LA GEOMETRIA DELLE PADELLE

Monologo per voce sola e due ombre di

Angela Villa


Interrogarsi sull’atroce e disumana follìa della guerra, vista dallo sguardo di chi la subisce più di tutti, le donne e i bambini, è un’urgenza, una necessità, perché il teatro contemporaneo ha nelle radici più profonde, la ricerca della verità. 
C’è stata una guerra. Una donna non più giovane si trova all’interno di una cucina, in mezzo a un cumulo di macerie, della sua casa è rimasta solo la cucina, sulla scena immagino le macerie della cucina, un tavolo con due sedie, una brandina chiusa e un grande sacco pieno di oggetti. La donna indossa una lunga sottoveste e porta un brandello di vestito a mo’ di sciarpa intorno al collo, un pezzo di stoffa con delle rose rosse, dipinte. Parla con un uomo che immaginiamo si trovi fuori dalla casa

Non so se sono infelice o arrabbiata, dipende, dai giorni, dalle ore, dalla polvere, soprattutto che un po’ alla volta sta ricoprendo ogni cosa. 
Il tempo ha preso una pausa dal suo divenire.
Ho trovato un sasso e l’ho conservato, no, non sono fissata coi sassi, figurati se mi potevo fissare coi sassi, uno in genere si fissa per quello che non ha, qua stiamo pieni di sassi, sassi e pietre di ogni tipo, questo, l’ho conservato perché ha un colore diverso, delle piccole sfumature rosse, come se nel suo piccolo mondo di sasso, volesse rappresentare la bellezza del sole al tramonto, non so nemmeno se è uscito dalla nostra casa o se è arrivato dal mare. 
Il mare sta vomitando ogni cosa in questi giorni, non ce la fa a trattenere tutto questo dolore che gli è arrivato addosso. 

Guarda nel sacco, mentre parla tira fuori alcuni oggetti, fra cui una padella.

Questa padella è inutile, non credo che mi capiterà più di cucinare una frittata. Potrei tenerla per difendermi, oppure usarla come pala per scavare. 
La mia vicina aveva una padella per ogni ricetta, una sfilza di padelle appese al muro della cucina, messe in ordine di grandezza, la geometria delle padelle. 
Era meticolosa. 
Ora, le padelle, le usano per trascinare le cose, lasciano delle scie a terra, che a volte si confondono con il sangue dei morti. La geometria delle padelle, si è trasformata nella geometria dei corridoi umanitari, se sei fortunato, non sei morto sotto le bombe e puoi andare via. 
Io cucinavo qua e tu mi dicevi, Dai una voce dal corridoio e mi dici se è pronto, porto il vino, lo vado a prendere in cantina, prendo quello che piace a te, bianco frizzantino. 
Ti piace farmi contenta, no felice, contenta perché la contentezza resta a lungo dentro, la felicità è un attimo. Il corridoio era lungo e pieno di piante, le avevamo messe per allegria, le piante fanno bene all’anima, noi veniamo dalle foreste e abbiamo bisogno di vedere il verde. Quante cose ho imparato ascoltandoti, raccontare, hai il dono della parola, lo sai? Il dono della parola buona, quella che entra nelle orecchie e arriva fino al cuore. 
Diretta, come un missile. 

Si ferma per un attimo, ripensando a quello che ha detto.

Che brutto paragone, ormai fanno parte delle nostre parole. Violentano i nostri pensieri.
I missili.
Anche loro parlano. Usano la lingua di certi uomini. 
Tagliante, prepotente, violenta, ancora prima che aprano bocca. Parla solo la loro violenza. Che vocabolario piccolo, che piccolo mondo. Fatto di poche parole e tutte dello stesso colore.
Io avevo una padella sola e tutto veniva buonissimo, si mescolavano i sapori, dovremmo accettare anche noi di vivere mescolati, dicono che è impossibile, e invece si può, questa è la verità, certo bisogna impegnarsi e volerlo veramente, chi non conosce la verità è un’idiota e non ci possiamo fare proprio niente, ma chi la conosce e non fa niente per farla camminare, è un criminale. E così è successo a noi. 
La geometria delle padelle adesso è nelle loro mani.

