Quando  Don Chisciotte venne in Sicilia

Monologo di

Antonio  Sapienza



Sono qui per parlarvi di Don Chisciotte in Sicilia; ebbene, si, sono pronto, eccomi qua, parlo. (breve pausa) Ma, naturalmente, prima vorreste sapere chi sono, e mi sembra pure giusto.
Mi chiamo Michele Servante e sono nato a Sant’Alessio Siculo, un piccolo paesino in provincia di Messina. Ho quarant’anni, e fin dall’adolescenza ho dovuto misurarmi col mio aspetto.
Cosa c’entra il mio aspetto con questa storia? E ve lo dico subito: A sedici anni, frequentavo il Liceo Classico, e una professoressa di Lettere, mi disse che assomigliavo ad un Hidalgo, o meglio, ad un  torero. Infatti avevo capelli corvini, occhi di brace, labbra sottili, basette alla Elvis, spalle quadrate, ventre piatto, fianchi stretti. Niente male, no? E, così, da quella volta divenni, per tutti, l’Hidalgo. Beh, in fondo in fondo, non mi dispiacque tanto; già, perchè le ragazze incominciarono a... ronzarmi attorno.
Poi, all’Università, a Messina, conobbi un ricercatore, che divenne mio carissimo amico, il quale mi convinse, visto il mio cognome – come d'altronde anche come i vari Castiglia, Martinez, Lopez, Cusmano-  che io fossi certamente di origine spagnola. Beh, non c’era da meravigliarsi, visto che gli spagnoli avevano spadroneggiato in  Sicilia per quasi due secoli.
Detto fatto! Iniziammo una personale ricerca per sapere s’io fossi veramente tale.
Infatti, questa  ricerca, risultò, pressappoco, che il mio cognome - Servante- potesse essere una corruzione dello spagnolo Cervantes.
“Cervantes, chi? quello del Don Chisciotte? “- chiesi.
“E già, proprio così”.- mi rispose lui.
“Ma va’, proprio io!”- ribattei.
“Ma si!”- mi ridisse -“ perché c’è una prova storica inconfutabile: Cervantes fu a Messina, ricoverato all’Ospedale Maggiore, in seguito a delle ferite riportate nella battaglia- vittoriosa - di Lepanto, del 1571.
Tu abiti in provincia di Messina, quindi…”- e mi lasciò nell’incerta stuzzicante  curiosità.
Beh, voi al posto mio cosa avreste fatto?
Avanti ditemi, sollecitati dalla vanità, voi cosa avreste fatto?
Certamente quello che feci io: collaborare, con entusiasmo, alle ricerche, vere e proprie, per rintracciare le prove indiscutibili della mia nobile discendenza.
E, ancora una volta:
Detto fatto!
Per prima cosa si valutò all’anagrafe la mia genealogia. Ma, purtroppo, ci dovemmo fermare al mio trisavolo, perché, poi, si persero tutte le tracce.
Il mio amico, a questo punto non si arrese, e volle percorrere nuove strade: ed ebbe un vero colpo di fortuna: Negli archivi della Facoltà di Storia, in uno scantinato- tra varie cataste di vecchi documenti, ammucchiate, a seguito del terremoto del 1908, che distrusse la città- egli trovò un manoscritto risalente alla metà del 1500, proprio del periodo in cui Cervantes dimorò nell’isola.
E me li mostrò.
Pensate che emozione.
Analizzando il documento, scoprimmo che lo scrittore aveva avuto una relazione amorosa con un’infermiera dell’ospedale, dalla quale ebbe un figlio.
Un mio avo?
Chissà.
Mamma mia, che tremarella!
Proseguendo nell’esame degli altri documenti, fummo, ancora una volta, baciati dalla fortuna, perché, tra le altre carte di poca rilevanza storica, rinvenimmo un libercolo dove, con grafia incerta, era stato scritto un racconto, il quale riportava le gesta di un certo Don Chisciotte in Sicilia.
Era il medesimo personaggio del Cervantes, ma il racconto era stato composto dallo stesso scrittore?
Forse,
Chissà.
Intanto esisteva.
Agli storici l’ardua sentenza.
Pertanto, non potendo trafugare il manoscritto, lo ricopiammo diligentemente, ed eccolo qui, (sventola un libercolo) riscritto in bella grafia, e che, se lo volete, sono pronto a leggervi.
Si? Dite di si?
Allora, introduzione:

