CITTADINE
di
Valeria Moretti e Lucia Poli
In scena uno schermo grigio e un tappeto grigio. L’attrice è vestita di rosso,
si inginocchia sul tappeto in proscenio e legge alcune carte.
Capitolo Uno
PARTIGIANE
Nell’inverno 44-45 si vedevano i tedeschi che
scappavano in campagna, in mezzo alle vigne, e i contadini li prendevano e li
chiudevano nei porcili… Poi c’è stata l’occupazione di Reggio Emilia e io sono
andata con i compagni alla Prefettura, al Municipio, alla Questura, a occupare i
luoghi più importanti e si voleva fare la manifestazione in piazza, ma c’erano
ancora i cecchini che sparavano dal Duomo, così siamo andati in Teatro. Ah, il
mio comizio è stata la cosa che per tutta la vita me la ricorderò sempre…Quando
incontro delle compagne che hanno difficoltà a parlare mi viene in mente. C’era
Montagnani, Marelli, che era del “Triumvirato”, Corazzoli e tanti altri. Doveva
parlare prima il rappresentante dei partigiani, poi uno dei giovani, poi una
donna, il sindaco e quelli del Comitato di Liberazione Nazionale. Mi dicono: “
Te, Piera, devi rappresentare le donne e fare il discorso!” “Chi? Io? ” Ho
cominciato a sentirmi la pancia….tutta in subbuglio… Perché un conto è parlare
nelle riunioni clandestine, lì avevo la parola abbastanza facile, ma parlare in
pubblico…. Comunque ho accettato. Sono scappata nella cascina dei contadini dove
ero rifugiata e ho detto che non stavo bene, così mi sono ritirata in camera per
provare il discorso, da sola. Continuavo a dire: “Compagni, compagne,
partigiani….” E poi non mi veniva più in mente niente, nemmeno una parola.
Persino davanti allo specchio mi sono messa, macché, niente…. E intanto mi
sentivo tutta la pancia che si rivoltava… Alla fine, non so come, ce l’ho fatta
e tutti volevano farmi candidata, ma io ho detto: “Mettete la Iotti.” Era
davvero un buon elemento e difatti è stata eletta.
Io vi voglio dire una cosa. Nella mia lunga militanza nel partito, non è neanche
una scoperta, ma una constatazione, che ho fatto: se tu riesci a istruire una
donna, cioè a prepararla veramente, a farle capire i principi fondamentali del
nostro ideale, lei è più dura di un uomo, più coerente.
Una volta, per le prime elezioni, sono andata a fare un comizio con la Gobetti,
sopra Saluzzo. A lei hanno ribaltato la macchina. A me, mentre stavo parlando,
mi hanno tirato un sasso. Proprio in quel momento, chissà perché, mi erano
caduti in terra degli appunti e mi sono chinata per raccoglierli, così il sasso
ha preso in pieno il compagno che era dietro di me. Gli hanno dovuto mettere tre
punti. Sono abbastanza contenta della mia vita. Certo, se avessi avuto più
preparazione culturale sarebbe stato tutto più facile. Oggi ignorante è chi lo
vuole essere, con tutti mezzi a disposizione che ci sono, ma allora… Io vedevo
la Ravera, la Giaccaglia, la Fiori, afferravano con più facilità di me perché
avevano la preparazione… Le giovani oggi sono avviate bene, io sono ottimista.
Sembra che non abbiamo ottenuto gran che in tutti questi anni, ma se pensiamo al
diritto al voto, al divorzio e se facessero un referendum sull'aborto sono più
che certa che avremmo l’approvazione anche per quello.
Sono stata ferita in un combattimento a Mezzenile il 10 dicembre 1943. Ho ancora
la cicatrice nella coscia. Erano venuti su fascisti e tedeschi: appena sono
arrivati, combattimento. Avevo vicino due partigiani, uno l’hanno ferito alla
spalla, l’altro è morto. Allora io mi sono tirata su di scatto e ho fatto una
sventagliata col mitra….
Ed è allora che m’hanno colpita. E poi m’han preso prigioniera. Dice: “O parli o
ti consegnamo alle SS.” Volevano sapere il nome dei compagni. Mi avevano trovato
addosso una lista di centocinquantatre partigiani, ma col nome fittizio, quello
di lotta, invece loro volevano sapere da me nome, cognome e indirizzo, quelli
veri. Prima i fascisti e poi i tedeschi giù a picchiarmi, ma io non ho detto
niente. Ho sentito le prime botte, poi mi sono messa in testa di non sentirle
più: se le sento parlo! E non le ho più sentite. Davvero. E’ un fatto
psicologico. Loro mi massacravano, poi mi hanno rapata e alla fine mi hanno
sterilizzata con due punture tanto che non ho più avuto le mestruazioni, ma io
niente: me l’ero messo in testa che non dovevo sentire nulla e non ho sentito
nulla.
Nel 44 sono andata sui monti e ho fatto la guerra partigiana: nome di battaglia
“Rosetta”. Ero nella Prima Brigata Julia. Ho partecipato a tante missioni,
all’inizio eravamo in pochi, ma avevamo una fede cieca, inebriante, come l’aria
sottile di montagna che respiravo a pieni polmoni.
Questa non è terra di contadini, sospettosi e attenti alla “roba”, è terra di
carbonai, di pastori di capre e di pecore, gente allampanata e silenziosa che
vive in una calma senza tempo. Ci hanno accettato subito, come un fenomeno di
natura o un atto di Dio. Ho partecipato al colpo della stazione. L’aveva
orchestrato Punteria e Ailù mi consegnò una rivoltella – una Beretta – e mi
insegnò a usarla. Io ero l’unica donna, con me c’erano Punteria, Ailù, Renzo e
Tuono. Partenza alle tre del mattino e giù per i campi fino alla Pieve. Qui
abbiamo camminato a lungo vicino a una siepe nel vano tentativo di stare al
coperto, ma una luna alta e bionda illuminava a giorno ogni sasso. Arrivati in
vista della stazione abbiamo fatto di corsa la scarpata, una sosta sotto al
cavalcavia e poi in un lampo attraverso il piazzale. Punteria ha mandato il
ferroviere a perlustrare. Veniamo a sapere che sta per arrivare una pattuglia e
ci sono già dei militi nella sala d’aspetto di prima classe. Punteria decide su
due piedi: lui, Renzo e Tuono fra i binari in attesa della pattuglia e noi, cioè
Ailù ed io, a prelevare i militi. Busso alla porta della sala d’aspetto. “Chi
è?” “Sono io, apri” “Chi io?” “Dai, non mi riconosci?” E mi metto a ridere,
intanto penso: quanti saranno? Sette o otto… che paura! La chiave gira nella
serratura e la porta comincia ad aprirsi piano…. Ailù entra d’un balzo: “Non
muovetevi!” Sono in due, assonnati. Dall’attaccapanni pendono le carabine e
sulla mensola del caminetto ci sono bombe a mano e cartuccere. Ci impossessiamo
di tutto e spingiamo i due militi fuori dalla stazione, in fretta, verso la
Pieve. Ci fermiamo in un prato e li facciamo spogliare, poi gli diciamo di
inginocchiarsi per ringraziare il cielo di essere stati liberati dall’orrenda
divisa nera, ma all’improvviso Ailù chissà perché perde la testa e va minaccioso
contro di loro. Il più vecchio congiunge le mani: “Ho cinque figli… vi prego.”
Ma Ailù gli punta la pistola addosso. Allora io mi metto davanti alla pistola,
fisso il mio compagno negli occhi e gli dico calma: “Eravamo d’accordo, no? Solo
una lezione. E voi correte, imbecilli, correte.” Non se lo sono fatto ripetere,
sono scappati via in mutande e noi abbiamo finito di strappare le camice nere,
abbiamo raccolto le armi e ci siamo incamminati in silenzio, a testa bassa.