Si alza prende un bastone e disegna a terra il perimetro della casa che non c’è più

Qua c’era il corridoio, là la camera da letto a sinistra il salotto e un piccolo terrazzino che si affacciava sul fiume. È rimasta solo la cucina.
Prova a chiudere gli occhi solo per un po’, io faccio così perché gli occhi da soli alla nostra età, si chiudono a fatica, stiamo sempre con gli occhi aperti, per paura che la morte ci coglie di sorpresa. La paura ci fa tenere gli occhi aperti e vigili, su quello che accade e se poi non accade nulla, dopo che hai vigilato a lungo, credi che sia tutto una finzione, un atto della tua fantasia. E vivi in un pensiero confuso. Ma se hai paura, qualcosa c’è che non va. Se quel sentimento cresce dentro di te un seme l’ha fatto crescere e quel seme non l’hai messo solo tu.
Prova a chiuderli fai come me, metti le mani sopra e spingi forte. Si vedono i colori. Ti ricordi la prima volta che ci siamo visti? No, no, la prima volta che mi hai sorriso in quella balera, la prima volta che siamo stati proprio assieme. Te la ricordi? Tu mi hai detto ora ci viene la febbre. Le senti le campane? Io davvero non sentivo e non capivo niente, pensavo solo alla fortuna che mi era capita, conoscere una persona così gentile e così passionale, un uomo che mi vedeva veramente. Tu mi guardavi con gli occhi del futuro, per quello che potevo essere e che potevo diventare assieme a te. Come sono? Mi dicevi secondo te come sono? Eh…sei bello rispondevo, mi piace come mi guardi, come mi accarezzi. Mi ricordo tutto, ogni cosa. Perché pensano che le donne della mia età non devono avere più voglia? 
Io ce l’ho ancora, la voglia. 
La guerra non se l’è portate via la voglia, la voglia di te, è rimasta sempre dentro. La guerra si è portata via le cose, le persone, e ci ha lasciato le ossa e i pezzi di carne. 
Le bombe.
Sono cadute in mezzo alla gente negli ospedali, nei mercati, fuori e dentro le case. Solo casa nostra si è salvata, anzi la cucina. In cucina la gente prepara per gli altri, mangia, parla, canta. A volte, però, non sempre, perché ci sono pure cucine piene di silenzi, quelli che le abitano, non tengono niente da dirsi. 
Ci sono quelli che si amano ancora in mezzo alla tragedia della guerra e ci sono quelli che tenevano un po’ di odio dentro e con la guerra lo buttano tutto fuori. Ho visto famiglie azzannarsi litigare per un pezzo di pane, per uno straccio, per una mattonella. Noi no, noi siamo rimasti uniti. 
Io le ho viste le lunghe file di gente, i corridoi umanitari, camminavano con la robba addosso, trascinando di tutto, per portare dietro il pezzo di casa che non c’era più. Una donna aveva messo in una padella enorme tutte le cose del suo bambino la trascinava come se fosse un carrettino, giocattoli e vestitini, un ciuccio e un carillon che continuava a suonare, camminava portando il bambino in braccio, con la bocca attaccata al seno, era morto, ma lei lo stingeva forte e gli diceva, Succhia a mamma, succhia, che ti torna la vita, la bocca attaccata al seno e gli occhi vuoti. A terra una scia di sangue, quanto sangue in un piccolo corpo.
Io non vado da nessuna parte. 
Non ti lascio là fuori da solo, al buio. In mezzo a quel caldo soffocante. Quando il sole arriva sulla testa, ti brucia tutti i pensieri. 
No, non ti lascio. 
Non posso portarti di qua, non posso venire io di là, l’unica cosa da fare è rimanere sospesa, in questa cucina perduta. 

Guarda nel sacco, cerca a lungo, poi finalmente un sospiro di approvazione, ha trovato quello che cercava, un cappellino.

Metti questo cappellino in testa, il sole fa male in questa stagione è caldissimo, per fortuna presto arriverà l’autunno. Io preferisco l’autunno, è pieno di colori. Le foglie prendono tutti i colori del sole al tramonto. Se piove non preoccuparti, qua siamo attrezzati abbiamo anche un ombrello. 

