CITTADINE

di

Valeria Moretti e Lucia Poli

In scena uno schermo grigio e un tappeto grigio. L’attrice è vestita di rosso, si inginocchia sul tappeto in proscenio e legge alcune carte.


Capitolo Uno
PARTIGIANE

Nell’inverno 44-45 si vedevano i tedeschi che scappavano in campagna, in mezzo alle vigne, e i contadini li prendevano e li chiudevano nei porcili… Poi c’è stata l’occupazione di Reggio Emilia e io sono andata con i compagni alla Prefettura, al Municipio, alla Questura, a occupare i luoghi più importanti e si voleva fare la manifestazione in piazza, ma c’erano ancora i cecchini che sparavano dal Duomo, così siamo andati in Teatro. Ah, il mio comizio è stata la cosa che per tutta la vita me la ricorderò sempre…Quando incontro delle compagne che hanno difficoltà a parlare mi viene in mente. C’era Montagnani, Marelli, che era del “Triumvirato”, Corazzoli e tanti altri. Doveva parlare prima il rappresentante dei partigiani, poi uno dei giovani, poi una donna, il sindaco e quelli del Comitato di Liberazione Nazionale. Mi dicono: “ Te, Piera, devi rappresentare le donne e fare il discorso!” “Chi? Io? ” Ho cominciato a sentirmi la pancia….tutta in subbuglio… Perché un conto è parlare nelle riunioni clandestine, lì avevo la parola abbastanza facile, ma parlare in pubblico…. Comunque ho accettato. Sono scappata nella cascina dei contadini dove ero rifugiata e ho detto che non stavo bene, così mi sono ritirata in camera per provare il discorso, da sola. Continuavo a dire: “Compagni, compagne, partigiani….” E poi non mi veniva più in mente niente, nemmeno una parola. Persino davanti allo specchio mi sono messa, macché, niente…. E intanto mi sentivo tutta la pancia che si rivoltava… Alla fine, non so come, ce l’ho fatta e tutti volevano farmi candidata, ma io ho detto: “Mettete la Iotti.” Era davvero un buon elemento e difatti è stata eletta.
Io vi voglio dire una cosa. Nella mia lunga militanza nel partito, non è neanche una scoperta, ma una constatazione, che ho fatto: se tu riesci a istruire una donna, cioè a prepararla veramente, a farle capire i principi fondamentali del nostro ideale, lei è più dura di un uomo, più coerente.
Una volta, per le prime elezioni, sono andata a fare un comizio con la Gobetti, sopra Saluzzo. A lei hanno ribaltato la macchina. A me, mentre stavo parlando, mi hanno tirato un sasso. Proprio in quel momento, chissà perché, mi erano caduti in terra degli appunti e mi sono chinata per raccoglierli, così il sasso ha preso in pieno il compagno che era dietro di me. Gli hanno dovuto mettere tre punti. Sono abbastanza contenta della mia vita. Certo, se avessi avuto più preparazione culturale sarebbe stato tutto più facile. Oggi ignorante è chi lo vuole essere, con tutti mezzi a disposizione che ci sono, ma allora… Io vedevo la Ravera, la Giaccaglia, la Fiori, afferravano con più facilità di me perché avevano la preparazione… Le giovani oggi sono avviate bene, io sono ottimista. Sembra che non abbiamo ottenuto gran che in tutti questi anni, ma se pensiamo al diritto al voto, al divorzio e se facessero un referendum sull'aborto sono più che certa che avremmo l’approvazione anche per quello.
Sono stata ferita in un combattimento a Mezzenile il 10 dicembre 1943. Ho ancora la cicatrice nella coscia. Erano venuti su fascisti e tedeschi: appena sono arrivati, combattimento. Avevo vicino due partigiani, uno l’hanno ferito alla spalla, l’altro è morto. Allora io mi sono tirata su di scatto e ho fatto una sventagliata col mitra….
Ed è allora che m’hanno colpita. E poi m’han preso prigioniera. Dice: “O parli o ti consegnamo alle SS.” Volevano sapere il nome dei compagni. Mi avevano trovato addosso una lista di centocinquantatre partigiani, ma col nome fittizio, quello di lotta, invece loro volevano sapere da me nome, cognome e indirizzo, quelli veri. Prima i fascisti e poi i tedeschi giù a picchiarmi, ma io non ho detto niente. Ho sentito le prime botte, poi mi sono messa in testa di non sentirle più: se le sento parlo! E non le ho più sentite. Davvero. E’ un fatto psicologico. Loro mi massacravano, poi mi hanno rapata e alla fine mi hanno sterilizzata con due punture tanto che non ho più avuto le mestruazioni, ma io niente: me l’ero messo in testa che non dovevo sentire nulla e non ho sentito nulla.
Nel 44 sono andata sui monti e ho fatto la guerra partigiana: nome di battaglia “Rosetta”. Ero nella Prima Brigata Julia. Ho partecipato a tante missioni, all’inizio eravamo in pochi, ma avevamo una fede cieca, inebriante, come l’aria sottile di montagna che respiravo a pieni polmoni.
Questa non è terra di contadini, sospettosi e attenti alla “roba”, è terra di carbonai, di pastori di capre e di pecore, gente allampanata e silenziosa che vive in una calma senza tempo. Ci hanno accettato subito, come un fenomeno di natura o un atto di Dio. Ho partecipato al colpo della stazione. L’aveva orchestrato Punteria e Ailù mi consegnò una rivoltella – una Beretta – e mi insegnò a usarla. Io ero l’unica donna, con me c’erano Punteria, Ailù, Renzo e Tuono. Partenza alle tre del mattino e giù per i campi fino alla Pieve. Qui abbiamo camminato a lungo vicino a una siepe nel vano tentativo di stare al coperto, ma una luna alta e bionda illuminava a giorno ogni sasso. Arrivati in vista della stazione abbiamo fatto di corsa la scarpata, una sosta sotto al cavalcavia e poi in un lampo attraverso il piazzale. Punteria ha mandato il ferroviere a perlustrare. Veniamo a sapere che sta per arrivare una pattuglia e ci sono già dei militi nella sala d’aspetto di prima classe. Punteria decide su due piedi: lui, Renzo e Tuono fra i binari in attesa della pattuglia e noi, cioè Ailù ed io, a prelevare i militi. Busso alla porta della sala d’aspetto. “Chi è?” “Sono io, apri” “Chi io?” “Dai, non mi riconosci?” E mi metto a ridere, intanto penso: quanti saranno? Sette o otto… che paura! La chiave gira nella serratura e la porta comincia ad aprirsi piano…. Ailù entra d’un balzo: “Non muovetevi!” Sono in due, assonnati. Dall’attaccapanni pendono le carabine e sulla mensola del caminetto ci sono bombe a mano e cartuccere. Ci impossessiamo di tutto e spingiamo i due militi fuori dalla stazione, in fretta, verso la Pieve. Ci fermiamo in un prato e li facciamo spogliare, poi gli diciamo di inginocchiarsi per ringraziare il cielo di essere stati liberati dall’orrenda divisa nera, ma all’improvviso Ailù chissà perché perde la testa e va minaccioso contro di loro. Il più vecchio congiunge le mani: “Ho cinque figli… vi prego.” Ma Ailù gli punta la pistola addosso. Allora io mi metto davanti alla pistola, fisso il mio compagno negli occhi e gli dico calma: “Eravamo d’accordo, no? Solo una lezione. E voi correte, imbecilli, correte.” Non se lo sono fatto ripetere, sono scappati via in mutande e noi abbiamo finito di strappare le camice nere, abbiamo raccolto le armi e ci siamo incamminati in silenzio, a testa bassa.
Nel 39 hanno inaugurato Mirafiori e io, che prima ero in fonderia al Lingotto, sono andata a lavorare là. I capisquadra, i capireparto erano tutti in divisa nera, marciavano davanti a noi e ci hanno detto: “Guardate quando arriva Mussolini di comportarvi bene, eh! di fare il saluto romano, e poi di cantare tutti insieme Giovinezza!” Ma noi operai, un bel gruppo di donne e uomini, ci siamo messi da una parte. Arriva Mussolini, sale sul palco e i suoi gerarchi sono scattati e gli hanno fatto il saluto romano. Noi niente, le mani inchiodate dietro la schiena. Il capofficina ci ha dato uno sguardo di fuoco!
Mussolini incomincia il suo discorso: “Operai, siamo qui ad inaugurare la nuova Fiat Mirafiori , che è il complesso più grosso che abbia la Fiat…Operai, ricordate il discorso che feci nel 1935?” E il nostro gruppo tutti insieme: “Nooooo!” Allora lui non è più andato avanti, ha detto: “Ebbene, se non lo ricordate, rileggetelo!” e ha dato un gran pugno sul tavolo. Tutti i suoi si son messi a cantare a squarciagola “Giovinezza” e il capofficina ci ha detto: “Cantate anche voi, forza! Cantate Giovinezza!” Invece io mi son messa a cantare forte: “Vento, vento portami via con te…” (La canzone vera registrata viene a sostituire il canto in diretta e prosegue in sottofondo per il testo che segue)
Io ho solo un desiderio. Quando muoio, voglio avere la musica e tante bandiere. Lascio i soldi, naturalmente. L’ho detto a una compagna: “Tante bandiere, che costano diecimila lire l'una. Tutte rosse. Voglio un funerale che si ricordi che io sono una compagna. E portatemi anche dei fiori rossi, non per me, perché io non vedrò più niente, ma voglio che la gente veda rosso dappertutto.”