Nel 39 hanno inaugurato Mirafiori e io, che prima ero in fonderia al Lingotto,
sono andata a lavorare là. I capisquadra, i capireparto erano tutti in divisa
nera, marciavano davanti a noi e ci hanno detto: “Guardate quando arriva
Mussolini di comportarvi bene, eh! di fare il saluto romano, e poi di cantare
tutti insieme Giovinezza!” Ma noi operai, un bel gruppo di donne e uomini, ci
siamo messi da una parte. Arriva Mussolini, sale sul palco e i suoi gerarchi
sono scattati e gli hanno fatto il saluto romano. Noi niente, le mani inchiodate
dietro la schiena. Il capofficina ci ha dato uno sguardo di fuoco!
Mussolini incomincia il suo discorso: “Operai, siamo qui ad inaugurare la nuova
Fiat Mirafiori , che è il complesso più grosso che abbia la Fiat…Operai,
ricordate il discorso che feci nel 1935?” E il nostro gruppo tutti insieme:
“Nooooo!” Allora lui non è più andato avanti, ha detto: “Ebbene, se non lo
ricordate, rileggetelo!” e ha dato un gran pugno sul tavolo. Tutti i suoi si son
messi a cantare a squarciagola “Giovinezza” e il capofficina ci ha detto:
“Cantate anche voi, forza! Cantate Giovinezza!” Invece io mi son messa a cantare
forte: “Vento, vento portami via con te…” (La canzone vera registrata viene a
sostituire il canto in diretta e prosegue in sottofondo per il testo che segue)
Io ho solo un desiderio. Quando muoio, voglio avere la musica e tante bandiere.
Lascio i soldi, naturalmente. L’ho detto a una compagna: “Tante bandiere, che
costano diecimila lire l'una. Tutte rosse. Voglio un funerale che si ricordi che
io sono una compagna. E portatemi anche dei fiori rossi, non per me, perché io
non vedrò più niente, ma voglio che la gente veda rosso dappertutto.”
La scena si tinge di luce rossa. L’attrice esce.
Sullo schermo si vede un brevissimo filmato (1 o 2 minuti) in cui una bambina si
aggira in un luogo campestre pieno di rovine. Scava una buchetta e seppellisce
un animaletto, lo ricopre di terra e ci mette sopra dei fiori rossi. Torna la
luce a lato dello schermo in cui è piazzato un leggìo e l’attrice, vestita di
nero, comincia a leggere e poi a recitare quanto segue:
Capitolo Due
ELISABETH BARRET
“Il sapone e l’istruzione non hanno effetti
rapidi come un massacro, ma, a lungo andare, sono micidiali!” Parola di Mark
Twain . Molte donne che hanno usato il sapone, l’istruzione… e naturalmente la
passione e il talento, hanno tracciato il cammino della loro emancipazione. Non
solo le donne della guerra partigiana, ma anche quelle che si sono servite della
penna o del pennello come strumento di lotta. Ciascuna a suo modo ha conquistato
il diritto di cittadinanza nella storia e nel mondo. Ma la loro memoria resta
frammentaria… impossibile delineare una mappa, urgente però nominarne almeno
qualcuna. In piena Rivoluzione francese, fra le tante voci, colpisce quella
della cittadina Olympe des Gourges che va gridando nelle piazze di Parigi: “In
questo nostro secolo di lumi e sagacità, non può bastare una Dichiarazione dei
diritti dell’uomo, occorre anche la Dichiarazione dei diritti della donna che è
nata altrettanto libera! Perché gli uomini vogliono comandare come despoti su un
sesso che ha pari facoltà intellettuali e pari dignità? Tutti i cittadini sono
uguali di fronte alla legge e nelle professioni devono essere scelti solo in
base alla propria capacità, virtù e talento… Se le donne hanno il diritto di
andare al patibolo, debbono avere anche il diritto di andare in Parlamento…” Ad
Olympe de Gourges il diritto di andare al patibolo sarà immediatamente
riconosciuto: fu ghigliottinata in una fredda mattina dell’inverno 1793 per aver
osato criticare Robespierre… Pochi anni più tardi, nella straziante vicenda
della Repubblica napoletana del ‘99, Eleonora de Fonseca Pimentel, fine
intellettuale, letterata e scienziata di cultura illuministica, fu la prima
donna a dirigere un giornale. Progressista, naturalmente. Già da prima, durante
i ricevimenti a Corte, tra un ballo e un concertino, riusciva a far circolare
copie della Costituzione della Francia rivoluzionaria e dell’Enciclopedie.
Purtroppo la repubblica ebbe vita breve. Quando tornò sul trono Ferdinando IV di
Borbone, anche Eleonora come altri congiurati, venne condannata a morte. Chiese
di essere giustiziata come una donna qualunque, cioè decapitata con la scure, ma
le fu negato perché, essendo di nobili origini, le si addiceva di più la corda.
Nel salire al patibolo, si permise il lusso di citare una frase di Virgilio:
Forse un giorno gioverà ricordare queste vicende.... Vicende di lotta, di
sacrifici, di ideali. Il nostro Risorgimento ha visto, accanto a tanti giovani
uomini, la partecipazione di molte donne, conosciute e sconosciute. Certo
nell’Ottocento le donne erano per lo più relegate in casa e poco istruite: molti
collegi religiosi femminili insegnavano solo a leggere, perché non si riteneva
necessario che le fanciulle sapessero anche scrivere. Ma in Toscana le cose
vanno meglio che altrove, ci sono interessi culturali e una certa tensione
progressista, anche se di tipo paternalistico. E’ in questo clima che approda
una poetessa inglese, la più grande poetessa inglese della prima metà
dell’Ottocento: Elisabeth Barrett. In fuga dalla fredda Inghilterra e dal padre
despota, la giovane Elisabeth, che si è appena sposata col poeta Robert
Browning, si innamora prima di Pisa e poi di Firenze. Naturalmente è innamorata
di suo marito, è innamorata della poesia, è innamorata della libertà…. È la
poetessa più innamorata che la storia ricordi. E il suo amore è assolutamente
romantico. Tuttavia…. Se osserviamo bene i suoi “Sonetti dal Portoghese” si
rimane colpiti dalla quantità di angeli che volano in alto ben dritti e poi
precipitano a piombo, si agitano e sbattono le ali, s’incurvano e virano sopra e
cadono sotto…. Insomma c’è tutta un’attività angelica che Freud non esiterebbe a
definire sesso spinto. Ma lasciamo da parte l’amor carnale per occuparci
dell’amor di patria. Tra un colpo di tosse e un infuso alle erbe la nostra
Elisabeth compone, nell’autunno del 1847, il poemetto “Le finestre di Casa
Guidi” che inneggia alla causa italiana e la propaga fin oltre Manica.
“Ho sentito ieri sera, sotto le finestre di Casa Guidi, lungo la chiesa, un
ragazzino del popolo che passando cantava: Oh, bella Libertà!” Comincerò così il
mio poemetto “Le finestre di Casa Guidi”. Sarà un inno alla libertà. Non esco
spesso a causa della mia salute e perciò le finestre sono i miei occhi sul
mondo. In particolare da qui, dalla mia bella Casa nel cuore di Firenze, ho
assistito a eventi rivoluzionari…. Soltanto due mesi fa, era settembre… Quella
volta, però, avevo chiuso persiane, vetri e cortine, per avere il massimo della
concentrazione... Mr Walker, ho udito chiaramente un secondo colpo, l’ho
percepito con la mia ardente intuizione prima ancora di sentirlo, e potrei
asserire senza ombra di dubbio che il tavolino si sia mosso, sì, ha eseguito
quasi una danza su sé stesso. Robert direbbe che tutto ciò dipende dalla mia
natura mistica, ma lei conosce mio marito, è scettico a proposito di spiritismo…
questo è il solo punto sul quale divergiamo…. Si ricorda la volta scorsa? Fu
proprio lui a rovinarci la seduta, oggi l’ho incoraggiato ad uscire… ma ora,
cosa sta succedendo? Questo improvviso trambusto dalla strada viene ad
interromperci un’altra volta. Lei non merita interruzioni, Mr Walker. E’ un
medium di eccezionale bravura ed io le sono così grata per le sue visite….. Sono
sicura che la presenza evocata era un poeta – greco magari, Ibico di Mitilene?