Apre l’ombrello

Bene. Funziona ancora. Le cose funzionano anche quando nessuno le usa più. Ogni tanto apro l’ombrello e mi riparo dalla polvere. Hai sete, vuoi un po’ d’acqua?
Chiudi bene la bocca, le labbra strette, così. Così la polvere non entra e non ti confonde le parole e non ti brucia gli occhi. La polvere è subdola assai, entra dappertutto. Stai attento. 
Mi è venuta in mente quella volta che mi portasti a vedere il fiume. Non ero mai stata sul fiume e non sapevo cosa mettermi, allora per farmi bella e andare da un bello, ho messo quella, gonna con i fiori, ho portato un telo per darci baci, un po’ di caffè e un dolcetto ai mirtilli. Mi hai sorriso e hai detto: «Tu sai fare casa in ogni luogo». Poi l’abbiamo fatta veramente la nostra casa, proprio vicino al fiume, nel punto in cui si getta nel mare. Ci siamo sposati in questa casa, difendere la casa ad ogni costo, difendere il nostro amore dai venti. 
Questa è la nostra promessa. 

Prende dal sacco un lungo coltello lo osserva a lungo

L’ho trovato sotto alle macerie dall’altro lato della cucina, Ieri mattina all’improvviso tutti i pensieri neri mi sono saltati addosso, ho pensato che ci vuole, basta un taglietto orizzontale, forse meglio verticale, e mi libero di questo peso, ma poi è passata una farfalla bianca e si è posata proprio sulla lama, come se volesse dirmi qualcosa. Eri tu? Allora ho cambiato idea e l’ho utilizzato come uno specchio, per guardarmi in faccia e c’ho visto tutti gli anni della guerra.  Troppi, tanti. E tuoi sforzi per proteggermi, per darmi coraggio, perché io avevo già perso strada facendo tutti i sogni. Se li erano portati via le bombe.
Come è cominciata? E chi lo sa, non ce ne siamo manco accorti, piano, piano, siamo scivolati nella paura, all’inizio c’era una faida tra famiglie, poi le famiglie sono aumentate e quando sono diventate troppo da gestirle qualcuno si è trovato un amico potente e quelli dalla altra parte hanno fatto la stessa cosa. 
Dopo sono arrivati quelli con le armi e hanno detto, portiamo un po’ di democrazia, e hanno venduto le armi e poi non si è capito più niente, ci abbiamo rimesso noi che non contiamo niente e mo’ tu stai di là e io di qua, io non posso vedere le stelle e tu di stelle ne vedi fin troppe che ti sarai stancato pure. 
No, non mi disturba il silenzio, ci sto benissimo. Però quando trovo una parola che mi fa compagnia mi sento felice assai. Trovare una parola buona è come attraversare il buio. Ho una parola che mi salva, ce l’ho, è il nome tuo. E dentro quel nome c’è la vita nostra. 

Scava fra le macerie. Trova una cornice con una foto. Si meraviglia.

Uh non ci posso credere ho trovato la foto, che tenevamo sul comodino in camera da letto, si è salvata. 

La pulisce con cura

Ricordi dove l’abbiamo fatta? In quella trattoria vicino al porto. I pescatori davano le voci per far avvicinare la gente, pesce fresco, pesce vivo…
Quando è iniziato tutto, ho sentito una voce, qualcuno gridava aiuto, ho pensato a un naufragio, saranno arrivati per salvarli, aerei, elicotteri, barche, non si capiva più niente. È cominciato tutto così. Gente che finge di salvare altra gente ma che in realtà sta salvando solo sé stessa. Io tutta quella immaginazione per capire cosa stavano facendo, cosa sarebbe accaduto, non ce l’avevo proprio. Per capire la guerra, non basta l’immaginazione, e anche per raccontarla, le parole fanno fatica procedono a singhiozzo. Adesso hanno vinto loro e dopo? Dopo chi vincerà? Noi? Noi che non ci siamo più? La guerra porta altra guerra bisognava fare solo una cosa per evitare tutto questo: sedersi e dire no, ma tutti quanti assieme.

Mette la foto con cura nella tasca del vestito...

Ma non è troppo tardi per sistemare le cose quando la guerra finirà che ne dici se la cucina la facciamo più grande? Ci vorrei mettere anche un bel divanetto è bello se uno cucina e un altro ti legge la pagina di un libro a volte a cucinare ti senti sola. Ma non con te, con te, la solitudine è una parola straniera. Che dici potremmo piantare un fiore nel giardino? Magari i gigli, quelli crescono anche d’inverno, quando tutto questo finirà.

Apparecchia lentamente la tavola per due. Poi siede e mangia, si sentirà solo il rumore del cucchiaio nel piatto. Poi come se avesse dimenticato qualcosa va verso il sacco, prende due calici, li alza 

Ci vuole un bel cin, cin…
Questi non posso conservarli, si romperebbero comunque.

