti i perseguitati.
Ma la neutrale Svizzera aveva decretato, in data (consulta un libretto di norme e regolamenti)
19 agosto 1938, che “l’ingresso degli stranieri e dei profughi veniva
garantito ma subordinato”, ovvero “in base ad accordi e convenzioni
internazionali, il flusso di immigrazione viene regolamentato ai fini
della sicurezza nazionale e della tutela delle relazioni
internazionali”.
In altre parole aveva letteralmente recintato le frontiere. Come? Così (prende dalla cartellina del nastro-carta e inizia a delimitare uno spazio quadrato, con ciascun lato a rappresentare un confine):
con l’Italia, con la Francia, con la Germania e l’Austria, chiudendo le
porte non solo ai fanatici di Hitler ma anche a migliaia di profughi
ebrei che cercavano rifugio dalle persecuzioni.
Grüninger, capo
della polizia del Cantone San Gallo, pensò di fare il contrario di
quanti non volevano vedere la sofferenza e rimandavano gli ebrei da
dove erano venuti. Invece di girare le spalle al dolore, preferì girare
le spalle quando i profughi attraversavano clandestinamente la
frontiera. Finse di non vedere gli ebrei che passavano.
Ma qualche timbro doveva pur metterlo sui documenti per giustificare
questo flusso di persone alla frontiera che aumentavano di giorno in
giorno. Allora escogitò uno stratagemma: (ancora dalla cartellina, dei timbri)
Grüninger imprimeva un timbro retrodatato sui loro documenti. Fece
risultare sui passaporti che il passaggio era avvenuto prima del 19
agosto 1938, data del decreto che ne vietava l'ingresso. Quindi (e timbra, ogni volta, un foglio diverso che lascia cadere per terra):
18 agosto 1938, 17 agosto, 16 agosto, 15 agosto oppure 15 luglio, 15
giugno, 15 maggio o 15 aprile, 12 aprile, 15 marzo, 15 febbraio, 15
gennaio… Ma la burocrazia svizzera (si china per altri fogli da timbrare e trova una busta, da cui estrae una lettera che apre)
se ne accorse, e Grüninger fu “licenziato, con una nota di biasimo,
condannato per aver falsificato documenti e non aver ottemperato ai
doveri della sua professione e privato della pensione” (la lettera torna nella busta e questa nella scatola). Non scherza la neutrale burocrazia svizzera.
Costretto a vivere di un lavoro modesto, finita la guerra, non chiese
mai il riconoscimento del suo gesto per ottenere un aiuto economico.
Grüninger il più anonimo dei salvatori, il suo nome era sconosciuto
perfino (e raccoglie i fogli sparsi a terra)
a quelle tremila persone che grazie a lui erano riuscite a superare il
confine, sapevano soltanto che alla frontiera con la neutrale Svizzera
c’era qualcuno sempre molto distratto.
(Sta per rimettere tutto nella scatola; si ritrova il timbro in mano, lo mostra)
Ogni uomo se vuole può gestire un minuscolo spazio di libertà in cui è
totalmente sovrano. Bisogna saper ascoltare il soffio del bene.
Ci sono storie di Giusti che si assomigliano. Poi, ci si accorge poi
che dal punto di vista del luogo, del tempo e di altri fattori, ogni
azione umana si presenta in modo diverso (dalla cartina geografica, stacca il post-it sul Portogallo).
Aristide De Sousa Mendes era il console portoghese a Bordeaux, in Francia nel 1940 (attacca il post-it sul punto corrispondente della cartina),
proprio quando i Francesi vennero invasi dall’esercito tedesco e gli
ebrei cercavano di fuggire in Spagna o in Portogallo per imbarcarsi
verso l’America. Bordeaux era il luogo di ritrovo di questi fuggitivi
che speravano di ottenere dal consolato portoghese il visto necessario
per entrare in quel paese. Tuttavia, il 10 maggio del 1940 il governo
portoghese diede ordine di sospendere la distribuzione di questi visti
e così la città di Bordeaux si trovò invasa da rifugiati che non
potevano attraversare la frontiera.