Pindaro? O Saffo in persona - sarebbe troppo! … forse ha fatto un passo nella
stanza, ha sfiorato il tavolo con la sua mano incorporea…. Fantasie, fantasie!
Ma questo rumore ci riporta brutalmente alla realtà. E’ intollerabile.
Perdonatemi, sono mortificata... ma sono costretta ad aprire le finestre. La
seduta ormai è rovinata, tanto vale andare sul balcone e guardare di sotto. Una
gran folla ondeggia come un mare inquieto, recando bandiere e schiamazzando e
cantando. Tutte le finestre della strada sono gremite di visi e tutti i balconi
di figure. Dalle finestre piovono fiori e foglie d’alloro e la gente in istrada
- uomini posati, donne giovani e gaie - si abbracciano, ridono, levano in alto i
loro piccini. Passano bandiere e bandiere. Sopra recano scritto: “Libertà” “Per
l’unione dell’Italia” e ancora: “Alla memoria dei Martiri” “Viva Pio Nono” “Viva
Leopoldo Secondo”. Questo tripudio è contagioso! Cosa mai sarà successo? Ecco
Robert: è rientrato a precipizio, tutto eccitato. Dice che il Granduca ha
concesso la Guardia Civica. Ebbene, è una grande notizia, un passo avanti sulla
strada della libertà, una bella tessera del mosaico che andrà a comporre l’unità
dell’Italia. Trasformerò tutto in versi e li donerò al paese che mi ha tanto
generosamente accolta, sarà un caldo appello alla riscossa del popolo e alla
giustizia dei governi. E intendo parlare di libertà senza piangere con i vecchi
cantori o i poeti del passato, né sospirare sui morti, perché le tombe implorano
giorni di audacia e di forza. Fin le statue spingono lo sguardo in avanti. “Oh,
bella libertà! “ canterò insieme al ragazzino del popolo. Mentre Elisabeth,
ormai dimentica delle sedute spiritiche, coltiva alti propositi di impegno
politico-letterario, e il marito la sostiene e la incoraggia, c’è un personaggio
vicino a loro che, invece di far discorsi, si affretta a vivere questa aurora di
libertà. Non si tratta del medium, né di altri ospiti della coppia. Si tratta
comunque di un personaggio importante se Virginia Woolf, circa ottanta anni
dopo, ne fece il protagonista di un suo romanzo. E’ Flush, il cagnolino dei
coniugi Browning. “Per tre ore e mezza sfilarono i cittadini in corteo e il
signore e la signora Browning sul balcone con sei candele accese agitavano le
mani salutando. Per un po’ di tempo anche Flush, allungato tra loro due, con le
zampe stese sul davanzale, fece quel che poteva per prender parte all’allegria
generale. Ma alla fine - non riusciva più a nasconderlo - sbadigliò. Gli pareva
che la facessero un po’ troppo lunga. Una certa stanchezza e un impulso alla
ribellione s’erano impossessati di lui. Perché tutte quelle storie? si
domandava. Chi era codesto Granduca, e che cosa aveva mai promesso? Quanta
agitazione! Perché bisogna dire che gli ardori della signora Browning, la quale
non la finiva di salutar le bandiere che sfilavano, lo seccavano alquanto. Tanti
entusiasmi per un uomo, anche se pomposamente vestito, erano un’esagerazione.
Inoltre, proprio nel momento in cui passava il Granduca, Flush aveva visto una
cagnolina che s’era fermata al portone. Cogliendo un attimo di distrazione dei
suoi padroni, egli sgusciò via dal balcone e se la svignò. Attraverso bandiere e
folla, segui la cagnolina, che fuggiva sempre più lontana, verso il cuore di
Firenze. Affievolita ormai risuonava l’eco delle grida; le acclamazioni del
popolo morivano nel silenzio. Qualche stella appena brillava nelle acque
increspate dell’Arno, là dove Flush, dentro una vecchia cesta, nel fango
dell’argine, giaceva con la piccola spaniel. Fino al sorgere del sole l’estasi
amorosa li tenne rapiti. Flush tornò a casa solo il mattino del giorno dopo,
alle nove, e da quel momento considerò tutti i cani che incontrava per strada,
compresi i bastardi, come dei fratelli e non volle mai più mettere il
guinzaglio.”
L’attrice esce. Sullo schermo appare un filmato (1 o 2 minuti) che mostra alcuni
luoghi di Firenze: il greto dell'Arno, il cimitero degli Inglesi e alla fine una
giostra che gira... L’attrice torna in scena vestita di chiaro (infermiera
ottocentesca) con bende e biancheria che appoggia sul tappeto, poi mette in
ordine, srotola un cartiglio, intanto recita:
Capitolo Tre
CRISTINA DI BELGIOIOSO
Ssss. Silenzio. Dorme.... E' questo? Ecco, è
proprio lui----
Alle donne romane
Nel momento in cui i Cittadini offrono la vita in servizio della Patria, anche
le Donne debbono prestarsi nella misura delle loro forze e dei loro mezzi. Oltre
a infondere coraggio nel cuore dei Figli, dei Mariti e dei Fratelli, possiamo
fare dell’altro in questi difficili momenti. Si è pensato di fondare un’
Associazione di Donne allo scopo di assistere i Feriti, e di fornirli di filacce
e di biancherie necessarie. Le Donne Romane accorreranno, senza dubbio, con
sollecitudine a questo appello fatto in nome della patria carità. Firmato:
Cristina Trivulzio, principessa di Belgiojoso, Roma 27 Aprile 1849. E’ stato sto
proclama qua che ci ha svegliato tutte, da quelle de Regola a quelle de
Testaccio, Ma chi è ‘sta donna? Me son chiesta. E perché je dovemo da’ retta? fa
Cornelia. Poi abbiamo visto tutti quei feriti portati a braccia o nelle barelle,
chi senza un braccio o una gamba chi con la testa fasciata, che cantavano,
felici, la vittoria sui francesi, la cacciata del Papa, allora senza pensarci
due volte semo venute qui, all’Ospedale dei Pellegrini. Per strada ce se para
davanti un convoglio di carri che blocca il passaggio. Alzo gli occhi alle
finestre e vedo gente che scaraventa di sotto materassi, cuscini, coperte,
lenzuola, de tutto... Sopra al fracasso si alzano grida “Viva la Repubblica!
Viva i difensori di Roma!”…E giù altra robba dentro sti carri che oramai sono
pieni, ma nessuno si ferma, macché, è come una gara a chi dà di più, nessuno
vuole essere da meno del suo vicino. Anvedi noi romani, a volte così taccagni e
a volte…. M’è venuto da ridere! I più ricchi offrivano denaro, i poveri un
vestito o una camicia o in mancanza d’altro persino un tozzo di pane. . Che
dovemo fa’? - Ha detto Cornelia alla Principessa - Io se volete so’ pronta a
lava’ pure i cadaveri per restituirli profumati alle famiglie. Perché noi, donne
de malaffare, semo gravide di vizi, ma anche de virtù. Ce dovrebbero bacia’ le
mani tutti sti prelati che, quando vengono qui per dare l’estrema unzione ai
sordati moribondi, voltano la faccia dall’altra parte schifati appena ce vedono.