La scena si tinge di luce rossa. L’attrice esce.
Sullo schermo si vede un brevissimo filmato (1 o 2 minuti) in cui una bambina si aggira in un luogo campestre pieno di rovine. Scava una buchetta e seppellisce un animaletto, lo ricopre di terra e ci mette sopra dei fiori rossi. Torna la luce a lato dello schermo in cui è piazzato un leggìo e l’attrice, vestita di nero, comincia a leggere e poi a recitare quanto segue:

Capitolo Due
ELISABETH BARRET

“Il sapone e l’istruzione non hanno effetti rapidi come un massacro, ma, a lungo andare, sono micidiali!” Parola di Mark Twain . Molte donne che hanno usato il sapone, l’istruzione… e naturalmente la passione e il talento, hanno tracciato il cammino della loro emancipazione. Non solo le donne della guerra partigiana, ma anche quelle che si sono servite della penna o del pennello come strumento di lotta. Ciascuna a suo modo ha conquistato il diritto di cittadinanza nella storia e nel mondo. Ma la loro memoria resta frammentaria… impossibile delineare una mappa, urgente però nominarne almeno qualcuna. In piena Rivoluzione francese, fra le tante voci, colpisce quella della cittadina Olympe des Gourges che va gridando nelle piazze di Parigi: “In questo nostro secolo di lumi e sagacità, non può bastare una Dichiarazione dei diritti dell’uomo, occorre anche la Dichiarazione dei diritti della donna che è nata altrettanto libera! Perché gli uomini vogliono comandare come despoti su un sesso che ha pari facoltà intellettuali e pari dignità? Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge e nelle professioni devono essere scelti solo in base alla propria capacità, virtù e talento… Se le donne hanno il diritto di andare al patibolo, debbono avere anche il diritto di andare in Parlamento…” Ad Olympe de Gourges il diritto di andare al patibolo sarà immediatamente riconosciuto: fu ghigliottinata in una fredda mattina dell’inverno 1793 per aver osato criticare Robespierre… Pochi anni più tardi, nella straziante vicenda della Repubblica napoletana del ‘99, Eleonora de Fonseca Pimentel, fine intellettuale, letterata e scienziata di cultura illuministica, fu la prima donna a dirigere un giornale. Progressista, naturalmente. Già da prima, durante i ricevimenti a Corte, tra un ballo e un concertino, riusciva a far circolare copie della Costituzione della Francia rivoluzionaria e dell’Enciclopedie. Purtroppo la repubblica ebbe vita breve. Quando tornò sul trono Ferdinando IV di Borbone, anche Eleonora come altri congiurati, venne condannata a morte. Chiese di essere giustiziata come una donna qualunque, cioè decapitata con la scure, ma le fu negato perché, essendo di nobili origini, le si addiceva di più la corda. Nel salire al patibolo, si permise il lusso di citare una frase di Virgilio: Forse un giorno gioverà ricordare queste vicende.... Vicende di lotta, di sacrifici, di ideali. Il nostro Risorgimento ha visto, accanto a tanti giovani uomini, la partecipazione di molte donne, conosciute e sconosciute. Certo nell’Ottocento le donne erano per lo più relegate in casa e poco istruite: molti collegi religiosi femminili insegnavano solo a leggere, perché non si riteneva necessario che le fanciulle sapessero anche scrivere. Ma in Toscana le cose vanno meglio che altrove, ci sono interessi culturali e una certa tensione progressista, anche se di tipo paternalistico. E’ in questo clima che approda una poetessa inglese, la più grande poetessa inglese della prima metà dell’Ottocento: Elisabeth Barrett. In fuga dalla fredda Inghilterra e dal padre despota, la giovane Elisabeth, che si è appena sposata col poeta Robert Browning, si innamora prima di Pisa e poi di Firenze. Naturalmente è innamorata di suo marito, è innamorata della poesia, è innamorata della libertà…. È la poetessa più innamorata che la storia ricordi. E il suo amore è assolutamente romantico. Tuttavia…. Se osserviamo bene i suoi “Sonetti dal Portoghese” si rimane colpiti dalla quantità di angeli che volano in alto ben dritti e poi precipitano a piombo, si agitano e sbattono le ali, s’incurvano e virano sopra e cadono sotto…. Insomma c’è tutta un’attività angelica che Freud non esiterebbe a definire sesso spinto. Ma lasciamo da parte l’amor carnale per occuparci dell’amor di patria. Tra un colpo di tosse e un infuso alle erbe la nostra Elisabeth compone, nell’autunno del 1847, il poemetto “Le finestre di Casa Guidi” che inneggia alla causa italiana e la propaga fin oltre Manica.