Nobili dame e cavalieri, con questo mio conto, vi narrerò delle mirabili gesta d’un  Hidalgo, valoroso paladino; che, col suo grande coraggio, la sua immane forza, e la sua sete di giustizia, si rese immortale tra gli uomini. Egli ci venne donato dagli Dei, per porre fine alle tristi gesta dei malvagi contro i derelitti, poveri e mortali. E così, nobil dame, giovane pulzelle, piccioli e vegliardi, nonchè uomini di pensiero fine, e plebe innocente o presunta tale, ebbero in lui il baluardo contro l’ingiustizia, la sofferenza e sopraffazione; infliggendo ai tristi, la giusta punizione - salvo complicazione.
                       
Ordunque, come preambolo della storia, che m’appresto a raccontare, dirò, speriamo da homo saggio, che in assai lontane Terre, vennero alla luce nobili Cavalieri veri, per porre fine a ogni scempio, con atti nobili, coraggiosi e fieri, il cui valore fosse d’esempio per lo nobil agire, e oltre.
Il loro principe fu il famosissimo Rolando de’Franchi, assecondato da un drappello di fidi compagni valorosi, giusti e parchi; i quali dettero battaglia senza scampo, pure a sudici bavosi negrieri, nonché a pirati e filibustieri- a tutto campo!
Ma, purtroppo la Dea Fortuna voltò le spalle al più grande degli Eroi, e il Nostro Gran Paladino. valoroso giustiziere, durante una feral battaglia, fu colpito a morte, da un mazziere, a tradimento, da tal malnato Agramante- figlio del fedito Morgante- parente alla lontana, da parte materna, di un certo Magno, detto Taverna, per lo trincare vino a barili, e che poi finì annegato in uno stagno.
Così lo mondo, lasciato al suo destino, pianse a lungo il suo Paladino.
A quell’epoca, li saraceni tiranneggiavano un’isola della Magna Grecia, terra di pulzelle formose e di homini gagliardi; di profumi inebrianti e luce tersa; d’immensa bellezza dai monti insino al mare, ma che padrona non era più delle sue virtù più sane, di beni e di Castella, ma serva di tiranni, d’assassini e di lenoni d’altra favella.
Or il grande Hidalgo, piuttosto sfaccendato- ch’era ammirator e seguace morale, dell’ormai secolare defunto Paladino, e che raccolse dell’ideale il testimone- confondendo assai lo Mille con lo ’500 - scese in campo in giuso, verso la Sicilia bedda e solatia, per pugnare contro li presunti mori e lor armento.
Quell’eroico e pugnace novello Paladino, si nomò Don Chisciotte, e sbucò in Trinacria, come un asparago nella notte, improvviso e provvido; il quale in sella allo sfiatato equino Ronzinante- accompagnato da un fido scudiero di nome Sancho – s’approntò, per la giusta pugna, generoso, prode- del periglio anelante.