Ipocriti e maiali, so’ pieni i bordelli de cardinali! Cornelia è una rozza, però
c’ha ragione, l'ha detto anche la Principessa, Sì. Una volta, a uno di questi
religiosi, tutti azzimati in sottanone e scarpini, che si era scandalizzato per
la presenza di tante “donnacce”, gli ha spiegato, con molta pazienza, che tra
tutte le donne noi semo le più adatte pe’ cura’ i malati. E perché? Fa lui .
Allora lei: “….Eminenza, queste donne delle strade romane non avevano senso
morale, è vero, e in tempo di pace conducevano una vita disordinata ed egoista,
ma in questo momento si sono rivelate in loro doti redentrici, non pensano più a
se stesse o al loro comodo. Ho visto le più depravate e corrotte vegliare al
capezzale di un moribondo, senza lasciarlo mai, né per mangiare né per dormire,
per tre o quattro giorni e notti. Le ho viste sottoporsi ai doveri più
sgradevoli e pesanti, stare per ore chine su ferite cancrenose e puzzolenti,
adattarsi agli umori e alle imprecazioni di uomini affranti, e accettare tutto
senza mostrare disgusto o impazienza. Le ho viste alla fine restare composte e
calme mentre le palle di cannone e di fucile passavano fischiando sopra la loro
testa, indifferenti a tutto meno che ai bisogni dei relitti umani che giungevano
dal campo di battaglia. Tutte le donne che ho preso a lavorare in ospedale sono
cambiate nello stesso modo, quando nel loro cuore è entrata la pietà. Che pena
vedere donne capaci di tanta nobiltà e sacrificio costrette a vivere come bestie
per mancanza di educazione e di giuste occasioni”. Vivere come bestie! Cristina,
non esageriamo! Certo non era un lavoro decoroso né onorevole il nostro,
comunque anche la vita di prima ci ha insegnato un bel po’ di cose: come
affrontare situazioni difficili, pericolose, a volte addirittura abbiamo
risicato la morte. E poi eravamo utili alla società, no? Ce siamo allenate a
maneggiare il corpo degli uomini e t’assicuro Cristina che ce voleva stomaco e
carità pure nel lavoro de prima, perché da noi ce venivano i deboli, gli
infelici, i malati… Chi si rivolge a una prostituta spesso è un “ferito”, dalla
vita. A volte invece è un prepotente e un violento e allora so’ dolori!
“Le donne che nun vonno aprì bottega so’ serpe, furie, arpìe, tizzi che
scotteno!....
E’ meijo sbatte er muso a le colonne Dormì co un frate e liticà co un prete Che
innamorasse de certune donne." Come dice er poeta! (si affaccia in quinta) Tutto
tace...
Era sfinita, poverella! Giorni e giorni senza chiudere occhio, senza fermasse
mai. Ho dovuto darle qualche goccia del rimedio che si dà ai feriti di
pallottola, dopo che sono stati operati dal chirurgo .…. Ed è per questo che me
sto a danna’ con le bende e la biancheria, così quanno se sveglia trova tutto
pronto. Pronto per cosa? Mah…c’è un silenzio de tomba e suona la campana dello
sconforto… Però un ce voglio crede' che sia tutto finito, me lo deve dire lei,
Cristina di Belgiojoso, la principessa. Principessa… Pensare che fino a poco
tempo fa faceva la bella vita nei salotti dell’aristocrazia, tra l’abiti di seta
e l’acconciature, e ora si mette gli occhiali, prende in mano una verga e gira
per le corsie come una vecchia governante severa e dà ordini a tutti. Anche i
medici la obbediscono. In riga! I pazienti poi, fanno a gara per stringerle la
mano, perché lei ha quel modino… una parola giusta pe’ ognuno! Piace anche a me,
lo confesso, pure se me diverto a criticalla pe’ la sua vita de prima… Lei dice
de noi... io dico de lei.... In fondo pure lei de omini n’ha conosciuti e ha
fatto na vita libera… d’alto bordo, certo… mentre noi… mignotte semo e mignotte
resteremo. Una volta m'ha confidato, la pincipessa: "Di uomini in vita mia ne ho
conosciuti tanti, ma che valessero la pena uno o due al massimo."
A Cornelia invece je vanno bene tutti: Se pija li burrini più screpanti a
quattro a quattro con un zu segreto: lei se sta in piede e quelli uno davanti fa
er affto suo e uno dereto trattanto lei, pe' contenta' er villano se ne sbriga
antri due, uno pe' mano
Sss. Basta co' ste porcherie! S'è svegliata? No no, dorme ancora…meno male. L’ha
vegliato fino all’ultimo quel povero giovane. Mameli si chiamava. Dice che era
un poeta. E la faccia da poeta ce l’aveva dipinta: lineamenti belli, delicati,
espressione gentile, lunghi capelli biondi… pensare che non aveva ancora
compiuto 22 anni! Fu portato qui alla Trinità dei Pellegrini ai primi di giugno,
con una brutta ferita alla gamba sinistra. Era stato ferito nella battaglia di
SanPancrazio, su al Gianicolo…. Me l’hanno raccontato preciso preciso. I
francesi nella notte attaccano, violando la tregua, ed entrano a Villa Corsini.
Per due volte i volontari di Garibaldi li ricacciano fuori, e per due volte
devono ripiegare. Al terzo attacco Mameli non ce la fa più a resta' fermo e si è
gettato avanti fra i primi. Così è stato ferito alla gamba, e mi hanno detto per
un errore dei suoi… Che mala sorte! L’ho visto subito che la tibia era spaccata
per lungo fino al ginocchio, brutta ferita, ma lì per lì i medici hanno sperato
in bene e non l’hanno amputato. Qualche giorno dopo vado a cambiare la
fasciatura e trovo il piede che si era fatto nero marcio. Allora, consulti su
consulti di chirurghi e dottori finché decidono di amputare sotto al ginocchio…
sotto lo dicono al giovane, per rassicurarlo, ma invece sono costretti a
tagliare più in alto, alla coscia, perché la cancrena si era già estesa. E non è
bastato neppure quello…. O forse, come ha detto il dottore: la complessione un
po’ gracile del ferito, il suo temperamento linfatico, rendevano impossibile la
guarigione. Pure, lui ha avuto un filo di speranza e ha scritto alla madre per
rassicurarla, e poi ha scritto ancora una seconda lettera confermando la
certezza di rivederla presto, quando ormai lui stesso aveva capito che gli
restava poco da vivere. E’ caduto in delirio, ma un delirio dolce, di poeta che
recita versi, a brandelli…na parola, poi n'altra... Ogni tanto me chiedeva della
guerra, tendeva l’orecchio al tuono del cannone, alle granate che venivano
frequenti a visitar l’ospedale…. Quella musica lo rendeva triste e più di una
volta ho sentito che diceva tra sé: “Morire sul campo sì, ma non qui, come un
paralitico!” Fino al 3 luglio al suo capezzale ci sono stati sempre amici,
uomini importanti… Mazzini, ad esempio, è venuto anche tre volte al giorno per
vederlo o per chiedere notizie… e quando arriva Mazzini è come il miele per le
mosche, si raduna sempre na folla che pende dalle sue labbra e lui dice frasi
che sono per tutti, ma a me mi sembran dette proprio pe' me e non l' ho
dimenticate: “L’educazione è il pane delle anime vostre!” “I primi doveri sono
verso l’Umanità!” “Non vi è Patria senza un diritto uguale per tutti!” Cristina
me l’ ha spiegato bene il significato profondo di quelle frasi….. compreso il
“suffragio universale”. Io nun sapevo nemmanco che esistesse sto modo de dire.