Getta i bicchieri fra le pietre. Apre la brandina accanto al tavolo, si sdraia. Poi dopo un po’ si siede in mezzo al letto.

Prima non si dormiva per il rumore, ora non si dorme per il silenzio. Stanotte è venuta a trovarmi la civetta, io era distesa su questa brandina, ho sentito la sua presenza con gli occhi chiusi e poi li ho aperti e lei era là appoggiata sulla spalliera della sedia, gli occhi verdi sembravano due saette. Che vuoi, perché sei venuta, è arrivata la mia ora? Lei faceva così con la testa non era un no, perché le civette muovono sempre la testa, ma ho capito che voleva dirmi:
«Guardati dalla notte. Tu pure sai vedere nella notte come me». 
Mi ha fatto venire un nervoso le avrei tirato un sasso in testa, non l’ho fatto perché non ce l’avevo a portata di mano, i sassi stanno tutti dall’altra parte della cucina. 
Mi sono seduta in mezzo al letto:
E PIÙ NOTTE DI QUESTA, CHE VAI TROVANDO? 
Noi stiamo dentro la notte pure di giorno, ce la portiamo nelle ossa. L’ho cacciata via.
VAI, VIA, VIA, CERCA QUALCUN ALTRO DA GUFARE. 
Lei mi ha risposto che era una civetta e non un gufo. 
E TE NE DEVI ANDARE VIA LO STESSO
Io e la notte siamo amiche da tanti anni, da prima che venisse la guerra.
Sono rimasta in mezzo al letto per un bel po’, lei se n’è andata in un volo si è portata via tutta la speranza che mi era venuta in sogno. Quasi, quasi, mi sono dispiaciuta di averla cacciata. 
Una volta tanto che potevo parlare con qualcuno. Sto diventando aspra peggio di un limone acerbo, ho pensato, e mi sono alzata perché a quell’ora il sonno non è più tornato. 
I gabbiani sono andati via e sono arrivati i corvi. 
L’ala bianca ha partorito l’ala nera. 
«Metti le ali ai piedi e balla»
Si alza mima un giro di ballo 
Mi sono ricordata di quando quella volta mi hai portato a ballare, mi hai detto: «Ma come non sai ballare? Segui la musica come se volessi seguire me» E così ho imparato. Abbiamo ballato assieme un bel po’ e poi dal ballo siamo passati all’abbraccio della notte. Ecco, le nostre notti erano così, piene di luce.
Prende tre candele le accende.
Te le ricordi le bambine? Io le vedo ancora.
Camminavano in fila una dietro l’altra la più grande poteva tenere dieci anni la più piccola due. Le grandi portavano in braccio le piccole, mentre gli uomini le guardavano da dietro e le spingevano verso quei camion. Sono andati verso il bosco, la notte sento ancora le urla. Io all’epoca lavoravo ancora in ospedale. Quaranta bambine con ferite gravi, i medici che le hanno curate piangevano mentre operavano. Quando operi una bambina con la vescica e il ventre distrutto, non puoi fare a meno di pensare che non dovresti solo cercare di curare le ferite ma fare qualcosa per impedire. Ma noi apparteniamo a quelli che non decidono e non contano niente le cose arrivano senza che noi le cerchiamo e gli altri le aggiustano a modo loro e al posto nostro.
Questa è la guerra, la scontano bambini.
Noi non abbiamo avuto figli, siamo stati fortunati.
La guerra alla fine assorbe tutto pure i ricordi più cari, allora io ho cominciato a scrivere su questo fogliettino tutte le cose belle che abbiamo fatto insieme. Così la notte non si mangia il giorno. 
Quella volta che mi hai aiutato ad infilare la giacca
Quella volta che mi hai chiesto se avevo sete e mi hai portato da bere.
Quella volta che mi hai letto un libro ad alta voce e gli uccelli intorno cantavano.
Quella volta che mi hai telefonato dentro la tempesta e mi hai salvato.
Quella volta che ci siamo dati baci in mezzo al grano e io ho dimenticato le scarpe e sono tornata scalza.
Quella volta che siamo finti nel burrone e tu hai detto: « Ma non è un burrone è un piccolo fosso».
Ecco, quello che mi piace di te, sai vedere le cose per come sono veramente. 
Io invece mi perdo dietro le cose e ci vedo tutt’altro, questa cucina che non è una casa, il partito perso delle cose, l’ho sposato pure io. E’ stato difficile capire che eravamo diventati cose, senza nemmeno accorgercene, siamo scivolati piano piano nell’indecenza della violenza. 
Camminavano in file quelle bambine, noi da qua le guardavamo passare e nessuno ha detto niente nessuno ha fatto niente. 
Non potevamo. 
Lo sapevamo che prima o poi sarebbero arrivati e le avrebbero portate via. 
Un padre ha passato mesi a fare la guardia davanti la porta di casa, dopo che sua figlia era stata rapita. L’ha vista tornare nuda e scalza e con la pelle a brandelli, però era viva. Allora lui si è messo davanti alla porta di casa e non si è mosso più, perché i militari tornano, anche quando hanno preso tutto, c’è sempre qualche altra cosa che possono prendere e quindi tornano, tornano sempre. Quando li ha visti arrivare da lontano, ha preso il fucile e ha sparato prima alla figlia e poi si è sparato lui. Se i militari l’avessero rapita ancora, non ci sarebbe stata più un lembo di pelle da salvare. L’orrore che fanno alle donne solo le donne lo conoscono bene.
Ho visto uomini singhiozzare come bambini. C’erano fiamme, fumo e sabbia. L’odore della carne umana che brucia non si dimentica, ti resta nelle narici per tanto tempo e poi si ferma nel cervello. Ho visto le case crollare. La piazza, circondata da un muro di fuoco, la gente rimasta intrappolata. Si lamentavano, piangevano e dondolavano avanti e indietro. Alle quattro, prima della chiusura del mercato, sono arrivati molti aerei. Hanno lanciato bombe. Alcuni si sono abbassati e hanno sparato proiettili nelle strade. Poi ho sentito la voce di uno che leggeva, aveva un libro in mano e leggeva in mezzo alla piazza mentre cadevano le bombe. Uomini cadevano come foglie gli uni addosso agli altri, era una fortuna, morire per primi.
Poi è rimasto solo il libro a terra, mi sono messa a correre per salvare almeno il libro, era aperto su una pagina «Siamo venuti di notte, trai corpi degli ammazzati…»* là c’era la chiesa, di fianco, un albero sacro, la quercia più antica, è rimasta la campana, della quercia il tronco bruciato a metà e poi resti di cose e carne, corpi carbonizzati di donne e bambini Ho passato un giorno intero con una benda sugli occhi per non vedere la morte in faccia. Poi sono cadute altre macerie su di loro e non li ho visti più, non ho più visto gli occhi col terrore rivolti al cielo, in segno di stupore. Sono rimaste solo le ombre. 
Ho trovato dei fogli qualcuno ha scritto gli ultimi momenti fino alla fine del foglio. Li ho conservati ma domani li lascerò al mare. 