Fu durante una passeggiata
notturna che Aristide De Sousa Mendes incontrò un ebreo: un rabbino
che, come tutti, non aveva un luogo dove dormire e che gli chiese
aiuto. Aristide, mosso a pietà, lo invitò a passare la notte al
Consolato. Poteva, al massimo, far avere dei visti per lui e la sua
famiglia ma non poteva fare di più, altrimenti avrebbe disobbedito alle
direttive del suo paese. Ma questo, al rabbino, non bastava. E neanche
Aristide De Sousa Mendes era a posto con la sua coscienza e dopo un
paio di giorni annunciò ai suoi collaboratori:
“Il mio governo ha deciso di rifiutare le richieste di visti, ma io non
posso lasciar morire tutte quelle persone. Molti di costoro sono ebrei,
e la nostra costituzione (legge dal libretto di norme e regolamenti usato poc’anzi per Grüninger)
stabilisce che la religione e l’opinione politica di una persona non
devono rappresentare un ostacolo all’ingresso nel nostro paese. Ho
deciso di agire secondo lo spirito di questo principio e sono
disponibile a fornire un visto ad ogni persona che lo richieda. Anche
se rischio di essere allontanato dall’incarico, devo comportarmi come
mi ordina la coscienza”.
Bisogna saper ascoltare il soffio del bene.
Per tre giorni interi, De Sousa Mendes, non si fermò neppure un minuto.
(Timbra fogli e li lascia cadere in giro)
Preparò migliaia di documenti, aiutato dalla moglie e dai figli, e
anche dal rabbino. Era una corsa contro il tempo, mentre le armate
tedesche si avvicinavano a Bordeaux. La notizia arrivò a Lisbona, e
venne intimato al console ribelle di tornare in patria. De Sousa Mendes
chiuse così il suo ufficio e (raccogliendo i fogli sparsi per riporli nello scatolone)
fece i bagagli per far ritorno in Portogallo. Ma a Bayonne, davanti al
consolato portoghese: centinaia di profughi. Come a Bordeaux.
“Io
non sono ancora stato rimosso dall’incarico e quindi sono ancora un
vostro superiore. Dunque andate da quella gente là fuori e dite loro
che consegnerò io stesso i visti”.
Per un giorno intero si mise personalmente a redigere i visti per i passaporti, come a Bordeaux.
(Riprende e distribuisce i fogli messi via, come se tante persone attorno gliene facessero richiesta) “Prego! Sì, prego. Ecco qui anche per lei, prego…”.
Bisogna saper ascoltare il soffio del bene.
(Si ferma. Nota qualcosa sotto i piedi. È sul confine, uno di quelli segnati col nastro)
Mentre stava per passare la frontiera tra Spagna e Portogallo, si
accorse che le guardie della dogana impedivano ai profughi – con il
visto da lui timbrato – di entrare in Portogallo. Convinse i
responsabili ad alzare la barriera. Come? Così (strappa con
decisione il nastro dal pavimento e lo appallottola nella scatola. Poi
recupera la stessa lettera dalla busta di prima). Tornato in patria fu accusato (legge)
di insubordinazione, condannato da una commissione ministeriale,
cacciato da tutti gli incarichi, privato della pensione. Oppresso dai
debiti, morì nel 1954 per un attacco cardiaco, povero e dimenticato da
tutti.
Non proprio da tutti.
Sia per lo svizzero distratto che per il diplomatico ribelle è stato piantato un albero nel Giardino dei Giusti.
(Dalla tasca, una mappa del Giardino. Indica) Qui Paul Grüninger e qui Aristide De Sousa Mendes. (Rivolto alla lavagna, ad alta voce)
“Un giusto è un non ebreo
che ha rischiato la vita
per venire in aiuto a un ebreo”.
Grüninger e De Sousa Mendes non hanno rischiato la vita, ma hanno salvato migliaia di persone.
E dunque è necessario rivedere le proprie posizioni sempre.
“Un giusto è un non ebreo
che ha rischiato”
(cancella le parole “la” e “vita”)
“per venire in aiuto a un ebreo”.
È necessario pensare e ripensare da tutte le angolazioni. (Silenzio)
E se invece uno ha rischiato la vita, ma non ha salvato nessuno?