Significa che tutti se po’ votare. Pure noi. N' ce se crede.... Cristina sa
tante cose. Ci ha raccontato che prima de Roma c'è stata la rivolta a Milano. In
cinque giorni i milanesi hanno cacciato gli austriaci dalla città, loro eran
pochi e quasi senza armi, ma sembrava ci avessero i poteri sovrumani. Hanno
alzato delle barricate che arrivavano insino al cielo, ci buttavano sopra de
tutto, i nobili svuotavano casa: giù cassettoni e pianoforti, gli attori de
teatro giù le quinte de' teatri, i preti via i pulpiti delle chiese, e poi gli
omini sradicavano le pietre del selciato pe' farne armi e le donne dai tetti
gettavano pentole d'olio bollente sulla testa dei nemici. Tutte le campane di
tutte le chiese de Milano suonavano insieme, a più non posso, pe' rintrona' i
cervelli degli austriaci. Insomma è stata un'avventura... Poi è finita....
Riposa ancora un po' Cristina, vai! te lo meriti. Oh, non si è mai allontanata
dal capezzale di Mameli, l’ ha vegliato per tutti e tre i giorni dell’agonia… in
certi momenti gli leggeva un libro, ora non mi ricordo l’autore, francese mi
pare… no, doveva essere inglese, perché i francesi in questo momento non si
possono vedere nemmeno dentro un libro, per colpa dei soldatacci,
stramaledetti…. Non lo so per certo se sono tornati a fa’ i padroni qui in
città, però ho occhi per vedere e orecchie per sentire. Stamani, all’alba, prima
di spirare, il giovane Mameli, ha detto ancora qualcosa; all’inizio non c' ho
capito niente, me son sembrate parole senza capo né coda, ma poi si è calmato,
gli è passato uno strano sorriso negli occhi e ha detto: Auguro giorni migliori
alla Patria! Ed è morto. Sapeva? Gliel'ha detto Cristina? O l’ ha intuito da sé?
Che anche la repubblica è morta… Questo silenzio non lascia dubbi. E’ doloroso
che sia finito tutto così presto. Non ci posso crede’. Per un po’ sono stata… mi
sono sentita… utile. Poi lavorare tutte assieme, agli ordini di una donna che …
mai un cedimento, mai insofferenza o schifo, mai paura…E ora che farà, lei?
Tornerà a fare la principessa? E io… io che farò? Mentre l’attrice esce di scena
sullo schermo appare il solito breve filmato che mostra questa volta le Mura di
Roma a Porta San Sebastiano, poi il percorso si allunga fino alla Via Appia e
all’acquedotto romano, le Mura di Villa Sciarra e del Gianicolo.... Vediamo la
bambina e uno strano folletto che si affacciano dall'alto e guardano in giù.
Torna l’attrice: ha un velo nero in testa, mentre se lo toglie pian piano e va a
deporlo sul tappeto in proscenio, recita:
Capitolo Quattro
ENRICHETTA CARACCIOLO
Peperoni arrosto… pesce fritto… sterco di cavallo
e il profumo dolce-amaro degli oleandri ... dietro il muro ci devono essere orti
peni di salvia e di mentuccia. E finalmente il salmastro! Fino da piccirilla ho
avuto una smodata voglia e’ te. Ti respiro e ti sto a guardare: bello, maestoso,
fremente…mare mare mare. Sei così profondo che a star qui vicino a te anche i
miei pensieri mi sembrano profondi, e i sogni vanno su.. su.. . volano
sull’onda. Che me vo’ dì? Se in questi anni mi sono mancati abiti e
acconciature? Nu poco. Feste e corteggiamenti? Certamente. Ma più di tutto mi
sei mancato tu. E ora sono venuta ad affidarti il mio velo perché tu lo porti là
sotto, nella profondità dei tuoi abissi dove si agita un mondo prodigioso fatto
di guerra e d’amore, di ricordi....ecco portalo via questo ricordo e io mi
sentirò finalmente libera! Smonacata! Le senti le campane? Suonano a festa per
lui, è arrivato in città come un re, un eroe, un redentore, e tutti sono corsi
per le strade gridando e tamburiando, anche i lazzaroni l’hanno applaudito, e il
sangue di San Gennaro si è sciolto, doppio miracolo! I colori di Napoli sono
accecanti, la città è invasa dalle camice rosse, sembra uno sterminato campo di
papaveri. Sono dovunque: nei caffé, dai barbieri, nelle piazze e nei vicoli. Gli
scugnizzi gli corrono appresso e si offrono come scudieri. “Viva Garibaldo! Viva
o’ liberatore!” Tra poco Garibaldi arriverà in Duomo e io devo essere pronta per
incontrarlo: voglio stringergli la mano e baciarlo. Grazie a lui l’Italia sta
risorgendo io ho trovato la forza di scappare dal convento e portare a
compimento la mia ribellione. Per anni sono stata il Masaniello del San
Gregorio. Io, Enrichetta Caracciolo di Fiorino, quinta di sette figlie e
costretta perciò ad essere monacata, contro la mia volontà, già da novizia
cercai di oppormi in tutti i modi….inutilmente. Quando dovetti pronunziare i
quattro voti: castità, povertà, ubbidienza e perpetua clausura, la voce
s’intoppò in gola, mi piombarono addosso la madre naturale e la nuova madre
badessa per imbeccarmi….per forzarmi. Alla fine mi diedero delle rose
artificiali da offrire al cardinale che mi officiava e io dissi: “Ecco, rose
morte da una morta!” Feci il diavolo a quattro per portarmi in convento almeno
il mio pianoforte, e loro mi proibirono anche la musica…. Il convento mi
inghiottì. Scrissi le mie suppliche al Papa, perché mi liberasse. Pio IX, era
considerato un Papa liberale, gli austriaci erano andati su tutte le furie
quando appena eletto aveva benedetto l’Italia tutta. Pensare che al Teatro alla
Scala le danzatrici si erano presentate in scena con la medaglietta di Pio IX al
collo, tanto che dovette intervenire la polizia…. Ma poi, che delusione!
Delusione per le sorti dell’Italia e anche per me. Aspettavo trepidante la
risposta come un condannato la grazia, e la risposta non venne mai. Anzi il
vescovo mi tolse ogni speranza: “Se hai indossato una volta l’abito, non uscirai
mai più dal convento, né viva né morta!” Aria! Aria!.... Corse, veloce come una
saetta, la notizia che io ero diventata una rivoluzionaria, aggregata a società
segrete, settaria, eretica e non so che altro. Ma io non diedi importanza a
queste accuse, quando Ferdinando II giurò sulla Costituzione e proclamò la
libertà di stampa, feci arrivare in convento i giornali dell’opposizione e li
leggevo ad alta voce nel chiostro, per educare le monache all’esercizio della
consapevolezza. Dicevo alle mie converse: Anziché marcire nell’ozio e
intorpidire nelle litanìe, non preferireste fare, che so, da vivandiere o da
farmaciste agli eroi che vanno a combattere per la libertà dei popoli, in
Lombardia come in Sicilia? Risvegliatevi, voi pingui, apatiche, tarde come
galline nel pollaio, aprite gli occhi e partecipate alla storia patria!
Ascoltate bene questi nomi:
Ranieri, liquorista Giacinto, regio impiegato Attilio, possidente Achille,
macchinista delle ferrovie Gaetano, barcaiolo…. Non posso nominarveli tutti,
sono mille.