“Ho sentito ieri sera, sotto le finestre di Casa Guidi, lungo la chiesa, un ragazzino del popolo che passando cantava: Oh, bella Libertà!” Comincerò così il mio poemetto “Le finestre di Casa Guidi”. Sarà un inno alla libertà. Non esco spesso a causa della mia salute e perciò le finestre sono i miei occhi sul mondo. In particolare da qui, dalla mia bella Casa nel cuore di Firenze, ho assistito a eventi rivoluzionari…. Soltanto due mesi fa, era settembre… Quella volta, però, avevo chiuso persiane, vetri e cortine, per avere il massimo della concentrazione... Mr Walker, ho udito chiaramente un secondo colpo, l’ho percepito con la mia ardente intuizione prima ancora di sentirlo, e potrei asserire senza ombra di dubbio che il tavolino si sia mosso, sì, ha eseguito quasi una danza su sé stesso. Robert direbbe che tutto ciò dipende dalla mia natura mistica, ma lei conosce mio marito, è scettico a proposito di spiritismo… questo è il solo punto sul quale divergiamo…. Si ricorda la volta scorsa? Fu proprio lui a rovinarci la seduta, oggi l’ho incoraggiato ad uscire… ma ora, cosa sta succedendo? Questo improvviso trambusto dalla strada viene ad interromperci un’altra volta. Lei non merita interruzioni, Mr Walker. E’ un medium di eccezionale bravura ed io le sono così grata per le sue visite….. Sono sicura che la presenza evocata era un poeta – greco magari, Ibico di Mitilene? Pindaro? O Saffo in persona - sarebbe troppo! … forse ha fatto un passo nella stanza, ha sfiorato il tavolo con la sua mano incorporea…. Fantasie, fantasie! Ma questo rumore ci riporta brutalmente alla realtà. E’ intollerabile. Perdonatemi, sono mortificata... ma sono costretta ad aprire le finestre. La seduta ormai è rovinata, tanto vale andare sul balcone e guardare di sotto. Una gran folla ondeggia come un mare inquieto, recando bandiere e schiamazzando e cantando. Tutte le finestre della strada sono gremite di visi e tutti i balconi di figure. Dalle finestre piovono fiori e foglie d’alloro e la gente in istrada - uomini posati, donne giovani e gaie - si abbracciano, ridono, levano in alto i loro piccini. Passano bandiere e bandiere. Sopra recano scritto: “Libertà” “Per l’unione dell’Italia” e ancora: “Alla memoria dei Martiri” “Viva Pio Nono” “Viva Leopoldo Secondo”. Questo tripudio è contagioso! Cosa mai sarà successo? Ecco Robert: è rientrato a precipizio, tutto eccitato. Dice che il Granduca ha concesso la Guardia Civica. Ebbene, è una grande notizia, un passo avanti sulla strada della libertà, una bella tessera del mosaico che andrà a comporre l’unità dell’Italia. Trasformerò tutto in versi e li donerò al paese che mi ha tanto generosamente accolta, sarà un caldo appello alla riscossa del popolo e alla giustizia dei governi. E intendo parlare di libertà senza piangere con i vecchi cantori o i poeti del passato, né sospirare sui morti, perché le tombe implorano giorni di audacia e di forza. Fin le statue spingono lo sguardo in avanti. “Oh, bella libertà! “ canterò insieme al ragazzino del popolo. Mentre Elisabeth, ormai dimentica delle sedute spiritiche, coltiva alti propositi di impegno politico-letterario, e il marito la sostiene e la incoraggia, c’è un personaggio vicino a loro che, invece di far discorsi, si affretta a vivere questa aurora di libertà. Non si tratta del medium, né di altri ospiti della coppia. Si tratta comunque di un personaggio importante se Virginia Woolf, circa ottanta anni dopo, ne fece il protagonista di un suo romanzo. E’ Flush, il cagnolino dei coniugi Browning. “Per tre ore e mezza sfilarono i cittadini in corteo e il signore e la signora Browning sul balcone con sei candele accese agitavano le mani salutando. Per un po’ di tempo anche Flush, allungato tra loro due, con le zampe stese sul davanzale, fece quel che poteva per prender parte all’allegria generale. Ma alla fine - non riusciva più a nasconderlo - sbadigliò. Gli pareva che la facessero un po’ troppo lunga. Una certa stanchezza e un impulso alla ribellione s’erano impossessati di lui. Perché tutte quelle storie? si domandava. Chi era codesto Granduca, e che cosa aveva mai promesso? Quanta agitazione! Perché bisogna dire che gli ardori della signora Browning, la quale non la finiva di salutar le bandiere che sfilavano, lo seccavano alquanto. Tanti entusiasmi per un uomo, anche se pomposamente vestito, erano un’esagerazione. Inoltre, proprio nel momento in cui passava il Granduca, Flush aveva visto una cagnolina che s’era fermata al portone. Cogliendo un attimo di distrazione dei suoi padroni, egli sgusciò via dal balcone e se la svignò. Attraverso bandiere e folla, segui la cagnolina, che fuggiva sempre più lontana, verso il cuore di Firenze. Affievolita ormai risuonava l’eco delle grida; le acclamazioni del popolo morivano nel silenzio. Qualche stella appena brillava nelle acque increspate dell’Arno, là dove Flush, dentro una vecchia cesta, nel fango dell’argine, giaceva con la piccola spaniel. Fino al sorgere del sole l’estasi amorosa li tenne rapiti. Flush tornò a casa solo il mattino del giorno dopo, alle nove, e da quel momento considerò tutti i cani che incontrava per strada, compresi i bastardi, come dei fratelli e non volle mai più mettere il guinzaglio.”

L’attrice esce. Sullo schermo appare un filmato (1 o 2 minuti) che mostra alcuni luoghi di Firenze: il greto dell'Arno, il cimitero degli Inglesi e alla fine una giostra che gira... L’attrice torna in scena vestita di chiaro (infermiera ottocentesca) con bende e biancheria che appoggia sul tappeto, poi mette in ordine, srotola un cartiglio, intanto recita:

Capitolo Tre
CRISTINA DI BELGIOIOSO

Ssss. Silenzio. Dorme.... E' questo? Ecco, è proprio lui----
Alle donne romane
Nel momento in cui i Cittadini offrono la vita in servizio della Patria, anche le Donne debbono prestarsi nella misura delle loro forze e dei loro mezzi. Oltre a infondere coraggio nel cuore dei Figli, dei Mariti e dei Fratelli, possiamo fare dell’altro in questi difficili momenti. Si è pensato di fondare un’ Associazione di Donne allo scopo di assistere i Feriti, e di fornirli di filacce e di biancherie necessarie. Le Donne Romane accorreranno, senza dubbio, con sollecitudine a questo appello fatto in nome della patria carità. Firmato: Cristina Trivulzio, principessa di Belgiojoso, Roma 27 Aprile 1849. E’ stato sto proclama qua che ci ha svegliato tutte, da quelle de Regola a quelle de Testaccio, Ma chi è ‘sta donna? Me son chiesta. E perché je dovemo da’ retta? fa Cornelia. Poi abbiamo visto tutti quei feriti portati a braccia o nelle barelle, chi senza un braccio o una gamba chi con la testa fasciata, che cantavano, felici, la vittoria sui francesi, la cacciata del Papa, allora senza pensarci due volte semo venute qui, all’Ospedale dei Pellegrini. Per strada ce se para davanti un convoglio di carri che blocca il passaggio. Alzo gli occhi alle finestre e vedo gente che scaraventa di sotto materassi, cuscini, coperte, lenzuola, de tutto... Sopra al fracasso si alzano grida “Viva la Repubblica! Viva i difensori di Roma!”…E giù altra robba dentro sti carri che oramai sono pieni, ma nessuno si ferma, macché, è come una gara a chi dà di più, nessuno vuole essere da meno del suo vicino. Anvedi noi romani, a volte così taccagni e a volte…. M’è venuto da ridere! I più ricchi offrivano denaro, i poveri un vestito o una camicia o in mancanza d’altro persino un tozzo di pane. . Che dovemo fa’? - Ha detto Cornelia alla Principessa - Io se volete so’ pronta a lava’ pure i cadaveri per restituirli profumati alle famiglie. Perché noi, donne de malaffare, semo gravide di vizi, ma anche de virtù. Ce dovrebbero bacia’ le mani tutti sti prelati che, quando vengono qui per dare l’estrema unzione ai sordati moribondi, voltano la faccia dall’altra parte schifati appena ce vedono. Ipocriti e maiali, so’ pieni i bordelli de cardinali! Cornelia è una rozza, però c’ha ragione, l'ha detto anche la Principessa, Sì. Una volta, a uno di questi religiosi, tutti azzimati in sottanone e scarpini, che si era scandalizzato per la presenza di tante “donnacce”, gli ha spiegato, con molta pazienza, che tra tutte le donne noi semo le più adatte pe’ cura’ i malati. E perché? Fa lui . Allora lei: “….Eminenza, queste donne delle strade romane non avevano senso morale, è vero, e in tempo di pace conducevano una vita disordinata ed egoista, ma in questo momento si sono rivelate in loro doti redentrici, non pensano più a se stesse o al loro comodo. Ho visto le più depravate e corrotte vegliare al capezzale di un moribondo, senza lasciarlo mai, né per mangiare né per dormire, per tre o quattro giorni e notti. Le ho viste sottoporsi ai doveri più sgradevoli e pesanti, stare per ore chine su ferite cancrenose e puzzolenti, adattarsi agli umori e alle imprecazioni di uomini affranti, e accettare tutto senza mostrare disgusto o impazienza. Le ho viste alla fine restare composte e calme mentre le palle di cannone e di fucile passavano fischiando sopra la loro testa, indifferenti a tutto meno che ai bisogni dei relitti umani che giungevano dal campo di battaglia. Tutte le donne che ho preso a lavorare in ospedale sono cambiate nello stesso modo, quando nel loro cuore è entrata la pietà. Che pena vedere donne capaci di tanta nobiltà e sacrificio costrette a vivere come bestie per mancanza di educazione e di giuste occasioni”. Vivere come bestie! Cristina, non esageriamo! Certo non era un lavoro decoroso né onorevole il nostro, comunque anche la vita di prima ci ha insegnato un bel po’ di cose: come affrontare situazioni difficili, pericolose, a volte addirittura abbiamo risicato la morte. E poi eravamo utili alla società, no? Ce siamo allenate a maneggiare il corpo degli uomini e t’assicuro Cristina che ce voleva stomaco e carità pure nel lavoro de prima, perché da noi ce venivano i deboli, gli infelici, i malati… Chi si rivolge a una prostituta spesso è un “ferito”, dalla vita. A volte invece è un prepotente e un violento e allora so’ dolori!
“Le donne che nun vonno aprì bottega so’ serpe, furie, arpìe, tizzi che scotteno!....
E’ meijo sbatte er muso a le colonne Dormì co un frate e liticà co un prete Che innamorasse de certune donne." Come dice er poeta! (si affaccia in quinta) Tutto tace...
Era sfinita, poverella! Giorni e giorni senza chiudere occhio, senza fermasse mai. Ho dovuto darle qualche goccia del rimedio che si dà ai feriti di pallottola, dopo che sono stati operati dal chirurgo .…. Ed è per questo che me sto a danna’ con le bende e la biancheria, così quanno se sveglia trova tutto pronto. Pronto per cosa? Mah…c’è un silenzio de tomba e suona la campana dello sconforto… Però un ce voglio crede' che sia tutto finito, me lo deve dire lei, Cristina di Belgiojoso, la principessa. Principessa… Pensare che fino a poco tempo fa faceva la bella vita nei salotti dell’aristocrazia, tra l’abiti di seta e l’acconciature, e ora si mette gli occhiali, prende in mano una verga e gira per le corsie come una vecchia governante severa e dà ordini a tutti. Anche i medici la obbediscono. In riga! I pazienti poi, fanno a gara per stringerle la mano, perché lei ha quel modino… una parola giusta pe’ ognuno! Piace anche a me, lo confesso, pure se me diverto a criticalla pe’ la sua vita de prima… Lei dice de noi... io dico de lei.... In fondo pure lei de omini n’ha conosciuti e ha fatto na vita libera… d’alto bordo, certo… mentre noi… mignotte semo e mignotte resteremo. Una volta m'ha confidato, la pincipessa: "Di uomini in vita mia ne ho conosciuti tanti, ma che valessero la pena uno o due al massimo."
A Cornelia invece je vanno bene tutti: Se pija li burrini più screpanti a quattro a quattro con un zu segreto: lei se sta in piede e quelli uno davanti fa er affto suo e uno dereto trattanto lei, pe' contenta' er villano se ne sbriga antri due, uno pe' mano
Sss. Basta co' ste porcherie! S'è svegliata? No no, dorme ancora…meno male. L’ha vegliato fino all’ultimo quel povero giovane. Mameli si chiamava. Dice che era un poeta. E la faccia da poeta ce l’aveva dipinta: lineamenti belli, delicati, espressione gentile, lunghi capelli biondi… pensare che non aveva ancora compiuto 22 anni! Fu portato qui alla Trinità dei Pellegrini ai primi di giugno, con una brutta ferita alla gamba sinistra. Era stato ferito nella battaglia di SanPancrazio, su al Gianicolo…. Me l’hanno raccontato preciso preciso. I francesi nella notte attaccano, violando la tregua, ed entrano a Villa Corsini. Per due volte i volontari di Garibaldi li ricacciano fuori, e per due volte devono ripiegare. Al terzo attacco Mameli non ce la fa più a resta' fermo e si è gettato avanti fra i primi. Così è stato ferito alla gamba, e mi hanno detto per un errore dei suoi… Che mala sorte! L’ho visto subito che la tibia era spaccata per lungo fino al ginocchio, brutta ferita, ma lì per lì i medici hanno sperato in bene e non l’hanno amputato. Qualche giorno dopo vado a cambiare la fasciatura e trovo il piede che si era fatto nero marcio. Allora, consulti su consulti di chirurghi e dottori finché decidono di amputare sotto al ginocchio… sotto lo dicono al giovane, per rassicurarlo, ma invece sono costretti a tagliare più in alto, alla coscia, perché la cancrena si era già estesa. E non è bastato neppure quello…. O forse, come ha detto il dottore: la complessione un po’ gracile del ferito, il suo temperamento linfatico, rendevano impossibile la guarigione. Pure, lui ha avuto un filo di speranza e ha scritto alla madre per rassicurarla, e poi ha scritto ancora una seconda lettera confermando la certezza di rivederla presto, quando ormai lui stesso aveva capito che gli restava poco da vivere. E’ caduto in delirio, ma un delirio dolce, di poeta che recita versi, a brandelli…na parola, poi n'altra... Ogni tanto me chiedeva della guerra, tendeva l’orecchio al tuono del cannone, alle granate che venivano frequenti a visitar l’ospedale…. Quella musica lo rendeva triste e più di una volta ho sentito che diceva tra sé: “Morire sul campo sì, ma non qui, come un paralitico!” Fino al 3 luglio al suo capezzale ci sono stati sempre amici, uomini importanti… Mazzini, ad esempio, è venuto anche tre volte al giorno per vederlo o per chiedere notizie… e quando arriva Mazzini è come il miele per le mosche, si raduna sempre na folla che pende dalle sue labbra e lui dice frasi che sono per tutti, ma a me mi sembran dette proprio pe' me e non l' ho dimenticate: “L’educazione è il pane delle anime vostre!” “I primi doveri sono verso l’Umanità!” “Non vi è Patria senza un diritto uguale per tutti!” Cristina me l’ ha spiegato bene il significato profondo di quelle frasi….. compreso il “suffragio universale”. Io nun sapevo nemmanco che esistesse sto modo de dire. Significa che tutti se po’ votare. Pure noi. N' ce se crede.... Cristina sa tante cose. Ci ha raccontato che prima de Roma c'è stata la rivolta a Milano. In cinque giorni i milanesi hanno cacciato gli austriaci dalla città, loro eran pochi e quasi senza armi, ma sembrava ci avessero i poteri sovrumani. Hanno alzato delle barricate che arrivavano insino al cielo, ci buttavano sopra de tutto, i nobili svuotavano casa: giù cassettoni e pianoforti, gli attori de teatro giù le quinte de' teatri, i preti via i pulpiti delle chiese, e poi gli omini sradicavano le pietre del selciato pe' farne armi e le donne dai tetti gettavano pentole d'olio bollente sulla testa dei nemici. Tutte le campane di tutte le chiese de Milano suonavano insieme, a più non posso, pe' rintrona' i cervelli degli austriaci. Insomma è stata un'avventura... Poi è finita.... Riposa ancora un po' Cristina, vai! te lo meriti. Oh, non si è mai allontanata dal capezzale di Mameli, l’ ha vegliato per tutti e tre i giorni dell’agonia… in certi momenti gli leggeva un libro, ora non mi ricordo l’autore, francese mi pare… no, doveva essere inglese, perché i francesi in questo momento non si possono vedere nemmeno dentro un libro, per colpa dei soldatacci, stramaledetti…. Non lo so per certo se sono tornati a fa’ i padroni qui in città, però ho occhi per vedere e orecchie per sentire. Stamani, all’alba, prima di spirare, il giovane Mameli, ha detto ancora qualcosa; all’inizio non c' ho capito niente, me son sembrate parole senza capo né coda, ma poi si è calmato, gli è passato uno strano sorriso negli occhi e ha detto: Auguro giorni migliori alla Patria! Ed è morto. Sapeva? Gliel'ha detto Cristina? O l’ ha intuito da sé? Che anche la repubblica è morta… Questo silenzio non lascia dubbi. E’ doloroso che sia finito tutto così presto. Non ci posso crede’. Per un po’ sono stata… mi sono sentita… utile. Poi lavorare tutte assieme, agli ordini di una donna che … mai un cedimento, mai insofferenza o schifo, mai paura…E ora che farà, lei? Tornerà a fare la principessa? E io… io che farò? Mentre l’attrice esce di scena sullo schermo appare il solito breve filmato che mostra questa volta le Mura di Roma a Porta San Sebastiano, poi il percorso si allunga fino alla Via Appia e all’acquedotto romano, le Mura di Villa Sciarra e del Gianicolo.... Vediamo la bambina e uno strano folletto che si affacciano dall'alto e guardano in giù. Torna l’attrice: ha un velo nero in testa, mentre se lo toglie pian piano e va a deporlo sul tappeto in proscenio, recita:

Capitolo Quattro
ENRICHETTA CARACCIOLO

Peperoni arrosto… pesce fritto… sterco di cavallo e il profumo dolce-amaro degli oleandri ... dietro il muro ci devono essere orti peni di salvia e di mentuccia. E finalmente il salmastro! Fino da piccirilla ho avuto una smodata voglia e’ te. Ti respiro e ti sto a guardare: bello, maestoso, fremente…mare mare mare. Sei così profondo che a star qui vicino a te anche i miei pensieri mi sembrano profondi, e i sogni vanno su.. su.. . volano sull’onda. Che me vo’ dì? Se in questi anni mi sono mancati abiti e acconciature? Nu poco. Feste e corteggiamenti? Certamente. Ma più di tutto mi sei mancato tu. E ora sono venuta ad affidarti il mio velo perché tu lo porti là sotto, nella profondità dei tuoi abissi dove si agita un mondo prodigioso fatto di guerra e d’amore, di ricordi....ecco portalo via questo ricordo e io mi sentirò finalmente libera! Smonacata! Le senti le campane? Suonano a festa per lui, è arrivato in città come un re, un eroe, un redentore, e tutti sono corsi per le strade gridando e tamburiando, anche i lazzaroni l’hanno applaudito, e il sangue di San Gennaro si è sciolto, doppio miracolo! I colori di Napoli sono accecanti, la città è invasa dalle camice rosse, sembra uno sterminato campo di papaveri. Sono dovunque: nei caffé, dai barbieri, nelle piazze e nei vicoli. Gli scugnizzi gli corrono appresso e si offrono come scudieri. “Viva Garibaldo! Viva o’ liberatore!” Tra poco Garibaldi arriverà in Duomo e io devo essere pronta per incontrarlo: voglio stringergli la mano e baciarlo. Grazie a lui l’Italia sta risorgendo io ho trovato la forza di scappare dal convento e portare a compimento la mia ribellione. Per anni sono stata il Masaniello del San Gregorio. Io, Enrichetta Caracciolo di Fiorino, quinta di sette figlie e costretta perciò ad essere monacata, contro la mia volontà, già da novizia cercai di oppormi in tutti i modi….inutilmente. Quando dovetti pronunziare i quattro voti: castità, povertà, ubbidienza e perpetua clausura, la voce s’intoppò in gola, mi piombarono addosso la madre naturale e la nuova madre badessa per imbeccarmi….per forzarmi. Alla fine mi diedero delle rose artificiali da offrire al cardinale che mi officiava e io dissi: “Ecco, rose morte da una morta!” Feci il diavolo a quattro per portarmi in convento almeno il mio pianoforte, e loro mi proibirono anche la musica…. Il convento mi inghiottì. Scrissi le mie suppliche al Papa, perché mi liberasse. Pio IX, era considerato un Papa liberale, gli austriaci erano andati su tutte le furie quando appena eletto aveva benedetto l’Italia tutta. Pensare che al Teatro alla Scala le danzatrici si erano presentate in scena con la medaglietta di Pio IX al collo, tanto che dovette intervenire la polizia…. Ma poi, che delusione! Delusione per le sorti dell’Italia e anche per me. Aspettavo trepidante la risposta come un condannato la grazia, e la risposta non venne mai. Anzi il vescovo mi tolse ogni speranza: “Se hai indossato una volta l’abito, non uscirai mai più dal convento, né viva né morta!” Aria! Aria!.... Corse, veloce come una saetta, la notizia che io ero diventata una rivoluzionaria, aggregata a società segrete, settaria, eretica e non so che altro. Ma io non diedi importanza a queste accuse, quando Ferdinando II giurò sulla Costituzione e proclamò la libertà di stampa, feci arrivare in convento i giornali dell’opposizione e li leggevo ad alta voce nel chiostro, per educare le monache all’esercizio della consapevolezza. Dicevo alle mie converse: Anziché marcire nell’ozio e intorpidire nelle litanìe, non preferireste fare, che so, da vivandiere o da farmaciste agli eroi che vanno a combattere per la libertà dei popoli, in Lombardia come in Sicilia? Risvegliatevi, voi pingui, apatiche, tarde come galline nel pollaio, aprite gli occhi e partecipate alla storia patria! Ascoltate bene questi nomi:
Ranieri, liquorista Giacinto, regio impiegato Attilio, possidente Achille, macchinista delle ferrovie Gaetano, barcaiolo…. Non posso nominarveli tutti, sono mille.
Non sono mariti, né spasimanti, non sono confessori o chierichetti, sono più che mariti, più che spasimanti, più che confessori ochierichetti, sono i nostri fratelli. C’è perfino un fanciullo di 11 anni, Giuseppe Marchetti da Chioggia, anch’egli imbarcato a Quarto, al seguito del Generale. Non possiamo essere con loro, cerchiamo almeno di partecipare col cuore e col pensiero. E terminavo le mie arringhe sempre con una preghiera: Ripetete insieme a me: Ave Maria gratia plena , noi siamo mentalmente e fisicamente uguali agli uomini, adesso e nell’ora della nostra morte, amen. Fui denunciata. Credevo che la mia veste monacale mi preservasse dall’essere iscritta nel libro nero della polizia. Invece sbirri alle porte, sbirri in refettorio, sbirri che frugano per ogni dove, nelle celle e nei confessionali .
“Avete preso i voti. Come osate ribellarvi?” disse il commissario. “E’ empia e sacrilega” sibilò una monaca. “E’ scismatica” sentenziò un’altra.
“Se abbiamo fatto dei voti perché ci sono le grate? E se ci hanno messo le grate perché abbiamo fatto dei voti?” “Non l'ascoltate! E’ pericolosa! Va tenuta lontana dalle giovinette innocenti” intimò il priore. Invece le converse fuori dalla stanza trepidavano e cercavano di ascoltare le mie parole con l’orecchio incollato all’uscio. “Non vi è altro paese come il nostro che possegga un sì gran numero di sedi vescovili, di preti secolari, di chiese, di monasteri, di monaci e di monache. Che epidemia! Che calamità! Migliaia di cittadini dei due sessi, sottratti al presente e sterili all’avvenire della loro patria”. “Arrestatela!” La superiora mi chiuse nella cella più angusta del convento, mentre serrava il chiavistello l’ho sentita mormorare: “Il topo è nella trappola”. E allora ho pensato: “Se nonostante tutto la Chiesa cattolica resiste, vuol dire che è Dio in persona a tenerla in piedi!” O Dio o il diavolo! Tu che ne pensi? Tu non pensi niente, sbatti l’onda sulla riva, ruggisci, risucchi, ti agiti in tempesta, e poi di plachi, calmo, ampio, dolce, padrone di te stesso e