È necessario sempre tenere aperti gli interrogativi.
(Porta la sedia al centro della scena) Conta di più il risultato o l’intenzione?
(Apre una scatola, da cui prende un vecchio registratore. Lo
accende e lo appoggia sulla sedia. Suono disturbato di una voce che
parla in una lingua dell’est europeo, e fa da sottofondo al racconto
successivo). Jan Karski.
Nome di battaglia di Jan
Kozielewski. Uno dei più importanti combattenti della Resistenza
Polacca, fervente cattolico, dotato di grande coraggio, perfetta
padronanza delle lingue, memoria straordinaria. Poteva memorizzare
parola per parola decine e decine di documenti e, una volta
memorizzati, non li dimenticava più (…altroché scalette!). Scelto dai
resistenti ebrei del ghetto di Varsavia per far sapere a tutti i
potenti del mondo la verità sulla sorte del popolo ebraico.
(Ascolta e traduce) “Dica agli alleati:
che il nostro intero popolo verrà distrutto;
che la sola nostra lotta clandestina non potrà impedirlo;
di prendersi la responsabilità di intervenire;
che un domani nessuno di loro potrà dire di non essere stato informato dello sterminio;
che le città tedesche devono essere bombardate senza pietà;
che in ogni bomba ci deve essere un volantino che denunci la sorte degli ebrei;
che lo chiediamo perché è la sola risposta a quello che ci stanno facendo;
che paghino i nazisti per salvare le donne, i vecchi e i bambini ebrei anche se è contrario a ogni strategia bellica.
Dica agli ebrei di tutto il resto del mondo di non bere né di mangiare;
che si lascino morire, sì! morire;
ciò potrà scuotere la coscienza del mondo.
Non abbiamo illusioni, ma lo chiediamo comunque.
Si ricordi, si ricordi, si ricordi”.
In Occidente lo accolgono con queste risposte:
“È impossibile prendere iniziative”.
“La sorte degli ebrei è una questione secondaria rispetto a quella di tutti polacchi”.
“La Gran Bretagna ha già fatto abbastanza per accogliere centomila profughi, non può fare niente di più”.
“Dica ai polacchi che alla Casa Bianca hanno il presidente Roosevelt come loro amico e presto saranno vendicati”.
“Non possiamo crederle, non diciamo che lei stia mentendo, signor Karski, ma siamo incapaci di crederle”. (Spegne il registratore, si siede)
“Gli ebrei non hanno avuto fortuna con me. Ero troppo insignificante
per suscitare interesse alla loro causa”. Anche per Jan Karski, il
messaggero inascoltato, che non ha salvato nessuno, è stato piantato un
albero nel Giardino dei Giusti. (Risistema il registratore nella scatola e la sedia)
La cerimonia si è svolta nel 1982.
Gli inascoltati… Per raccontare certe cose come Karski, ci vuole
qualcuno che ti ascolti. Per lanciare un appello, per protestare, ma
anche per fare una semplice richiesta, ci vuole qualcuno che ti
ascolti, un interlocutore, altrimenti…
Per esempio, immaginiamo
di non essere qui ma in Germania, e non adesso ma nel 1933, 29 marzo:
sei anni prima dello scoppio della guerra. Hitler è da circa due mesi
cancelliere del Reich – ossia primo ministro – e già vengono promulgate
sotto il suo governo le prime leggi razziali che avrebbero impedito
agli ebrei le professioni pubbliche, comprese quelle commerciali, e gli
impieghi nella pubblica amministrazione. Niente insegnanti ebrei nelle
scuole e niente studenti ebrei.
Cosa si può fare in queste circostanze? Tu, singolo di fronte al
Nazismo? A chi ti appelli? In che modo puoi esprimere il tuo dissenso?
A chi indirizzi la tua protesta? Cosa fai? Scrivi ad Hitler?
Sì, scrivi ad Hitler.
Scrivi una lettera a: (dalla scatola dove ha messo il registratore, ecco una busta grande su cui legge) Adolf Hitler – Cancelleria del Reich, Brennerstrasse 45, Monaco. (La apre e c’è una lettera) “Signor Cancelliere del Reich!