Alza la sagoma di due donne, come i manichini di un negozio le sistema con cura davanti alla porta di casa che non c’è più. Legge.

Prima Ombra
Ho sempre amato la neve e ora 
sentirla sul viso sul volto offeso, 
vi saluto con pace. 
Non sento più i calci le botte, 
le guance viola non mi fanno più male 
mi rinfresca la pelle, entra nei pori  
ma non basta a dare vita. 
Avrei voluto correre 
scappare 
l’ho fatto mille con la mente
tirata per i capelli spinta con calci e pugni  
il mio corpo non è più mio è una cosa
ora che tutto è finito 
ringrazio il cielo per questo gelo, 
per questa neve che lievemente copre i capelli sporchi
fatti di sangue, copre i vestiti a pezzi, si appoggia sulle ciglia. 
Non conoscono la loro parte in ombra. 
La parte in ombra, se la conosci bene, la eviti
Noi veniamo a chiedere rifugio, potenti voi, che vivete dall’altra parte del muro. 
Noi veniamo con le nostre storie ognuna porta la sua. 
La mia è la più maledetta. 
Ma non voglio maledire, non voglio maledire nessuno. 
la neve lieve mi bagna la mente, c’è un villaggio dentro.
Chiuse in un camion per lunghi giorni di viaggio 
attraverso il tempo per non arrivare a niente. 
In questo niente di freddo, neve sul volto e fra le ciglia, 
con gli occhi degli angeli addosso. 
Prendete me e lasciate andare loro. 
Così hanno fatto, era la scelta più comoda
Le ho viste correre nei campi andare via lontano 
Là c’è un bosco, lì un campo di grano,
sul bordo, un girasole, saluta a capo chino un tramonto, 
la poesia nasce perché non ho più forze per scrivere 
la fine del foglio è la fine della vita, stranamente coincidono le due cose, ma è un fatto occasionale, come pure la morte.
Ero la prima del gruppo la prima che hanno visto.
Avete partorito l’anima?