La nobil missione ebbe quinci inizio, quando un dì, il nostro Paladino- procedendo per un sentiero da mulo, molto scosceso e insicuro- s’avvide, da lontano, d’una donzella sicula, che in riva ad un ruscello, si rinfrescava, coi piedi a mollo, in quelle chiare,  dolci e fresche acque. Era discinta la creatura, intenta a bagnarsi le tette a pera, che non s’avvide dei presenti astanti. Paventando un triste presentimento, il cavalier senza paura, credette di scorger da dietro dei dirupi, loschi figuri appostati come lupi- come dir dei miseri guardoni.
“Fido Sancho”- tuonò l’Hidalgo con fiero piglio “Scorgi tu, qui attorno, qualch’un homo che insidia o adesca la pulzella? O per caso un volgare moro e marrano, in cangiate sembianze, che mira la bella sicula, ascosto all’occhio umano? Casa farebbe or qui, se fosse ancor in vita Rolando, per aitar la dama in periglio stante? S’avventerebbe sui marrani sguainando tosto la durlindana e salvando da lor grinfie immonde, questa donzella siciliana? Certamente si! Onde per cui, senza por tempo alcuno, mi slancio all’attacco pronto e sicuro, contro il vento, e…” - “ Nullo!” - gli grido lo scudiero! che non avea scorto alcuno.
Ma il novel paladino, non udendo, spronò l’infimo cavallo, andando,  coraggiosamente alla pugna. Ora, Ronzinante, senza mestiere, inesperto di lotte, per di più cavalleresche, nella corsa precipitosa, inciampò nel ciglio del ruscelletto, facendo volar il cavaliere nel bel mezzo dell’acque chiare, come se fosse ranocchia a gracchiare.  

La contadinotta urlò in dialetto: “Minchia, chi scantu!”- ovvero che spavento. Indi alzò le gonne e tosto fuggì via. A quel grido ridondante, accorsero a flotte i villani furenti di gelosia, che con asce, bastoni e pale, si accinsero a menare il Tizio e il Tale.
Ma Sacho, lesto, agguantò il gocciolante Hidalgo, portandolo fuori, seppur zoppicante, lontano dalla plebe brulicante. La qual, Signoria -inzuppato e pesto- se la prese con Ronzinante, colmandolo lesto, d’insulti, e ancor peggio, di calci di dietro, davanti, addosso e di trasverso. Lo scudiero, saggiamente, si intromise nella questione: “Nobil cavaliere”- ei disse – “ non fu colpa dell’animale, ma degli spiriti del male, che sol con le magie e riti demoniaci, han potuto aver la meglio su Vostra Eccellenza, eroico e ardito sfidante di maniaci - in abbondanza.”
Il Paladin, rincuorato dal la piaggeria, e dal fuocherello che, frattanto, gli asciugò le nobili ossa, volle presto riprende il suo cammino- alla riscossa.

Fatti appena quattro miglia, il nostro Baldo udì grida e voci trafelati, provenire da alcuni casolari che scorgeva a mala pena. Onde per cui incontrando un viandante,
chiese nuove su eventuali assalti di mori bricconi o di brigante.
“ Uom che viaggi in suso e in giuso, come colui che non si ferma mai, dimmi cosa sian codeste tramestar e grida, che giungono al mio orecchio, da lontano, e che non scorgo niuno dei contendenti? Forse son mori o predoni che, si sollazzan con pulzelle innocenti e pure?”
Ma il vecchio viaggiatore, allarmato da tal discorso, scuotendo il capo come un vecchio ciuco- come a dir ch’è matto! - volse le terga e, come insalutato ospite, filò via.
Lo Cavalier, a codesto punto, trasse le sue conclusioni: “Quel tale è sicuramente unto da color che non voglion essere scoperti; perché trattasi di gente senza onore e vanto; anzi, ascoltami Sancho, che son fiero di codesto pensiero: Son marrani color che mestano, son mori e briganti che sogliano abusare di donzelle sprovvedute e belle- e di madri a dir il vero, poca accorte- che, certamente, svestendole di busti e gonnelle, fan di loro misere schiave e miscredente odalische, per i lor torbidi trastulli. ”
Sancho, disse timidamente – “ Eccellenza, a me paion canti…-
Ma l’Eccellenza Sua capì “vanti”; quindi, assai convinto, Ronzinante presto sprona, e ve’ homini co’ piedi insanguinati, che pigiano dama o damigella, dentro un tino grondando sangue, come se sgozzar avessero una mucca, un toro sbuffante, oppure un elefante.  
Brandendo l’arma, infin si slancia, mentre Sancho un forte grido lancia: “Messer cavaliere, non son mori malnati, ma villan buzzurri delle vigne, che fan il vin cantando in coro, com’usa li contadin al lavoro. Mettete in giuso l’armi e l’ira perché preveggio  che sarem randellati, da parte di una masnada di accalorati!”