custode dei tuoi tesori, libero … non costretto da veli, cordoni, scapolari…regole! E' da una prigione che sono fuggita. E’ dal buio che sono affiorata, come una sonnambula.... uno spettro…. un'ombra. Sai, ho deciso di scrivere le mie memorie per raccontare al mondo la verità: i conventi non sono i luoghi dell’ordine e della pace, sono il ventre della follia. Tutte pazze. Non ho conosciuto altro che farneticanti, visionarie, chi troppo grassa e chi scheletrica, una monaca non poteva toccare la carta perché le procurava convulsioni e allora aveva costretto una conversa a voltarle le pagine quando recitava l’uffizio. Ce n’era una che al momento dell’elevazione regolarmente sveniva, un’altra per mantenere il letto in perfetto ordine, puntava degli spilli sulle lenzuola, la più patetica era una vecchia che faceva bambolini di cenci e se li attaccava al seno dicendo: Vidite, chisti sono figli a me! Filgi a me! Ma ora ti voglio raccontare la storia di Angiola Maria. Angiola Maria era la più bella, giovane, forte, occhi cerulei e capelli castani, ricci e lunghi, in barba alla Madre Superiora, bocca gentile fornita di una splendida dentatura, insomma fatta per la vita e per l’amore. Saltellando e scrocchiando il dito medio sul pollice, a mo’ delle castagnette, ripeteva in continuazione una sua cantilena:
Io voglio fa’ la zita Me voglio mmaretà Non pozzo sola stà.
Una notte sentii sulla fronte il contatto di una mano, credetti di aver sognato e mi riaddormentai. La notte seguente sentii cadere una bacio sulle mie labbra, allora spalancai gli occhi e l’Angiola Maria era là, sopra di me.
“Che vuoi? Cos’hai?” “Nun poz’ dormi’.”
E se ne andò. Ma sempre più frequenti si fecero le sue apparizioni notturne, a volte si presentava seminuda e scarmigliata, a volte in camicia, calma e composta si sedeva sul mio letto e diceva parole in libertà…. Finché una notte, contorcendosi tutta, smaniò: “'O vedo, 'o vedo… 'o voglio…'o voglio. La testa m'abbrucia, le orecchie me ronzano, me manca o respiro, come poz' dormi'?” Mosse qualche passo in corridoio: ”Siete vuie? Siete vuie?“ Spalancò le braccia per accogliere l’oggetto del suo desiderio e gridò un nome. Il nome del suo confessore. Immediatamente fu presa e legata al suo letto. Da quella notte cominciò a gemere e a urlare come un lupo alla luna. E il convento non riuscì più a dormire. La superiora, per farmi dispetto, mi disse: “Cara Enrichetta, purtroppo nessuna monaca vuole dividere la camera con la frenetica, perciò l’affido a te che sei tanto brava e sai tante cose: falla stare nella tua cella calma e buona. Ricordati, hai fatto voto di obbedienza.” Per un po’ Angiola Maria se ne stette cheta nel lettuccio accanto al mio e, quando sbirciavo dalla sua parte, vedevo che teneva gli occhi fissi al soffitto, immobile, oppure dormiva profondamente. Poi una notte…. Una forte palpitazione al cuore mi fa sobbalzare e mi sveglia. Getto uno sguardo al lettuccio, vuoto, i vestiti abbandonati sulla sedia, le scarpe vicino alla porta. Nel perfetto silenzio mi alzo, attraverso il corridoio, imbocco la lunga galleria, appena rischiarata da fiochi lumini. Dalle pareti mi fissano santi, anacoreti e romiti dalla faccia lunga e sparuta, dai colori cadaverici, dalla barba sperticata…, a dir delle monache, a mezzanotte in punto balzano dalla parete a testa in giù e cantano strane formule. Non vedo capriole e non sento voci, ma le gambe mi tremano ugualmente. Arrivo nei pressi del chiostro e all’improvviso vedo brulicare qualcosa di bianco, laggiù vicino al pozzo. E’ lei, scalza, in camicia, piegata sul bordo, pronta a precipitarsi di sotto. No! Urlo. Si volta a guardarmi e senza indugio si rovescia in avanti. Io spicco il volo e in un balzo sono su di lei. Ma riesco ad afferrarle solo una gamba e un lembo della camicia. Angiola scalcia, mi tira giù, è così pesante, mi scivola, mi scivola, mi ritrovo nella mano solo il piede, un ultimo strappo e niente mi resta di lei, se non la sua camicia. Te la regalo questa memoria per me così dolorosa, inghiottila, portala là nel fondo….. insieme alla storia di Chiarina, mite e malaticcia, con le spalle curvate dalla preghiera, che si autoflagellava alla ricerca della perfezione, e poi di tutte quelle che una notte appiccarono fuoco ai loro pagliericci e si misero a ballare come streghe, e porta con te la storia di Concetta che sentiva la sua pancia crescere, crescere e non sapeva come fermarla , incerta tra l’arsenico e il capestro, finì per scegliere il pugnale, ma non morì subito e allora le fu praticato l’esorcismo. Mentre il sacerdote la aspergeva di acqua benedetta le monache, inginocchiate tutte in fila (si fa il segno della croce): "Padre Figliolo Spirito Santo, Padre Figliolo Spirito Santo! Mo' esce, esce, esce Satanasso!". La loro curiosità fu delusa. Sì, Concetta aveva qualcosa dentro, ma non era ancora arrivato il nono mese. Anch’io, se fossi rimasta tra quelle mura, sarei scivolata nella follia o nella morte. Ma..... quando Franceschiello è scappato da Napoli mi è tornata la forza e l’allegria. Già da giorni seguivo gli eventi…. “I garibaldini stanno arrivando! Pare che il generale viaggi in un treno speciale! Viene da Salerno. Ecco, il treno è giunto alla stazione!” Sono uscita all’aperto! Tutto mi è apparso nuovo. Da lungo tempo disavvezza alla folla, all’assordante frastuono delle ruote, mi è sembrato di essere risalita dal regno delle ombre al mondo dei vivi. Schiarita la vista, dilatati i polmoni, rasserenato l’animo. Belle speranze della patria e futuri destini dell’umanità! Vuoi sapere il cambiamento più profondo? Comincio a “sentire” la religione. Sì, la fede, quella fede che ho visto deturpata in pratiche esteriori e crudeli, la sento pian piano crescere dentro di me in una nuova forma. Benedico il lavoro d’ogni giorno e benedico il sonno d’ogni notte. Voglio vivere in modo semplice ed esemplare, come il sole, come il pendolo, come lo scoglio…. Quanto al mio Dio, il mio Dio è colui che vuole tra gli uomini giustizia, libertà, eguaglianza, fraternità, amore….. Non è forse stato Gesù, il primo garibaldino?