Con la sua comunicazione del 29 marzo di quest’anno il governo ha
decretato il bando delle attività commerciali di tutti i cittadini
ebrei.
Noi tedeschi abbiamo sempre dato ad altri popoli il meglio delle nostre
forze, in Occidente, in Sud America, in Russia. Gli emigranti tedeschi
hanno contribuito ad accrescere ricchezza e fama di tutti i popoli. E
nonostante ciò non siamo forse stati discriminati? Quindi noi, che così
spesso abbiamo sperimentato questa ingiustizia, dobbiamo fare la stessa
cosa e causare la stessa sofferenza a un altro popolo? (Silenzio)
Signor Cancelliere del Reich!
Quella ragazza sedicenne che ad Amsterdam ai campionati del mondo con
la sua sciabola ha conquistato la vittoria per la Germania era una
fanciulla ebrea. Si ricorda di tutti quelli – ah, dovrei riempire fogli
se volessi solo elencare i loro nomi – la cui intelligenza e il cui
zelo hanno inciso per sempre nella nostra storia? Quindi le domando,
tutti questi uomini e donne hanno agito come ebrei o come tedeschi?
Scrittori e poeti hanno scritto una storia del pensiero ebraica o
tedesca? I loro attori hanno coltivato una lingua straniera o la lingua
tedesca?
Allora, perché si perseguitano? Perché si odiano questi straordinari
stranieri del mondo? I popoli e gli uomini non si conoscono
vicendevolmente, e questo è il male maggiore. (Silenzio)
Signor cancelliere del Reich!
Anche nel popolo tedesco non si sono forse mescolati ceppi e razze diverse?
Lei stesso non viene forse da un altro paese? (Silenzio)
Signor cancelliere del Reich!
Non si lasci fuorviare dagli uomini che l’accompagnano nella sua
battaglia! Lei è mal consigliato! Interroghi la sua coscienza! È stata
sempre una prerogativa dei grandi spiriti riconoscere un errore.
Riporti i ripudiati nei loro uffici, i medici nei loro ospedali, i
giudici nei tribunali, non chiuda più le scuole ai bambini, guarisca i
cuori afflitti delle madri e tutto il popolo la ringrazierà. Perché,
anche se la Germania potesse forse fare a meno degli ebrei, ciò di cui
non può fare a meno è della sua virtù! (Silenzio)
Signor Cancelliere del Reich!
Non si tratta solo del destino dei nostri fratelli ebrei. Si tratta del
destino della Germania! Con la tenacia che ha permesso agli ebrei di
diventare un popolo antico, riusciranno a superare anche questo
pericolo, ma la vergogna e la sciagura che a causa di ciò si abbatterà
sulla Germania non saranno dimenticate per lungo tempo! In nome del
popolo per il quale ho il diritto non meno che il dovere di parlare,
come tedesco a cui è stato dato il dono della parola – non per tacere
quando il suo cuore freme di sdegno – mi rivolgo a lei, sì! a lei:
fermate tutto questo!”. (Silenzio. Estrae una piccola ricevuta. Legge)
“Egregio signor, dottor Armin T. Wegner.
Le confermo ricevuta della sua lettera del 20 del mese scorso. Lo
scritto allegato destinato al Führer verrà a lui sottoposto non appena
se ne presenterà l’occasione. Con saluto tedesco!
Monaco, 8 maggio 1933”. (Rimette tutto nella busta)
La risposta del “Signor cancelliere del Reich” fu l’arresto, la prigionia, l’esilio.
Armin Wegner. Altro albero.
Chi poteva immaginare, nel ’33, la sorte che sarebbe toccata agli ebrei?
Lui la aveva immaginata. Lui l’aveva prevista. Anzi, lui l’aveva già vista. Aveva già visto (indicando sulla cartina geografica)
le carovane della morte verso i deserti della Mesopotamia: il primo
genocidio del Novecento, la strage del popolo Armeno, che denunciò con
coraggio nel 1918 scrivendo una lettera al presidente degli Stati
Uniti, Wilson, finendo già allora inascoltato. E nonostante questo,
scrive a Hitler.