Troppo tardi!
Lo Cavalier era entrato già nella pugna: ma una gran legnata di convesso, menatale da un bifolco, alle terga, col bordon di leccio nodoso, lo disarcionò, facendo rovinare il  valoroso, in un campo pien d’ortica di Marassi; la qual cosa prude e punge, come medusa in mar di Sargassi.
Al fin, veggendo lo paladin col cul per terra, a grattarsi le membra da forsennato, la marmaglia- sollazzandosi, si placò. Allor Sancho lo soccorse e l’avvolse nella paglia, onde fugar dalle nobil membra, forti e delicate, tutto il brulichio di mille insetti -cobra, suggenti come beoni, allappati al fiasco del nettare di Bacco.

La paglia e lo strofinare, fecero effetto, cosicchè, risolto il gran prurito d’addosso, lo Cavalier prode riprese il suo ire, vagamente impettito, come un eroe, un po’ in declino, provato e scosso; ma col volgar pensier sul pessimo tenzone, combattuto contro truci… maneschi vinaioli.
Onde per cui, cavalcava torvo e pensieroso, magari pensando, chissà, a quel bordon nodoso.
Ma ad un tratto, sobbalzò di brutto, s’alzò sulle staffe per mirar da lontano, e sbirciando tra un ramo flesso, vide e scorse un gruppo di lanceri su lor focosi destrieri. Or li credette dei sicari prezzolati, pronti a prevaricare dame e homini innocenti, ovverosia, da ferire o magari infilzare.
Orbene, pensò sicuro: Certamente, costoro, han saputo, per fama, chi egli fosse, e allor gli tendevano certo un agguato, con tradimento e mosse; per cui senza titubar un sol momento, gridò al fido scudiero: “Sancho! Approntati per dare battaglia, dammi scudo, lancia e uncino, e prega per contanti vili truculenti; che tra poco saranno senza testa, cor e denti!”
E si avventò contro la canaglia -fatta da pale di ficodindia a macchia. La quale tutta si scompiglia, perdendo succo e spinoni, planarono sul corpo dell’improvvido aggressore; mentre invano il servo si scapiglia, vedendo Signoria bell’e conciato, com’un cuscin di spille al mercato.

Uscito da cotal scontro impari e ferale, mezzo rotto e mezzo traforato, il nostro nobil cavalier leale, volle trovar meritato riposo, nella capanna d’un promesso sposo. L’accolse l’ospite benignamente, diete a tutti pane e cacio sotto i denti e… lacrimoni dati in aggiunta. (mentre per il povero Ronzinante ci furono, solamente, torsoli di cavolo vecchi e duri, per i suoi denti poveri e insicuri). Chiese il Cavaliere all’ospite gentile di qual tema era il motivo di tal lacrimare. L’homo, tra un singhiozzo e un pianto accorato, raccontò al paladino le sue pene: Aveva il cor spezzato perché la sua promessa pulzella, fu rapita da un tipo prepotente e losco, armato di tutto punto come un Marte, che seco, per lo piacer suo s’era presa;  e la tiene prigioniera dentro il folto bosco, nel suo covo- un labirinto dell’intrigo inestricabile della ramaglia- sentinellato da mastini forti e canaglia.
E vorreste che il nostro eroe, non si mettesse tosto, di buon buzzo, e con ferrea volontà suprema, d’andar a scovar il miserevole bandito, e salvar la bella promessa verginella  dell’homo generoso e puro, qual era lo suo ospitante?
Ipso facto, il Paldin, ecco che interviene, lancia in resta, galoppar veloce, in cerca della sposa -che conviene liberar dall’orrido supplizio- onde per cui, per l’improvvido  malnato, arrivata è l’ora del giudizio.