Chiude il messaggio in una bottiglia. Alza la seconda sagoma, la sistema con cura.

Seconda Ombra
Non posso andare via. Aspetto la nascita del mio terzo figlio, gli altri due sono già morti in quella stupida guerra di fratelli solo quelli che l’hanno cominciata conosco bene il motivo tutti gli altri non sanno il perché e il per come. Sono scappata per inseguire la pace ci ho messo tanto ad inseguire la pace ma lei era sempre un passo davanti a me ogni volta che credevo di averla raggiunta era già andata via. La pace non era mai nel posto in cui ero io. Per tanto tempo non l’ho trovata però ho conosciuto la solitudine. Sono incinta, non ho un lavoro e un soldo in tasca, ma non ho perso la speranza. Per questo sono qui. Non ero sola quando sono scappata c’era anche mio marito. Poi ci hanno preso e portato in quel centro anche là c’era una guerra. Mi hanno insultata, picchiata, violentata. Avevo fame e non mi hanno dato da mangiare, avevo sete e non m’hanno dato da bere le notti erano lunghe ma meglio dei giorni almeno la notte i trafficanti di uomini dormivano e ci lasciavano in pace… questa è la pace che ho conosciuto. La pace delle notti il riposo dei violenti è l’unica pace che ho visto fino ad ora. Fino all’arrivo in questo bosco. Il viaggio è stato lungo ho perso il mio uomo in mezzo a quelle onde. Un’onda troppo grossa lo ha travolto gli ho tenuto a lungo la mano per non lasciarlo solo negli ultimi respiri poi l’ho lasciato andare. Sono arrivata in una città e sono rimasta invisibile ci sono persone a cui gli altri che vivono nella normalità voltano le spalle per non vedere per non sapere l’ignoranza tiene le coscienze placide e flaccide la gente questo vuole essere flaccida vuole vita nel fracasso dell’abbondanza poi mi hanno parlato del bosco e ho pensato nel bosco nessun uomo è invisibile perché noi siamo natura e adesso attendo qui ho trovato un po’ di pace. Ma per questa pace ho attraversato la violenza. Ho passato il confine sotto un camion mi hanno beccato due volte e rimandato indietro. Due volte sono arrivata vicino al mare. Vicino al mare la felicità è una cosa semplice. Ho letto questa frase una volta e ho pensato che era una grande bugia oppure chi l’aveva scritta non aveva mai visto il mare come lo abbiamo visto noi. Nero affollato con la gente che ti urla nelle orecchie sopra quelle lamiere sottili che qualcuno ha il coraggio di chiamare barche. Vicino al mare sogni la felicità che sta dall’altro lato ma una cosa d certo la sai bene la felicità non è una cosa e non è semplice. Non si poteva partire pure loro lo sapevano nessuno ha voluto pagare con quel mare allora ci hanno detto di salire su quei camion il viaggio sarebbe stato più lungo. Io non avevo abbastanza soldi mi avrebbero rimandata indietro e così mi sono nascosta con altri due nel motore, vicino all’ammortizzatore c’è un buco dove possono stare tre persone, ma senza muoversi. E così abbiamo fatto. Uno dopo l’altro ci siamo infilati nel buco. Prima abbiamo detto una preghiera ognuno nella sua lingua ognuno col suo dio. Uno è caduto perché non poteva respirare. Ma era già malato l’ho sentito tossire tante volte il giorno prima. Dopo qualche ora siamo arrivati davanti al traghetto che ci doveva portare dall’altra parte del mare. Tutte le persone sono scese per fare i bisogni e per entrare nel traghetto, tranne noi tre. Anzi noi due perché l’altro era morto era salito con noi per proteggerci così diceva le donne vanno protette ma è morto quasi subito non lo sentivamo più respirare avevamo fatto un patto quello di rimanere lì fermi, zitti sotto il fumo di motore che ti bruciava la faccia. Non potevamo né bere e nemmeno fare  pipì alla fine è scesa da sola come una cascata la puzza ci ha inondate mi sono sentita in colpa perché l’altra donna che era con me è stata più brava a resistere un giorno intero senza fare nessun bisogno perché non voleva sporcare lo spazio io ti rispetto così mi ha detto sottintendendo che io mene fossi fregata ma il corpo non si può governare si può uscire pazzi all’improvviso io quello temevo di uscire pazza come era capitato a un vicina di casa che aveva perso tutti. Il viaggio per mare è durato un giorno e poi finalmente ci siamo ritrovati vivi in una terra di pace, l’avevo finalmente raggiunta, la pace. Di notte di nascosto abbiamo seppellito quell’uomo che aveva viaggiato con noi, non siamo riuscite a scavare una fossa eravamo troppo deboli non mangiavamo da giorni l’abbiamo coperto con i sassi abbiamo detto una preghiera ognuna nella sua lingua ognuna parlando al suo dio. C’è voluto molto tempo per trovare il bosco. Aspetto la nascita del mio terzo figlio ormai unico. Mi hanno chiesto se voglio tenerlo o darlo via visto che era figlio della violenza ho deciso di tenerlo io gli avrei insegnato la pace. 
La fine del foglio è arrivata ma comunque non avrei scritto lo stesso più nulla è passato tutto così velocemente che è stato difficile lasciare i ricordi su questo foglio e molte sono le cose che non voglio ricordare 
Volarono anni dolorosi e corti come se fossero notti 
buie e senza luna.