Armin Wegner. Un testimone giusto, che si è
immedesimato a tal punto nel destino delle vittime da diventare egli
stesso una vittima.
Che coraggio. Quello degli inascoltati. Ed è il coraggio il requisito di tutte queste azioni. Ma cos’è il coraggio?
È la capacità di controllare la paura: la paura di morire.
C’è un caso che mi fa sempre riflettere. Accadde in Olanda: una
guardia forestale si era trovata a tu per tu, in un bosco, con una
pattuglia tedesca che dava la caccia a un gruppo di partigiani ebrei.
Sapevano che quell’uomo controllava, palmo a palmo, tutta la zona con
il suo potente binocolo. Non poteva non aver notato dei partigiani alla
macchia. La guardia però era rimasta ostinatamente in silenzio di
fronte alle domande dei tedeschi. Lui, zitto; ostinatamente zitto. E
loro sempre più insistenti, sempre più minacciosi, sempre più violenti.
E lui, zitto, zitto, zitto. Finché i tedeschi, spazientiti, presero il
mitra e lo freddarono.
La moglie era lì presente e cominciarono a interrogare anche lei. Ma
lei, zitta. Davanti al cadavere del marito, zitta. Davanti al sangue
che sgorgava dal corpo dell’uomo che lei amava, zitta. E loro sempre
più insistenti, sempre più violenti. E lei zitta, zitta, zitta. Ha
preferito morire piuttosto che rivelare il nascondiglio degli ebrei.
Io non so proprio come mi sarei comportato al suo posto, terrorizzato
davanti al cadavere. Mentirei a me stesso se dicessi che sarei stato
capace di stare in silenzio senza dare le informazioni. Avrei avuto una
paura folle, che avrebbe condizionato tutte le mie reazioni,
probabilmente avrei parlato sotto la minaccia delle armi, perché io non
sono un eroe.
E per questo non sarei capace di fare il bene?
La paura? È un sentimento che ci accomuna: se prendiamo posizione da
soli contro il male, abbiamo paura. Allora che senso ha glorificare
soltanto i perfetti? Se i Giusti fossero solo dei casi estremi, degli
eroi senza macchia, allora il nazismo si sarebbe potuto combattere
soltanto con il sacrificio supremo della vita, con un comportamento al
di là delle comuni qualità umane. Ma milioni di ebrei sono morti per
l’indifferenza e la complicità dei molti che non si sono opposti, e non
perché la resistenza al nazismo era un’impresa impossibile, sovrumana,
per pochi. Il bene non lo fa solo chi è eroe, perfetto, buono, dalla
parte politica giusta, (prende un’altra scatola) con principi eticamente irreprensibili.
Può un antisemita convinto diventare Giusto tra le nazioni, per esempio?
Paradossale?
La vicenda è veramente complicata e delicata, perché si tratta della
storia di una donna che già prima della guerra era una convinta
antisemita e che, comunque, non cambierà di una virgola le sue opinioni
anche dopo la guerra. (Tira fuori una borsetta e da questa un libro) Zofia Kossak Szczucka era una famosa scrittrice polacca (legge un passo del volume). Il suo romanzo storico I Crociati aveva
avuto un grande successo anche in Europa e negli Stati Uniti. Era una
fervente cattolica, patriota e nazionalista. Inseguiva il sogno di un
paese composto soltanto da polacchi e la liberazione della sua patria
dalla presenza degli ebrei.
(Ancora dalla borsa, dei fogli di giornale)
Da una rivista letteraria: “Gli ebrei sono per noi un pericolo reale e
terribile, che cresce di giorno in giorno. Siamo sinceri, la fede
ebraica ci è indifferente. È grottesca, cupa, ma ci è indifferente. Non
si tratta della fede, è una questione di razza. Ci irritano e anche i
loro tratti fisici urtano la nostra sensibilità: la posizione degli
occhi, la forma delle orecchie, lo sbattere delle palpebre, la linea
delle labbra, ogni cosa. Devo lottare contro l’ebreo per il diritto a
esistere sulla mia terra, devo lottare per non soccombere. Gli ebrei
sono per noi un pericolo reale e terribile, che cresce di giorno in
giorno”.