Giunto nella foresta atroce, senza scorgere un’anima viva, si mise a strillare con gran voce: “Codardo tizio orrido e crudele, vien subito fora dalla boscaglia, perché un giusto cavaliere ti sfida, in singolar tenzone per liberar la pulzella, ch’è tanta amata da un Homo buono e giusto ; e, intanto che ci sono, voglio liberar, dalla tua fosca presenza tutta la contrada- orrido mestierante malvagio, e malfattore. Ergiti or dunque, perché giunta fu, come già ti dissi, l’ultima tua ora!”
Ma dal fondo della foresta arrivò una gran pernacchia malandrina, Restò basito il gran cavaliere, con una mano all’elsa e l’altra al brigliere. Quinci apparì la bella rapita, tutta giuliva, abbracciata all’omaccione -ridente e gioconda- tal qual la cosa fosse proprio vereconda, d’amar codesto ceffaccio brutto e puzzone. Ma “ de gusti bus” non si può far questione.
Scornato, il cavaliere lascia la briga e, col morale ai tacchi, e già provato e stanco dalle cruente avventure, pensa che sia giunta l’ora, che si stacchi e si riposi. Indi disse perentorio, con tono brusco -“Scudiero, stanotte ci accampiamo qui, al margine del bosco.-
“ Ma Vossignoria,”- rispose il servo- “ c’è il nostro ospite che ci aspetta. So che ci a preparato le polpetta. Non sarebbe cosa scorretta, prendersi tanta fretta sol per accamparci in questo luogo lucubro e deserto?”
“Nossignore, servo senza intelletto, vorresti che dicessi all’ospite benedetto, che la sua promessa sposa s’intrattiene carnalmente- ossia anca volgarmente detto, a copulare- col rapitore, divenuto carnalmente il suo signore?” rispose il cavaliere accigliato e netto!
“Ma eccellenza sarebbe proprio necessario metterlo a conoscenza…”
“Tu, misero servo e precario vassallo senza futuro, come osi pensare che un nobil cavaliere, senza nessuna macchia scura, menta ad un homo tradito dalla sua futura?”
“Sarebbe sol una piccola bugia, ma, chiariamo, a fin di bene.”- Disse timidamente il Sancho.
“Taciti! e in silenzio prepara lo campo, e non osar mai intrometterti in questioni a te avulse, nonché regole cavalleresche a stampo- che ti sono financo tutt’ignote! Ed or, fine della questione e lasciami tranquillo a pensare al mio destino brullo.” -Rispose il Don alzando la mano, come per dire: E falla finita!  
Sancho, incupito, si accinse a preparare il campo, accese un fuocherello, ma con niente da metter nel fornello, perché di cibo non aveva alcuno, né crudo, né precotto -come dire che non c’era né pane, né vino, né biscotto. Ma, poi, guardandosi attorno scorse fragole di bosco, erbe e tuberi commestibili, e con essi preparò il frugal pasto per Sua Signoria ch’era sfinito e lasso.
Intanto il Prode, sorbendo la brodaglia, pensò alla Piccardia, terra di prodi e di bell’avventure; poi a nobil gesta di cavalleria; indi ricordò la sua gran battaglia-  che fu tale da renderlo immortale- contro i giganti furenti e mulinanti, ivi rumorosamente residenti; infine incline, con un languido sospiro, a un’idea che gli attraversò la mente, sicchè la sua nobile anima volò verso Dulcinea, la giovane pulzella indifesa, per la quale compì la sua prima impresa.
E nella frescura della sera, tutto divenne così, fugace, impalpabile e leggero, come un sogno a primavera; talchè, nel frattempo, all’eroico Paladino, calarono le nobili palpebre del meritato riposo, passando dolcemente dalla veglia, al sonno profondo del valoroso. Mentre Sancho lo copriva col mantello, perché spentosi s’era il fuocherello.  