Prende una bottiglia. Inserisce il messaggio. Va verso la quinta dove immaginiamo ci sia il fiume che porta al mare. Prende un binocolo dal sacco

Te lo ricordi? Me lo hai regalato quando siamo andati all’opera. Ora è diventato il mio passatempo preferito. Mi diverto a vedere col binocolo cosa fanno dall’altra parte del fiume, quelli che vivono in pace. Stamattina ho visto un uomo e una donna, camminavano insieme con lo stesso passo, lei sotto al suo braccio, vicini, lui aveva una camicia con le maniche lunghe nonostante il caldo, forse non poteva prendere sole, ho visto che lei a un certo punto con un gesto amorevole gli ha abbassato ancora di più la manica della camicia, lui le ha sorriso. Comunicavano un senso di bellezza quella che si vede nelle persone che si amano veramente. Non smettevo di guardarli e forse lo l’hanno sentito il mio sguardo, perché ho visto che si sono fermati e hanno guardato verso le macerie, verso questa parte del fiume. Ho visto noi due quando passeggiavamo ai tempi lungo la riva del fiume, ho provato pure affetto per loro, per poco, poi piano piano ho sentito una marea di odio, prepotente, cresceva dentro di me, ho cercato di spingerla indietro ma era più forte, più la spingevo e più voleva uscire. Ho gridato in mezzo al vuoto delle macerie in un crescendo di odio. Ho visto tutto l’odio che continuerà a crescere nei figli abbandonati, odio che si trasformerà in terrore e che farà nascere altre guerre. Mentre i signori che decidono comprano le nostre terre per costruire nuove realtà, memorie di felicità, false, sul dolore degli altri. Ma per loro il problema non esiste, perché basta non vederlo questo dolore e continuare a fare finta di niente.
Scandisce bene le parole gridando nell’ultima parte. Un grido soffocato
ECCO CHI SI È PRESO LA NOSTRA VITA E L’HA VISSUTA AL POSTO NOSTRO. 
MALEDETTI, SIATE MALEDETTI. 
CHE LA POLVERE CADA SU DI VOI, A LUNGO. 
E VI RICOPRA TUTTI. 
L’ira arriva così, da sola, all’improvviso quando meno te l’aspetti, come un missile e allora resti sempre vigile, in attesa e se non arriva sei quasi dispiaciuta che ti abbia abbandonato, tanta attesa per nulla. Ormai non aspettiamo più niente, solo la rabbia. Non la puoi fermare. Io nello sguardo porto soprattutto l’odio. Ho guardato il mio viso in quel coltello, ho visto i miei occhi erano diventati piccoli, piccoli, sempre socchiusi, ho fatto fatica ad aprirli completamente, per la paura di vedere, occhi piccoli e sguardo di traverso, in attesa dell’esplosione.
Nei tuoi occhi porti il girasole. 
Ora non più.
Avremmo potuto essere noi due. 
SAREI FELICE DELLA VOSTRO MORTE.
Ripeterà questa frase in un crescendo fino a un lungo grido finale
La guerra questo fa, trasforma i pensieri in pietre. Loro sono come noi e noi come loro, noi come loro una volta, la lingua ci ha reso nemici, ci vuole una nuova lingua, una lingua senza contrapposizioni, senza noi e loro, senza stranieri. Ma questo è il sogno il primo giudice del sogno è il cuore. Il cuore si è ammalato di guerra. La guerra porta via la gioventù ai giovani, la bellezza ai monumenti, la libertà alle piazze, alle strade, i baci agli amanti, solo il sapere, quello che coltivi dentro, nessuna guerra potrà mai distruggerlo. 
Ma che te ne fai? 
Stamattina, erano le cinque, ho visto l’alba.
L’alba, quando sorge, all’inizio del suo cammino, ha gli stessi colori del tramonto. 
Nascita e morte, stanno così, sempre a braccetto.