Non sono mariti, né spasimanti, non sono confessori o chierichetti, sono più che
mariti, più che spasimanti, più che confessori ochierichetti, sono i nostri
fratelli. C’è perfino un fanciullo di 11 anni, Giuseppe Marchetti da Chioggia,
anch’egli imbarcato a Quarto, al seguito del Generale. Non possiamo essere con
loro, cerchiamo almeno di partecipare col cuore e col pensiero. E terminavo le
mie arringhe sempre con una preghiera: Ripetete insieme a me: Ave Maria gratia
plena , noi siamo mentalmente e fisicamente uguali agli uomini, adesso e
nell’ora della nostra morte, amen. Fui denunciata. Credevo che la mia veste
monacale mi preservasse dall’essere iscritta nel libro nero della polizia.
Invece sbirri alle porte, sbirri in refettorio, sbirri che frugano per ogni
dove, nelle celle e nei confessionali .
“Avete preso i voti. Come osate ribellarvi?” disse il commissario. “E’ empia e
sacrilega” sibilò una monaca. “E’ scismatica” sentenziò un’altra.
“Se abbiamo fatto dei voti perché ci sono le grate? E se ci hanno messo le grate
perché abbiamo fatto dei voti?” “Non l'ascoltate! E’ pericolosa! Va tenuta
lontana dalle giovinette innocenti” intimò il priore. Invece le converse fuori
dalla stanza trepidavano e cercavano di ascoltare le mie parole con l’orecchio
incollato all’uscio. “Non vi è altro paese come il nostro che possegga un sì
gran numero di sedi vescovili, di preti secolari, di chiese, di monasteri, di
monaci e di monache. Che epidemia! Che calamità! Migliaia di cittadini dei due
sessi, sottratti al presente e sterili all’avvenire della loro patria”.
“Arrestatela!” La superiora mi chiuse nella cella più angusta del convento,
mentre serrava il chiavistello l’ho sentita mormorare: “Il topo è nella
trappola”. E allora ho pensato: “Se nonostante tutto la Chiesa cattolica
resiste, vuol dire che è Dio in persona a tenerla in piedi!” O Dio o il diavolo!
Tu che ne pensi? Tu non pensi niente, sbatti l’onda sulla riva, ruggisci,
risucchi, ti agiti in tempesta, e poi di plachi, calmo, ampio, dolce, padrone di
te stesso e custode dei tuoi tesori, libero … non costretto da veli, cordoni,
scapolari…regole! E' da una prigione che sono fuggita. E’ dal buio che sono
affiorata, come una sonnambula.... uno spettro…. un'ombra. Sai, ho deciso di
scrivere le mie memorie per raccontare al mondo la verità: i conventi non sono i
luoghi dell’ordine e della pace, sono il ventre della follia. Tutte pazze. Non
ho conosciuto altro che farneticanti, visionarie, chi troppo grassa e chi
scheletrica, una monaca non poteva toccare la carta perché le procurava
convulsioni e allora aveva costretto una conversa a voltarle le pagine quando
recitava l’uffizio. Ce n’era una che al momento dell’elevazione regolarmente
sveniva, un’altra per mantenere il letto in perfetto ordine, puntava degli
spilli sulle lenzuola, la più patetica era una vecchia che faceva bambolini di
cenci e se li attaccava al seno dicendo: Vidite, chisti sono figli a me! Filgi a
me! Ma ora ti voglio raccontare la storia di Angiola Maria. Angiola Maria era la
più bella, giovane, forte, occhi cerulei e capelli castani, ricci e lunghi, in
barba alla Madre Superiora, bocca gentile fornita di una splendida dentatura,
insomma fatta per la vita e per l’amore. Saltellando e scrocchiando il dito
medio sul pollice, a mo’ delle castagnette, ripeteva in continuazione una sua
cantilena:
Io voglio fa’ la zita Me voglio mmaretà Non pozzo sola stà.
Una notte sentii sulla fronte il contatto di una mano, credetti di aver sognato
e mi riaddormentai. La notte seguente sentii cadere una bacio sulle mie labbra,
allora spalancai gli occhi e l’Angiola Maria era là, sopra di me.
“Che vuoi? Cos’hai?” “Nun poz’ dormi’.”
E se ne andò. Ma sempre più frequenti si fecero le sue apparizioni notturne, a
volte si presentava seminuda e scarmigliata, a volte in camicia, calma e
composta si sedeva sul mio letto e diceva parole in libertà…. Finché una notte,
contorcendosi tutta, smaniò: “'O vedo, 'o vedo… 'o voglio…'o voglio. La testa
m'abbrucia, le orecchie me ronzano, me manca o respiro, come poz' dormi'?” Mosse
qualche passo in corridoio: ”Siete vuie? Siete vuie?“ Spalancò le braccia per
accogliere l’oggetto del suo desiderio e gridò un nome. Il nome del suo
confessore. Immediatamente fu presa e legata al suo letto. Da quella notte
cominciò a gemere e a urlare come un lupo alla luna. E il convento non riuscì
più a dormire. La superiora, per farmi dispetto, mi disse: “Cara Enrichetta,
purtroppo nessuna monaca vuole dividere la camera con la frenetica, perciò
l’affido a te che sei tanto brava e sai tante cose: falla stare nella tua cella
calma e buona. Ricordati, hai fatto voto di obbedienza.” Per un po’ Angiola
Maria se ne stette cheta nel lettuccio accanto al mio e, quando sbirciavo dalla
sua parte, vedevo che teneva gli occhi fissi al soffitto, immobile, oppure
dormiva profondamente. Poi una notte…. Una forte palpitazione al cuore mi fa
sobbalzare e mi sveglia. Getto uno sguardo al lettuccio, vuoto, i vestiti
abbandonati sulla sedia, le scarpe vicino alla porta. Nel perfetto silenzio mi
alzo, attraverso il corridoio, imbocco la lunga galleria, appena rischiarata da
fiochi lumini. Dalle pareti mi fissano santi, anacoreti e romiti dalla faccia
lunga e sparuta, dai colori cadaverici, dalla barba sperticata…, a dir delle
monache, a mezzanotte in punto balzano dalla parete a testa in giù e cantano
strane formule. Non vedo capriole e non sento voci, ma le gambe mi tremano
ugualmente. Arrivo nei pressi del chiostro e all’improvviso vedo brulicare
qualcosa di bianco, laggiù vicino al pozzo. E’ lei, scalza, in camicia, piegata
sul bordo, pronta a precipitarsi di sotto. No! Urlo. Si volta a guardarmi e
senza indugio si rovescia in avanti. Io spicco il volo e in un balzo sono su di
lei. Ma riesco ad afferrarle solo una gamba e un lembo della camicia. Angiola
scalcia, mi tira giù, è così pesante, mi scivola, mi scivola, mi ritrovo nella
mano solo il piede, un ultimo strappo e niente mi resta di lei, se non la sua
camicia. Te la regalo questa memoria per me così dolorosa, inghiottila, portala
là nel fondo….. insieme alla storia di Chiarina, mite e malaticcia, con le
spalle curvate dalla preghiera, che si autoflagellava alla ricerca della
perfezione, e poi di tutte quelle che una notte appiccarono fuoco ai loro
pagliericci e si misero a ballare come streghe, e porta con te la storia di
Concetta che sentiva la sua pancia crescere, crescere e non sapeva come fermarla
, incerta tra l’arsenico e il capestro, finì per scegliere il pugnale, ma non
morì subito e allora le fu praticato l’esorcismo. Mentre il sacerdote la
aspergeva di acqua benedetta le monache, inginocchiate tutte in fila (si fa il
segno della croce): "Padre Figliolo Spirito Santo, Padre Figliolo Spirito Santo!
Mo' esce, esce, esce Satanasso!". La loro curiosità fu delusa. Sì, Concetta
aveva qualcosa dentro, ma non era ancora arrivato il nono mese. Anch’io, se
fossi rimasta tra quelle mura, sarei scivolata nella follia o nella morte.