All’alba, e di buonora, il Cavaliere s’incammina verso nuove esaltanti imprese; meditando sulle umane pretese di giustizia elargita con generosità; quando al suo sguardo attento e determinato, sempre volto al bene giusto e inusitato, si appuntò, e s’avvide di una folla in briga, su di un uomo al pal legato, che con verghe e rami vien legnato.
E soffriva l’homo con le membra appese, e insieme ad esso, due infelici imitator del tale, che con lai, suppliche e qualche scossa, cercavano di distogliere la plebaglia urlante, dal colpir ferocemente lor misere ossa.
E vorreste che l’Hidalgo restasse lì a veder lo scempio, come colui che assiste al palio?
Allor con furore egli si mosse, e contro tutti li demoni crudeli e stolti, d’ira s’accese; quinci- sfoderando pugnale e durlindana, menando colpi a destra, a manca, alla lontana-  e come colui che mai si sfinisce e stanca, fè, con la fantasia, giustizia all’homo, e alla sua compagnia.
Ma la realtà fu frustante, perché quell’homini  infuriati, villici eran, e non Minosse in veste di brigante; lo qual provavan la Passion di Cristo, e dalla storia facevan le mosse, per poi davanti ai fedeli andare a recitare, come s’usa a Pasqua, onde replicar il gran Mistero della Sua morte e della Parusia, con tanti amen, ovvero, così sia.
Or, nel furor della calca, anca i due presunti malfattori- quei vili e loschi affiancatori- ch’eran appesi alle altre croci lì collocate-  come novelli Giuda, scesero giuso, a dar manforte alla truce folla di scalmanati.
E le mazzate che arrivano al Tristo, furono anche per il suo servo Sanchio, mentre il ronzino, vecchio d’esperienza, non visto fuggiva - alla chetichella – per prudenza.
Don Chisciotte scampò dallo scempio per il provvidente intervento di un homo attempato, lo qual vide il paladino mezzo morto e azzoppato, inerte e sanguinato; e allor diete fine alla pugna, asciugando, al Paladin sconfitto, il viso e la bocca con una spugna. Ma ferale, per il Cavalier, fu quel gesto, perché, quella maledetta dell’amaro gusto, intrisa d’aceto e aloè, fu vomitevole per l’homo giusto, anche se ferito, stanco, lacerato e fesso.

Dopo quest’ultima iattura, come colui che ha contro la sventura, un homo di normal cognentura, sarebbe rinsavito, e avrebbe del progetto desistito, cioè quello di recar indefessa protezione e difesa alla moltitudine irretita o prona, senza tentare il suicidio della sua persona.
Ma Don Chisciotte no!
Dopo il lungo riposo del reduce scampato, testardo e puro, volle ancor sfidare il Fato duro, e alfin decise di purgar da solo, della Sicilia il dolce suolo, dal crudo nimico feroce, ovvero dallo stuolo di tiranni truci, e di quei briganti prostrati ai loro loschi offici: Come dire… dagli amici degli amici!