Comincia lentamente a pestare delle pietre per ridurre in polvere.

Erano più o meno le ore in cui ci prepariamo alla preghiera, eravamo andati verso la scuola, il sole era velato e vigilava su tutto una minaccia di pioggia, nella limpidezza dell’aria pura oltre il fiume. Io avevo messo il vestito che ti piaceva, quello rosso con le rose sul bordo. Tu anche avevi il tuo vestito più bello.
Andiamo a pregare come se dovessimo sposarci di nuovo. 
Quella scuola era diventato un rifugio un luogo di preghiera, di lettura, un posto in cui la gente che aveva perso tutto, poteva trovare un momento di pace, insieme agli altri, c’era chi si lavava, chi pregava, chi provava a sorridere. 
Sono stati i primi a cadere. 
I piccoli corpi chiusi, ora, nelle buste di plastica. 
In fila, lungo il confine del mare, accanto al muro, aspettano la nave che li porti via. 
Si esercitavano nella scrittura, corti fogli e pezzi di matite consumate dal fumo. Qualcuno provava a disegnare.
Una pace temporanea. Su questa povera pace, è crollato il cielo. 
Era arrivato il nostro turno, io avevo ancora la speranza dentro, a noi non succederà, tu invece, avevi già capito, tutto, hai gridato in mezzo agli altri che urlavano: 
Corri, corri, più veloce che puoi, non voltarti indietro, torna a casa e resta dentro, corri, corri, vai dentro, corri ti dico, corri…
Io non volevo ero bloccata dalla paura, e continuavo a gridare: 
E TU? E TU?
Allora mi hai spinto con forza, tanta forza non l’avevo mai vista in te, sembravi così delicato, sono caduta e mi sono svegliata in mezzo alle macerie di questa vita che non conosco. 
L’ultima cosa che ricordo di te, la forza con cui mi hai spinto. 
La forza con cui mi hai spinto e il vestito a brandelli, erano rimaste solo le rose, grigie impolverate, eccole sul bordo, quasi in bilico, come me.
Accarezza con cura la striscia di stoffa che porta introno al collo a mo’ di sciarpa.
E mi hai condannato all’altra morte, quella della solitudine. 
Saremmo caduti insieme, abbracciati con le mani intrecciate come quella volta che andammo a teatro. 
La guerra trasforma i luoghi dove si mangia si fa l’amore, si ride si canta, in luoghi dove vive solo la morte. I luoghi perdono il colore e diventano tutti grigi senza nemmeno il dono delle sfumature. 
Costruiranno un nuovo quartiere su queste macerie, hanno già acquistato i territori li hanno suddivisi in lotti precisi quadrati, geometrici. 
Dormiranno sui nostri sogni, sulle nostre ossa. 
Sulle nostre lacrime.
Un cimitero reggerà le fondamenta delle loro ville.
Io prima avevo tante paure, adesso me n’è rimasta solo una.
In questo grigio che avanza, ho paura di dimenticare 
la geometria del tuo viso, le sfumature degli occhi.
(…)
Dunque sono l’ultima.
Alla fine di questa voce, si alzerà il vento, 
sul limite del vento, una vela stanca
nella nebbia delle macerie.
Una nuova mappa 
porterà via un’intera razza
E nascerà nuovo terrore.
(…)
È nato un piccolo giglio laggiù. 
Nel buio della nostra notte, 
nei silenzi di queste albe, 
solo lui brilla di bianco. 
Lo vedi anche tu?

Si alza versa la polvere all’esterno, sta coprendo il corpo dell’amato come un tempo fece Antigone col fratello. Lentamente cala il buio.

*I versi appartengono alla poesia di Franco Fortini
«La linea del fuoco»