Nel 1939 i Tedeschi invadono la Polonia, e la Kossak –
da coerente patriota nazionalista – si lancia anima e corpo nella
resistenza antinazista. Nell’agosto del 1942, dopo le prime
deportazioni dal ghetto di Varsavia, fa circolare un clamoroso
volantino (lo piglia dalla borsa) intitolato Protest! in cui denunciava la totale indifferenza del mondo di fronte al genocidio degli ebrei.
“Nel ghetto di Varsavia, dietro un muro che li taglia fuori dal mondo,
centinaia di migliaia di condannati attendono la morte. Non esiste per
loro possibilità di sopravvivenza alcuna, né giunge loro aiuto da
nessuna parte. Il mondo assiste al crimine più orribile mai visto nella
storia e tace. Questo silenzio non può più essere tollerato. Chiunque
rimane silenzioso davanti a un omicidio diventa complice dell’omicidio.
Chiunque non condanna, approva”.
Poi organizzò un gruppo di soccorso (legge da un secondo volantino):
“Commissione per l’aiuto sociale alla popolazione ebraica bestialmente
perseguitata dai nazisti” che nascondeva gli ebrei fuggiti dal ghetto. (Sempre dalla borsa, un mazzo di chiavi)
Mise a disposizione la sua casa per nascondere alcune famiglie di
ebrei. Tra l’altro fu catturata e inviata a Auschwitz, da dove riuscì
fortunosamente a uscire.
Cosa la spinse a schierarsi così clamorosamente dalla parte degli ebrei? (Da un terzo volantino)
“Chiunque osi collegare il futuro di una Polonia libera e fiera alla
disgrazia del popolo ebraico, fino al punto di gioirne in modo vile,
non può essere considerato né un polacco né un cattolico”. La spinse
l’idea che di fronte a un genocidio fosse imprescindibile aiutare anche
il suo peggior nemico. Fu il rispetto per il comandamento “Non
uccidere”, fu la considerazione dell’onore della sua patria.
Sempre in Protest!
si legge:“Noi continuiamo a considerare gli ebrei nemici politici,
economici e ideologici della Polonia. Tale consapevolezza non ci esime
dal dover condannare l’omicidio. Non dobbiamo diventare dei Ponzio
Pilato. Non abbiamo mezzi per contrastare attivamente gli assassini
tedeschi; non possiamo essere d’aiuto né salvare alcuno, e tuttavia
protestiamo dal profondo dei nostri cuori colmi di pietà, indignazione
e orrore”.
A guerra finita scrive (altro libro, preso dalla borsa, che sfoglia per soffermarsi su una pagina):
”Vi ho salvato, vi ho nascosto quando eravate perseguitati. Per salvare
la vostra vita ho anche rischiato la mia vita. Ora niente vi minaccia
più… andate a vivere da qualche altra parte. Io non voglio farvi del
male, ma nella mia casa voglio vivere da sola e ho questo diritto”.
Si poteva veramente dichiarare Giusta, Zofia? Aveva rischiato la vita,
aveva nascosto degli ebrei in casa sua, aveva sollecitato la resistenza
polacca a prendere posizione. Che cosa le si poteva chiedere di più? (Soppesa il contenuto della borsetta, come su due piatti di una bilancia) Contavano le sue idee o contavano le sue azioni? (Pausa. Poi, riordina tutto nella borsetta che rimette nella scatola)
L’albero per Zofia Kossak Szczucka è stato piantato il 16 aprile 1985.
Bisogna saper ascoltare il soffio del bene. Ma anche lo scorrere del tempo (controlla il segnatempo): perché se la Kossak non ha cambiato idea, c’è stato chi l’ha cambiata.
C’è tempo ancora per una storia? Una sola, sugli uomini che
ascoltando il soffio del bene hanno cambiato idea, ce ne sono: i
fascisti pentiti, i nazisti pentiti.