Riprendendo il cammino, quasi al ciglio di una trazzera, egli s’imbatté con cipiglio, in un gigante tutto d’un pezzo.
“Sancho fidato scudiero, chiedi a codesto maldestro altissimo pelandrone, se per caso è nomato, fin da quando fu neonato, con titoli e onorificenze appropriate, affinché sappia con certezza con chi mi batterò- quando sarà calata la brezza- se esso non si toglie tosto e veloce, dal cammino che porta verso il mio destino?”
Il buon Sancho si scompigliò con le mani artigliati i capelli. Possibile che Sua Signoria, non ha visto e capito che si trova di fronte a un grosso cimiterial cipresso?  Allora disse al valente paladino: “Messere cavaliere, codesto grosso…come dire? sarebbe un vegetale e non un animale, onde per cui non può parlare...“
“Non intende nostro linguaggio? Non è certo di gran lignaggio, quello è forse un forestiero…-“
“Ehmm, si, mio signore, è della famiglia di chi, or ora, ha detto…foresto della foresta, come dire un alberone…”-
Ma il Nostro, non si scompone, anzi prende posizione e, vedendo in confusione lo scudiero, indica, anzi, impone ad esso, di chiedere il nome dello sfidante; poi con voce insinuante disse tra se: “Ohibò! Tanto mistero m’induce a credere che questo marrano sia della razza dei mori invasori, onde, mi chiedo, se non si nasconda in esso, sotto mentite spoglie e per magiche vie, quell’Agramante, traditore indefesso e uccisore, alle terga, del valoroso Roland gran paladino. E sento che è il destino che me lo porta di fronte, onde io punisca il suo tradimento. E questo ora intendo fare, a cor contento!” Poi, intanto che Sancho balbetta qualche scusa, egli,  con voce tonante grida: “O tu vile moro senza onore, t’ho scoperto! mettiti in guardia e accetta la sfida. Sappi già innanzi a tutto, che la tua ora è bell’è finita.
In guardia! “
E senza metter tempo alcuno, s’avventa verso l’avversario con lancia in resta e senza scudo; lo quale, avversario, con coraggio, resta immobile al suo ancoraggio; mentre la carica dello sfidante s’infrange tra i suoi intricati rami di aghi e pigne. La batosta che prese, fu molto dura, ma non tale da destar al Cavalier paura; al quale spezzatasi l’ arma d’ordinanza, declama alla cittadinanza, accorsa ad assistere all’assurdo tenzone, come se fosse uno spettacolo di bricconi.
“Ah, il messer fellone, rifugge la cavalleria. Orbene, dunque vorrebbe or battersi con arma a taglio e punta? Ebbene, così sia! Vediam chi la spunta!“
E sfoderata la durlindana, rifà una carica perfetta. Ma uno spiffero di vento maestrale, fè guizzare la verde ramaglia come balestra, che colpì in pieno viso lo sfidante furioso. Il quale preso lo sganassone, alla sprovvista, cadde, ma si rialza dal suol: a prima vista, tutto baldo e combattivo, ma fatto tre passi al suo attivo, al quarto inciampa, e crolla a terra con su’ gran rampogna. Si rialza in suso, scostando lo scudiero, giunto in suo soccorso; indi impugna la mazza – quella ferrata, dentellata a pazza- e si accinge a colpir a come vien viene, ovvero a caso, il crudel feroce e astuto contendente; per cui prende la rincorsa, e molla un fortissimo fendente, al quale risponde il suo avversario trattenendo nel tronco la ferrata mazza, stringendola forte, dai suoi acuti denti- mentre il Cavalier prode, gira e volta all’impazzata; dopodicchè, nell’abbrivio conseguente, e  dopo i colpi contundenti, ei si trovò straziato e vinto, riverso tra i rovi di un convento, messi lì a paravento.
La folla, nonostante tutto, volle acclamarlo vincitore: per cui, allegramente, prese dei fiori di campo, ad uno ad uno, e fece allo sfortunato, simil corona… di Rege, per il valore dimostrato nella pugna, contro il titanico cipresso e su’ pigna.
S’appressò allor un villano curiosello che dimandò a Sancho, notizie sullo strambo mattutin duello:
“Messere, vorreste dire a me meschinello, perchè il vostro Cavaliere indefesso, s’è voluto batter a feral tenzone, contro il nostro innocuo cipresso? “
“Perché al Cavaliere errante sembrava quel can d’Agramante.”-  rispose torvo lo scudiero, mentre ripuliva il nobile cimiero.
“Oh bella!” - disse l’homo con meraviglia- “ Dunque pur quello, fa lì pipì; come usan far li can di qui?” E indicando l’alberone, fuggì via il birbone.
E, dopo un’occhiataccia, volta al villan senza faccia, Sancho caricò lo Cavalier ferito, sul dorso di Ronzinante, e se ne partì impettito, brontolando seco: Sacripante!