Ma..... quando Franceschiello è scappato da Napoli mi è tornata la forza e
l’allegria. Già da giorni seguivo gli eventi…. “I garibaldini stanno arrivando!
Pare che il generale viaggi in un treno speciale! Viene da Salerno. Ecco, il
treno è giunto alla stazione!” Sono uscita all’aperto! Tutto mi è apparso nuovo.
Da lungo tempo disavvezza alla folla, all’assordante frastuono delle ruote, mi è
sembrato di essere risalita dal regno delle ombre al mondo dei vivi. Schiarita
la vista, dilatati i polmoni, rasserenato l’animo. Belle speranze della patria e
futuri destini dell’umanità! Vuoi sapere il cambiamento più profondo? Comincio a
“sentire” la religione. Sì, la fede, quella fede che ho visto deturpata in
pratiche esteriori e crudeli, la sento pian piano crescere dentro di me in una
nuova forma. Benedico il lavoro d’ogni giorno e benedico il sonno d’ogni notte.
Voglio vivere in modo semplice ed esemplare, come il sole, come il pendolo, come
lo scoglio…. Quanto al mio Dio, il mio Dio è colui che vuole tra gli uomini
giustizia, libertà, eguaglianza, fraternità, amore….. Non è forse stato Gesù, il
primo garibaldino?
L’attrice esce di scena e sullo schermo appare una periferia degradata: una
discarica, un cimitero macchine.... Tra i detriti, i cumuli di gomme e i
grovigli di metallo, si trova una grande conchiglia, uno scrigno di gioielli e
una bambola. Di nuovo luce a lato della scena sul leggìo dove torna l’attrice e
legge/recita l’ultimo brano:
Capitolo Cinque
JESSIE WHITE MARIO
Non è questa l’Italia che sognavo. Non è questa
l’Italia per la quale ho lottato. No, non è questa…. Intendiamoci, io amo questo
paese, ma quanti problemi irrisolti! E gravi. Manca una classe politica
all’altezza del compito, manca una vera educazione nazionale, e siamo ancora
lontani dal pieno riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali per
tutti. Eppure sono passati già trentacinque anni dall’unità. La colpa è del
parlamento che non vara nessuna legge che riguardi i problemi reali dei
cittadini e i cittadini dal canto loro non riescono ad avere fiducia gli uni
negli altri per seguire un interesse collettivo e ribellarsi. “E’ triste
realizzare dopo trentacinque anni di vita nazionale che queste due parole:
crimine e miseria, riassumono la storia d’Italia”. Ecco, scriverò proprio così
nel mio prossimo articolo sul Nation. Sembrerà cinico? Troppo duro? Non sono mai
stata tenera in vita mia. E ho sempre amato la verità prima di tutto. Ah, l’ho
detto chiaro e tondo anche a Crispi. Che offesa quel sussidio, così striminzito
per giunta! Quando è arrivato il funzionario statale: “E’ lei Jessie White,
vedova Mario? “… “Sì, sono io. Di che si tratta? Non voglio elemosine. Rimandate
quest’incartamento a Roma, o gli do fuoco!” Si è precipitato giù dalle scale
tutto impaurito. Miss Uragano spaventa ancora… Quello che ho fatto l’ho fatto
perché credevo nella causa, non per ricavarne dei soldi! E credevo negli uomini
che lottavano per l’Italia, a cominciare da Mazzini. Già, fu proprioMazzini a
darmi quel nomignolo di Miss Uragano che poi mi è rimasto appiccicato addosso
per tanti anni…. Caro il mio funzionario, riferisca che preferisco guadagnarmi
il pane insegnando inglese alle mie ragazze. Sono diligenti e buone. Mi
piacciono! E mi piace stare a Firenze: la città è sempre così bella. Certo non
sto più a Bellosguardo come ai tempi felici con Alberto… Questa casa è piccola,
fredda, ma non ci bado....
Di politica non mi occupo più, potete stare tranquilli, non voglio più saperne,
non apprezzo i traffici dei commendatori e dei droghieri soddisfatti o, come
dice il Carducci, dei gufi e dei pecoroni!
Anche Garibaldi è morto triste e deluso. In questa terra dove il grammofono si è
incantato non è più tempo di eroi, è tempo di ingratitudine! L’ultima strega
l’hanno bruciata viva 100 anni fa col gatto parlante e la sua rabbia in corpo!
Non è questa l’Italia che sognavo. Mi consola lavorare ai miei libri e spero che
rimangano dopo di me, a cominciare da quelli dedicati a Garibaldi e a Carlo
Cattaneo, sì, Cattaneo non deve esser dimenticato, è il più grande filosofo ed
economista dell’Italia moderna. E poi devo ancora finire di ordinare tutti gli
scritti di mio marito, Alberto Mario. Carducci mi ha promesso di curarne
l’edizione e di scrivere la prefazione, ma è così indaffarato il professore che
chissà… io intanto sto preparando la biografia. E’ faticoso scrivere perché le
mie mani, invece di rispondere ai comandi del cervello, rispondono più
volentieri a quelli dell’artrite… Ma è bello lavorare alla biografia di Alberto
perché così rivivo il nostro passato insieme….
Genova. 1857. E’ lì e allora che ci siamo conosciuti, e fu proprio il Maestro a
mandarmelo a casa con un biglietto di presentazione: “E’ un patriota coraggioso
e un letterato, vi piacerà, cara Jessie…” (o cara Bianca? Non ricordo più come
scrisse. Di solito Mazzini mi chiamava Bianca – white, bianca - e io allora mi
divertivo a chiamarlo Pippo.) Alberto mi piacque eccome! Alto, biondo, bello,
appassionato… subito tra noi si stabilì una grande armonia, pur essendo molto
diversi, ad esempio lui amava la poesia e stava lavorando su Aleardo Aleardi, io
detestavo quei versi gonfi e lacrimosi, ero tutta presa dalla medicina e il mio
sogno era assistere i chirurghi sui campi di battaglia. Entrambi però avevamo
passione politica e in quel momento eravamo conquistati dal progetto di
Pisacane: “ L’Italia meridionale libera dai Borboni, restituita all’Italia
tutta, unita e repubblicana!” In realtà nessuno credeva che fosse realizzabile,
neppure Garibaldi. Solo Mazzini, puro idealista: “Vedrete, basterà una scintilla
e le popolazioni si solleveranno! Non è possibile che l’Italia si unisca sotto
la guida di casa Savoia!”
Alberto ed io eravamo giovani, infervorati, forse illusi… Il 25 giugno Pisacane
si imbarca sul Cagliari con pochi altri, in mare aperto prenderanno il comando
della nave per dirottarla sulla costa napoletana. Intanto Mazzini passa la notte
a limare il discorso con cui arringherà le folle. Io rimango a Genova,
depositaria di una memoria, una sorta di Testamento politico, da diffondere in
Italia e in Inghilterra, mentre Alberto si prepara ad assaltare una postazione
militare. Proprio quella notte Alberto mi dichiarò il suo amore e io ? "Sarò
tua... se riusciamo a sopravvivere". Qualcuno informò le autorità e l’impresa
fallì rovinosamente. Mi arrestarono come “sovversiva delle istituzioni
monarchiche” e fui rinchiusa nel carcere di Sant’Andrea. Il conte di Cavour in
persona scrisse all’ambasciatore inglese: “Mi spiace che tra le persone più
compromesse si trovi un’inglese, Miss White. Sembra fuor di dubbio che ella
abbia svolto un ruolo importante e che si sia adoprata con tutti i mezzi per
spingere alla lotta…” Ma la cosa più tragica fu l’indifferenza del Meridione,
l’insurrezione mancata e la morte di Pisacane…. Lo piansi in carcere. Di lì a
poco seppi che avevano arrestato anche Alberto, ci separavano muri e grate di
ferro, ma noi riuscimmo ad abbatterle. Con la complicità di un guardiano, ogni
giorno lettere appassionate volavano dall’uno all’altro. Il nostro fidanzamento
si svolse in carcere. Per fortuna dopo pochi mesi siamo stati liberati. Di me
scrissero: “E' una giovane evidentemente invasa da un’esaltazione mentale per la
causa italiana, e dunque indesiderata”. Mi dettero cinque giorni per riparare
all’estero. Decisi per l’Inghilterra, la mia famiglia e Mazzini mi reclamavano,
e Alberto scelse di venire con me. Fu così che in un freddo dicembre, dopo
appena sei mesi dal nostro primo incontro, Alberto ed io ci sposammo.