(Sceglie una scatola, la apre) Duckwitz, Peshev… Ecco: Peshev. (Tira fuori una bandiera piegata)
È possibile cambiare le proprie convinzioni e in poco tempo ribaltare
il destino di una nazione? Usare il proprio potere politico per fare
esplodere una crisi morale e salvare così cinquantamila ebrei, l’intera
comunità ebraica di un paese? (Distende ed espone la bandiera sulla
scrivania, rispetto a cui si pone dietro. Dalla scatola, ghermisce una
cartellina e da questa dei documenti) La Bulgaria…
Dimitar
Peshev: vice presidente del parlamento bulgaro. Partecipa con
entusiasmo a un governo autoritario che sopprime i partiti politici:
“Perché ritengo che questa possa essere la via migliore per eliminare
la corruzione nel paese” (come se firmasse un documento) Dimitar Peshev.
È convinto dell’alleanza della Bulgaria con il Terzo Reich: elogia in
parlamento Hitler, definendolo “il più grande statista dei nostri tempi
impegnato con le proprie forze a spezzare le catene del passato per
costruire una nuova comunità internazionale più giusta e più felice” (firma) Dimitar Peshev.
Nel 1940 presiede la seduta del parlamento che approva le leggi razziali (scrivendo) “senza nessuna obiezione”, (firma) Dimitar Peshev.
Ma tre anni dopo, il 7 marzo del 1943, Peshev riceve la visita di Jako
Barùk, un vecchio amico ebreo della sua stessa città natale, che lo
informa dell’imminente deportazione di tutta la comunità ebraica.
“Non è vero ciò che dici. È una menzogna. Non è possibile. Io come
vicepresidente del parlamento dovrei esserne al corrente. Ho parlato
poco tempo fa con il ministro degli interni e lui ha negato che stiano
accadendo cose del genere. Comunque (porge dei fogli all’immaginario amico) ti darò dei salvacondotti, così potrai salvarti con tutta la famiglia (dopo una pausa li dispone lentamente sulla scrivania)”.
Lavarsi la coscienza cercando di mettere in salvo pochi amici ebrei? O
assumersi la responsabilità politica in qualità di vicepresidente del
parlamento bulgaro? (Silenzio)
La scadenza del rastrellamento si avvicina. Mancano solo quarantotto ore. L’operazione è prevista per il 9 marzo. (Silenzio, fino a una decisione irrevocabile: infila i fogli salvacondotti nella cartellina)
Peshev convoca alcuni deputati e minaccia di rendere pubblica la
decisione della deportazione, decisione di cui il parlamento era stato
tenuto all’oscuro e perdipiù in contrasto con la costituzione bulgara.
Poi si reca nell’ufficio del ministro degli interni e gli prospetta uno
scandalo politico, qualora non revochi l’ordine della deportazione. Il
ministro glielo promette, ma Peshev non si fida: lo costringe a
telefonare in sua presenza a tutte le prefetture per fare liberare gli
ebrei che erano già stati trasportati nei centri di raccolta.
Il suo intervento ha successo, ma Peshev non lo ritiene sufficiente:
“Bisogna porre la questione in parlamento.” Il 17 marzo, legge in aula
questo documento, redatto in pochi giorni:
“Tali misure, che riguardano la deportazione degli ebrei, sono
inammissibili, non solo perché queste persone – cittadini bulgari – non
possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche perché ciò avrebbe
serie conseguenze per il paese.
Sarebbe un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che
costituirebbe un grave peso morale, ma anche ‘politico’, privandola in
futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali.
L’onore della Bulgaria e del popolo bulgaro non è solo una questione di
sentimento, è soprattutto un elemento della sua politica.
È un capitale politico del massimo valore ed è per questo che nessuno ha il diritto di usarlo indiscriminatamente”.
Le parole di Peshev sono convincenti. Quarantatre deputati della
maggioranza filo-tedesca firmano l’appello: il governo bulgaro sospende
l’ordine della deportazione dell’intera comunità ebraica. (Scrive in calce sul foglio) “La dignità della Bulgaria è salva” (firma) Dimitar Peshev.
Quando l’albero? Nel 1973.