E a questo punto, diciamolo chiaramente, nessun homo chiaroveggente, avrebbe continuato la tormentata e vana avventura, nella sicula isola, perseguitato ogni dì dalla jettatura.            

Ma non per lui, perchè rinvigorito dalle cure dello scudiero- che gli fece un paio di  zabaioni al vischio-, e ignorando del tutto il grande rischio, l’Hidalgo, ancora più delirante e folle, volle togliersi un altro sfizio:
E puntò in su- senza tema alcuno – verso il fumo del Monte di Nessuno.
A nulla valsero le preghiere, unite alle lamentele, con tanto di Rosario e Ave Maria, del povero Sancho- il quale in balia di una mente stolta e allucinata-  presagiva che l’ambita meta volgeva verso la fine prematura, di una vita già colma di iattura.
E si disperava, implorando Sua Signoria:
“ Come ha potuto, Vostra Eccellenza, sopportare, fino ad ora, senza-si fa per dire- timore, rossore o vergogna, tutto ciò che fin qui è stata gogna? Non sfidiamo il Fato da insolenti, ma volgiam, dunque, le terga indifferenti - e correndo come il vento, fuggiam via da sto tormento!“
Rispose con sdegno il Prode, ansante:
“Fuggir dalla sfida? Giammai! E tu vile plebeo, saresti solo un filisteo, mentre io son come Sansone, che con forza ci s’impone. Seguimi tosto e non fiatar giammai.”
Poi, disgustato dalla sgradita supplica, volse il destriero dalla vecchia criniera, e puntando alla volta della meta desiata, fieramente alzò dell’elmo la visiera.
Lunga e faticosa fu la scalata - perché tra cenere, lapilli e brune rocce- si faceva sempre più faticosa e dura.
La strampalata compagnia, procedendo con due passi avanti e uno all’indietro, col vento che soffiava a tradimento, col puzzo di zolfo sotto il mento e col fiatone oltre lo sfinimento, giunse presso la vetta, anelata, lieto dell’agognato felice momento, con Sancho paralizzato pel paura, e la vile fuga del Ronzino- ormai certa e sicura.
Giunto, solo- finalmente il vetta, e poi sull’orlo del cratere- ei si mise subito a sedere, poi si sporse con incoscienza, verso il limite torbido e insicuro, per ritrovare virtù e conoscenza – disperse nella splendida follia.
Ma all’improvviso, una ferale nuvola mefitica di gas metano, sorse dalla bocca spalancata del vulcano, che stordì il nostro Hidalgo in modo tale, che, perduto l’appoggio e l’equilibrio, precipitò in giù, nella voragine sottostante, in un crescente di forte abbrivio ridondante.
E l’Etna, immacolata e pura, l’accolse nell’ampio seno, là, in fondo, ov’ essa è tutta scura.
Don Chisciotte, giunto in basso- troppo stanco e al fin lasso – rinvenne, come per magia, il suo smarrito senno; indi, tosto, più in giuso, trovò la compagnia del saggio Empledocle; e insiem rifletton, ormai da spirti nulli, sulle vicende umane, e su’ lor trastulli.

      
Fine dell’anonimo manoscritto… con qualche atroce dubbio su chi l’ha scritto.  
Bene! Or dunque, come certamente sapete, per la morte dell’Hidalgo, furono composti molti epitaffi, tra i quali quello del suo amico Sansone Carrasco, che diceva così:
Giace qui l'hidalgo forte
che i più forti superò,
e che pure nella morte
la sua vita trionfò.
Fu del mondo, ad ogni tratto,
lo spavento e la paura;
fu per lui la gran ventura
morir savio e viver matto.


Ma… dell’Etna, nessuno ne parla?


Signori il racconto è giunto alla fine; ma prima di lasciarci, voglio farvi una confessione:
Da come è andata la vita mia, non sono certo del grande Cervantes, il discendente; ma bensì di Don Chisciotte, illuso, fiero, e… perdente.

Detto ciò, vi saluto, e prendo commiato. Buona serata.