L’attrice esce di scena e sullo schermo appare una periferia degradata: una discarica, un cimitero macchine.... Tra i detriti, i cumuli di gomme e i grovigli di metallo, si trova una grande conchiglia, uno scrigno di gioielli e una bambola. Di nuovo luce a lato della scena sul leggìo dove torna l’attrice e legge/recita l’ultimo brano:

Capitolo Cinque
JESSIE WHITE MARIO

Non è questa l’Italia che sognavo. Non è questa l’Italia per la quale ho lottato. No, non è questa…. Intendiamoci, io amo questo paese, ma quanti problemi irrisolti! E gravi. Manca una classe politica all’altezza del compito, manca una vera educazione nazionale, e siamo ancora lontani dal pieno riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali per tutti. Eppure sono passati già trentacinque anni dall’unità. La colpa è del parlamento che non vara nessuna legge che riguardi i problemi reali dei cittadini e i cittadini dal canto loro non riescono ad avere fiducia gli uni negli altri per seguire un interesse collettivo e ribellarsi. “E’ triste realizzare dopo trentacinque anni di vita nazionale che queste due parole: crimine e miseria, riassumono la storia d’Italia”. Ecco, scriverò proprio così nel mio prossimo articolo sul Nation. Sembrerà cinico? Troppo duro? Non sono mai stata tenera in vita mia. E ho sempre amato la verità prima di tutto. Ah, l’ho detto chiaro e tondo anche a Crispi. Che offesa quel sussidio, così striminzito per giunta! Quando è arrivato il funzionario statale: “E’ lei Jessie White, vedova Mario? “… “Sì, sono io. Di che si tratta? Non voglio elemosine. Rimandate quest’incartamento a Roma, o gli do fuoco!” Si è precipitato giù dalle scale tutto impaurito. Miss Uragano spaventa ancora… Quello che ho fatto l’ho fatto perché credevo nella causa, non per ricavarne dei soldi! E credevo negli uomini che lottavano per l’Italia, a cominciare da Mazzini. Già, fu proprioMazzini a darmi quel nomignolo di Miss Uragano che poi mi è rimasto appiccicato addosso per tanti anni…. Caro il mio funzionario, riferisca che preferisco guadagnarmi il pane insegnando inglese alle mie ragazze. Sono diligenti e buone. Mi piacciono! E mi piace stare a Firenze: la città è sempre così bella. Certo non sto più a Bellosguardo come ai tempi felici con Alberto… Questa casa è piccola, fredda, ma non ci bado....
Di politica non mi occupo più, potete stare tranquilli, non voglio più saperne, non apprezzo i traffici dei commendatori e dei droghieri soddisfatti o, come dice il Carducci, dei gufi e dei pecoroni!
Anche Garibaldi è morto triste e deluso. In questa terra dove il grammofono si è incantato non è più tempo di eroi, è tempo di ingratitudine! L’ultima strega l’hanno bruciata viva 100 anni fa col gatto parlante e la sua rabbia in corpo! Non è questa l’Italia che sognavo. Mi consola lavorare ai miei libri e spero che rimangano dopo di me, a cominciare da quelli dedicati a Garibaldi e a Carlo Cattaneo, sì, Cattaneo non deve esser dimenticato, è il più grande filosofo ed economista dell’Italia moderna. E poi devo ancora finire di ordinare tutti gli scritti di mio marito, Alberto Mario. Carducci mi ha promesso di curarne l’edizione e di scrivere la prefazione, ma è così indaffarato il professore che chissà… io intanto sto preparando la biografia. E’ faticoso scrivere perché le mie mani, invece di rispondere ai comandi del cervello, rispondono più volentieri a quelli dell’artrite… Ma è bello lavorare alla biografia di Alberto perché così rivivo il nostro passato insieme….
Genova. 1857. E’ lì e allora che ci siamo conosciuti, e fu proprio il Maestro a mandarmelo a casa con un biglietto di presentazione: “E’ un patriota coraggioso e un letterato, vi piacerà, cara Jessie…” (o cara Bianca? Non ricordo più come scrisse. Di solito Mazzini mi chiamava Bianca – white, bianca - e io allora mi divertivo a chiamarlo Pippo.) Alberto mi piacque eccome! Alto, biondo, bello, appassionato… subito tra noi si stabilì una grande armonia, pur essendo molto diversi, ad esempio lui amava la poesia e stava lavorando su Aleardo Aleardi, io detestavo quei versi gonfi e lacrimosi, ero tutta presa dalla medicina e il mio sogno era assistere i chirurghi sui campi di battaglia. Entrambi però avevamo passione politica e in quel momento eravamo conquistati dal progetto di Pisacane: “ L’Italia meridionale libera dai Borboni, restituita all’Italia tutta, unita e repubblicana!” In realtà nessuno credeva che fosse realizzabile, neppure Garibaldi. Solo Mazzini, puro idealista: “Vedrete, basterà una scintilla e le popolazioni si solleveranno! Non è possibile che l’Italia si unisca sotto la guida di casa Savoia!”
Alberto ed io eravamo giovani, infervorati, forse illusi… Il 25 giugno Pisacane si imbarca sul Cagliari con pochi altri, in mare aperto prenderanno il comando della nave per dirottarla sulla costa napoletana. Intanto Mazzini passa la notte a limare il discorso con cui arringherà le folle. Io rimango a Genova, depositaria di una memoria, una sorta di Testamento politico, da diffondere in Italia e in Inghilterra, mentre Alberto si prepara ad assaltare una postazione militare. Proprio quella notte Alberto mi dichiarò il suo amore e io ? "Sarò tua... se riusciamo a sopravvivere". Qualcuno informò le autorità e l’impresa fallì rovinosamente. Mi arrestarono come “sovversiva delle istituzioni monarchiche” e fui rinchiusa nel carcere di Sant’Andrea. Il conte di Cavour in persona scrisse all’ambasciatore inglese: “Mi spiace che tra le persone più compromesse si trovi un’inglese, Miss White. Sembra fuor di dubbio che ella abbia svolto un ruolo importante e che si sia adoprata con tutti i mezzi per spingere alla lotta…” Ma la cosa più tragica fu l’indifferenza del Meridione, l’insurrezione mancata e la morte di Pisacane…. Lo piansi in carcere. Di lì a poco seppi che avevano arrestato anche Alberto, ci separavano muri e grate di ferro, ma noi riuscimmo ad abbatterle. Con la complicità di un guardiano, ogni giorno lettere appassionate volavano dall’uno all’altro. Il nostro fidanzamento si svolse in carcere. Per fortuna dopo pochi mesi siamo stati liberati. Di me scrissero: “E' una giovane evidentemente invasa da un’esaltazione mentale per la causa italiana, e dunque indesiderata”. Mi dettero cinque giorni per riparare all’estero. Decisi per l’Inghilterra, la mia famiglia e Mazzini mi reclamavano, e Alberto scelse di venire con me. Fu così che in un freddo dicembre, dopo appena sei mesi dal nostro primo incontro, Alberto ed io ci sposammo.