Mazzini non la prese bene e questo mi fece letteralmente infuriare. Ma come!?
Ero finita perfino in carcere per averlo seguito…. E lui non viene neppure al
mio matrimonio! Forse è geloso, mi considera un po’ come una figlia, o forse
teme che il passo sia troppo affrettato. D’altra parte….“La vita senza
entusiasmo è un fiore senza profumo!” L'ha detto Alberto uno dei primi giorni
del nostro amore, credo per giustificare il mio carattere irruente e la mia
ansia di agire.
Comunque Pippo mi mandò una lettera affettuosa, ma con una raccomandazione: “
Promettete di non fare del matrimonio un egoismo a due.” E subito mi reclamava a
sé per un giro di conferenze… Credo che quella sia stata l’unica volta in cui
non gli ho obbedito.
Le nuvole passarono presto e noi ci trasferimmo a Londra, in un appartamentino a
pochi passi dalla casa di Mazzini, perché frequentare Mazzini voleva dire stare
con la famiglia allargata degli esuli di tutto il mondo, pensare in grande,
vedere lontano…Lui così ascetico, disinteressato, innamorato solo della cultura
e dei suoi ideali. Grazie ai sui insegnamenti quante conferenze ho fatto, su e
giù per l’Inghilterra e perfino negli Stati Uniti d’America! E quanti articoli
ho scritto! Ma forse non l'ho mai capito fino in fondo, ero troppo giovane,
impulsiva..... Neppure gli italiani l'hanno capito del resto, anzi, l'hanno
perseguitato. Strano destino quello degli italiani, così deboli, avvezzi a
servire, e poi , all'improvviso, capaci di risollevare la testa, capaci di gesti
clamorosi.... come fu la spedizione dei Mille, un miracolo al quale ebbi la
fortuna di assistere, a fianco di Garibaldi.
Garibaldi era stato il mio primo “amore”, fin da quando, ragazzina avventurosa e
romantica, lo conobbi a Nizza. Lui era già una leggenda, e io, che tanto avevo
sentito e letto delle sue imprese, degli amori e i dolori, lo avevo idealizzato.
Appena lo vidi, lì per lì mi deluse, mi sembrò un vecchio, tormentato dai
reumatismi, dedito soltanto alla pesca… ma poi bastò uno sguardo, qualche parola
e capii che sotto la cenere ardevano le braci e il leone stava raccogliendo le
forze per prepararsi al balzo. In quel momento per me la causa italiana e
Garibaldi si identificarono e mi votai a loro per la vita.
Finalmente, dopo tanti anni, Garibaldi si ricordò di me e mi chiamò insieme ad
Alberto per partecipare all’impresa dei Mille. Era il 1860. Con l’entusiasmo di
sempre rispondemmo all’appello.
Dalla Svizzera non fu semplice raggiungere Quarto, insomma, dopo qualche
traversia arrivammo in Liguria che i garibaldini erano già partiti... In ogni
modo eccomi in Sicilia, e, proprio mentre mi sto dirigendo su Alcamo, mi si para
davanti Garibaldi in persona, ardito e sorridente, circondato dall’aura festosa
del trionfatore. Palermo era già sua! Subito si rivolse a me con ironia: “Ho
provveduto per voi molti feriti da curare….” Si ricordava la mia promessa
giovanile: “Sarò l’infermiera dei vostri volontari!” Ecco: era giunto il
momento. Mi gettai nell’impresa con l’impeto che ci si poteva aspettare da Miss
Uragano e spesso il coraggio supplì all’inesperienza, ma avevo una buona guida,
Pietro Ripari, il medico in camicia rossa, scontroso e buono, di poche parole e
molti fatti, proprio come il suo Generale! Feci di tutto, dal curare le ferite a
consolare gli animi a scrivere lettere per le famiglie lontane a rubacchiare un
po’ di cibo in una Palermo devastata dove mancava tutto… Arrivai perfino a
medicare i malati di vaiolo nero e quando Alberto lo venne a sapere inorridì.
Povero amore! Mi confessò più tardi che se fossi rimasta sfigurata dal vaiolo
chissà se mi avrebbe amato come prima! Alberto si occupava di addestrare i
ragazzi poveri e abbandonati nella nuova scuola militare voluta da Garibaldi. Il
mio Ospedale era in un vecchio monastero non troppo distante e capitava a volte
di mangiare e dormire insieme, quando c’era tempo per mangiare e per
dormire….Sono stati giorni bellissimi. Poi l’esercito garibaldino mosse alla
conquista di tutta l’isola e quindi dell'Italia meridionale. Alberto mi salutò
di nuovo. A me toccava restare nelle retrovie, mi giungevano notizie di
vittorie, ma io vedevo solo morti e moribondi e feriti… quanto sangue! In
ricordo di quei giorni mi è rimasta una medaglietta. Da una parte c’è il profilo
della Sicilia e dall’altra un’iscrizione: Alla signora Mario, dai feriti di
Garibaldi. Ritrovai Alberto a Palmi, in Calabria, e poi entrai con lui a Napoli.
Che trionfo, in soli cinque mesi!
“Generale, adesso a Roma e l’Italia sarà unita e repubblicana!”
Noi credevamo che tutto fosse possibile… E invece quanti compromessi, quante
astuzie diplomatiche! Cavour era maestro nel tessere le tele, occhiuto con la
Francia che appoggiava il Papa…. A proposito del Papa mi viene in mente che
Garibaldi, nei suoi riposi forzati di Caprera, aveva dato a un mulo il nome di
Pio IX. "Vai, Pio IX, muoviti!" E giù frustate! Chissà come sarebbe andata se
Garibaldi avesse continuato... se.. . se... La storia non si fa con i se. In
quel momento di festa l’eccitazione era grande ….ma ci fu un contrattempo. Al
quartier generale di Garibaldi arriva la notizia che i Borboni hanno ripreso il
possesso di Ischia. Forse è solo una voce ma bisogna andare a verificare e
Garibaldi incarica Alberto del sopralluogo. Io decido all’istante: “Amore, vengo
con te!” E il giorno dopo eccoci sull’isola a dorso di asino. In vista di una
cittadina, una folla ci viene incontro correndo e gridando, sono i ribelli? I
borbonici? No, sono i cittadini di Forio che ci vengono ad abbracciare e
benedire. Gli uomini hanno fasce tricolori, le fanciulle nastri nei capelli e
lanciano fiori, esplodono mortaretti, appaiono ghirlande alle finestre. Nemmeno
uno parteggia per i Borboni, tutti acclamano Garibaldi! E Garibaldi chi è?
Alberto. Anch’egli biondo, barbuto e con la camicia rossa. Ma molto più giovane
e più bello, aggiungo io. Non c’è niente da fare, per quanto si cerchi di
spiegare l’equivoco, nessuno si convince. Garibaldi è arrivato ad Ischia con una
femmena dai capelli rossi, splendente come o' sole, per distribuire a tutti
libertà e maccharoni!
Alla fine l’attrice esce e sullo schermo viene proiettato il cortometraggio
“Evelina s’è desta”.