Va ricordato però che Peshev, pochi giorni dopo il suo intervento in
parlamento, viene accusato dal governo di avere infranto con quel
discorso la disciplina di partito e di avere agito contro di esso:
viene rimosso dalla carica di vicepresidente del parlamento. (Risistema ogni cosa nella scatola e sulla scrivania)
Finita la guerra, a seguito dell’invasione dell’Armata Rossa, subì un
duro processo per antisemitismo, paradossale ma possibile: era stato
pur sempre un membro di un governo filo-nazista, rischiò addirittura di
essere giustiziato. Dopo anni di prigione, fu costretto a vivere agli
arresti domiciliari fino alla fine dei suoi giorni, desiderando la
riabilitazione in patria, riabilitazione che non venne mai. Morirà nel
1973, povero e dimenticato da tutti.
Questi giusti, certo sono l’élite dell’umanità, ma non possiamo certo
dire che queste azioni abbiano portato loro felicità, benessere,
successo.
Ma chi glielo ha fatto fare? Ridursi così? Diciamocelo: sono degli sconfitti, da questo punto di vista.
E allora è chiaro che cosa ci faccio io qua: trasformo questi sconfitti
dagli avvenimenti della Storia in vincitori, perché consegnandoli a
voi, alla vostra memoria, diventano degli esempi concreti di come si
possa aiutare un essere umano perseguitato. Sono loro i veri
protagonisti della Storia, perché il mondo lo salva chi trova la forza
di agire anche quando va incontro a una cocente sconfitta. (Mette ancora in ordine intorno e indossa il suo impermeabile)
Sì, lo so sembrano altre le azioni, le forze che spingono il mondo in
avanti: la politica, la guerra, l’economia, la grande finanza; mentre
l’azione del singolo, chissà perché sembra solo un dettaglio
irrilevante, marginale.
(Riordina la cartellina e… miracolosamente) Ecco! Ecco lo
sapevo. Eccola la scaletta, sapevo che non l’avevo dimenticata! Ecco le
storie che dovevo raccontare! Anche quelle che vi ho raccontato sono
importanti: ci mancherebbe. Ma non posso non raccontare queste… Ho
ancora qualche minuto? (Guarda il segnatempo) Non posso non
raccontarvi quella della prostituta polacca che nascondeva gli ebrei
sotto il letto, del nazista che cercava di sabotare le forniture del
gas per le camere della morte, o anche il diplomatico tedesco che ha
salvato gli ebrei danesi, o lo psichiatra italiano che per salvare gli
ebrei li ospitava nel suo manicomio, o quello che faceva finta di
essere un diplomatico spagnolo, a Budapest…
Ce ne sono ancora
tanti, tutti diversi, sono una moltitudine, non stanno più nel
giardino, non c’è più spazio per piantare degli alberi. Anche il
giudice di quel Giardino lo diceva: “C’è bisogno di altro, non bastano
solo gli alberi. Ci vuole una bella enciclopedia, l’Enciclopedia dei
Giusti”.
Lui pensava ancora a quelle di una volta: di carta, con tanti volumi,
per contenere tutte queste storie dall’A alla Z e in continuo
aggiornamento; con tutti i casi che ancora fanno discutere, quelli in
sospeso, i casi dubbi e un volume in bianco, per quelle storie che
ancora non si conoscono ma ci sono. Eccome se ci sono, giacciono come
perle nel fondo del mare in attesa che un pescatore si tuffi e le
riporti alla luce della memoria.
Anche voi potreste essere dei pescatori. Avete un nonno… non ce
l’avete, mi dispiace… Uno zio, un parente, un nonno di un amico, delle
lettere, delle cartoline. Ci sono! Le tracce del bene ci sono, ma non
bisogna smettere di cercarle. (Pausa)
Chissà quanti giusti, ora, adesso, in questo momento, stanno compiendo
un atto di bene ma noi non lo sappiamo. Non lo sappiamo ma ci sono in
Siria, in Afghanistan, in Iraq, nella Repubblica Centroafricana… (Va alla lavagna e modifica la frase, prima scritta, in)
“Un giusto è una persona
che ha rischiato
per venire in aiuto a un’altra persona”.
(Si riaccende il sigaro) Cosa possiamo fare per loro? (Esce)