Mazzini non la prese bene e questo mi fece letteralmente infuriare. Ma come!? Ero finita perfino in carcere per averlo seguito…. E lui non viene neppure al mio matrimonio! Forse è geloso, mi considera un po’ come una figlia, o forse teme che il passo sia troppo affrettato. D’altra parte….“La vita senza entusiasmo è un fiore senza profumo!” L'ha detto Alberto uno dei primi giorni del nostro amore, credo per giustificare il mio carattere irruente e la mia ansia di agire.
Comunque Pippo mi mandò una lettera affettuosa, ma con una raccomandazione: “ Promettete di non fare del matrimonio un egoismo a due.” E subito mi reclamava a sé per un giro di conferenze… Credo che quella sia stata l’unica volta in cui non gli ho obbedito.
Le nuvole passarono presto e noi ci trasferimmo a Londra, in un appartamentino a pochi passi dalla casa di Mazzini, perché frequentare Mazzini voleva dire stare con la famiglia allargata degli esuli di tutto il mondo, pensare in grande, vedere lontano…Lui così ascetico, disinteressato, innamorato solo della cultura e dei suoi ideali. Grazie ai sui insegnamenti quante conferenze ho fatto, su e giù per l’Inghilterra e perfino negli Stati Uniti d’America! E quanti articoli ho scritto! Ma forse non l'ho mai capito fino in fondo, ero troppo giovane, impulsiva..... Neppure gli italiani l'hanno capito del resto, anzi, l'hanno perseguitato. Strano destino quello degli italiani, così deboli, avvezzi a servire, e poi , all'improvviso, capaci di risollevare la testa, capaci di gesti clamorosi.... come fu la spedizione dei Mille, un miracolo al quale ebbi la fortuna di assistere, a fianco di Garibaldi.
Garibaldi era stato il mio primo “amore”, fin da quando, ragazzina avventurosa e romantica, lo conobbi a Nizza. Lui era già una leggenda, e io, che tanto avevo sentito e letto delle sue imprese, degli amori e i dolori, lo avevo idealizzato. Appena lo vidi, lì per lì mi deluse, mi sembrò un vecchio, tormentato dai reumatismi, dedito soltanto alla pesca… ma poi bastò uno sguardo, qualche parola e capii che sotto la cenere ardevano le braci e il leone stava raccogliendo le forze per prepararsi al balzo. In quel momento per me la causa italiana e Garibaldi si identificarono e mi votai a loro per la vita.
Finalmente, dopo tanti anni, Garibaldi si ricordò di me e mi chiamò insieme ad Alberto per partecipare all’impresa dei Mille. Era il 1860. Con l’entusiasmo di sempre rispondemmo all’appello.
Dalla Svizzera non fu semplice raggiungere Quarto, insomma, dopo qualche traversia arrivammo in Liguria che i garibaldini erano già partiti... In ogni modo eccomi in Sicilia, e, proprio mentre mi sto dirigendo su Alcamo, mi si para davanti Garibaldi in persona, ardito e sorridente, circondato dall’aura festosa del trionfatore. Palermo era già sua! Subito si rivolse a me con ironia: “Ho provveduto per voi molti feriti da curare….” Si ricordava la mia promessa giovanile: “Sarò l’infermiera dei vostri volontari!” Ecco: era giunto il momento. Mi gettai nell’impresa con l’impeto che ci si poteva aspettare da Miss Uragano e spesso il coraggio supplì all’inesperienza, ma avevo una buona guida, Pietro Ripari, il medico in camicia rossa, scontroso e buono, di poche parole e molti fatti, proprio come il suo Generale! Feci di tutto, dal curare le ferite a consolare gli animi a scrivere lettere per le famiglie lontane a rubacchiare un po’ di cibo in una Palermo devastata dove mancava tutto… Arrivai perfino a medicare i malati di vaiolo nero e quando Alberto lo venne a sapere inorridì. Povero amore! Mi confessò più tardi che se fossi rimasta sfigurata dal vaiolo chissà se mi avrebbe amato come prima! Alberto si occupava di addestrare i ragazzi poveri e abbandonati nella nuova scuola militare voluta da Garibaldi. Il mio Ospedale era in un vecchio monastero non troppo distante e capitava a volte di mangiare e dormire insieme, quando c’era tempo per mangiare e per dormire….Sono stati giorni bellissimi. Poi l’esercito garibaldino mosse alla conquista di tutta l’isola e quindi dell'Italia meridionale. Alberto mi salutò di nuovo. A me toccava restare nelle retrovie, mi giungevano notizie di vittorie, ma io vedevo solo morti e moribondi e feriti… quanto sangue! In ricordo di quei giorni mi è rimasta una medaglietta. Da una parte c’è il profilo della Sicilia e dall’altra un’iscrizione: Alla signora Mario, dai feriti di Garibaldi. Ritrovai Alberto a Palmi, in Calabria, e poi entrai con lui a Napoli. Che trionfo, in soli cinque mesi!
“Generale, adesso a Roma e l’Italia sarà unita e repubblicana!”
Noi credevamo che tutto fosse possibile… E invece quanti compromessi, quante astuzie diplomatiche! Cavour era maestro nel tessere le tele, occhiuto con la Francia che appoggiava il Papa…. A proposito del Papa mi viene in mente che Garibaldi, nei suoi riposi forzati di Caprera, aveva dato a un mulo il nome di Pio IX. "Vai, Pio IX, muoviti!" E giù frustate! Chissà come sarebbe andata se Garibaldi avesse continuato... se.. . se... La storia non si fa con i se. In quel momento di festa l’eccitazione era grande ….ma ci fu un contrattempo. Al quartier generale di Garibaldi arriva la notizia che i Borboni hanno ripreso il possesso di Ischia. Forse è solo una voce ma bisogna andare a verificare e Garibaldi incarica Alberto del sopralluogo. Io decido all’istante: “Amore, vengo con te!” E il giorno dopo eccoci sull’isola a dorso di asino. In vista di una cittadina, una folla ci viene incontro correndo e gridando, sono i ribelli? I borbonici? No, sono i cittadini di Forio che ci vengono ad abbracciare e benedire. Gli uomini hanno fasce tricolori, le fanciulle nastri nei capelli e lanciano fiori, esplodono mortaretti, appaiono ghirlande alle finestre. Nemmeno uno parteggia per i Borboni, tutti acclamano Garibaldi! E Garibaldi chi è? Alberto. Anch’egli biondo, barbuto e con la camicia rossa. Ma molto più giovane e più bello, aggiungo io. Non c’è niente da fare, per quanto si cerchi di spiegare l’equivoco, nessuno si convince. Garibaldi è arrivato ad Ischia con una femmena dai capelli rossi, splendente come o' sole, per distribuire a tutti libertà e maccharoni!

Alla fine l’attrice esce e sullo schermo viene proiettato il cortometraggio “Evelina s’è desta”.