CIAO FANTASMA
Tre Atti di
GIOVANNI SPAGNOLI
Personaggi:
Aroldo Torrisi - Il conte
Torquato Torrisi - Il fantasma
Bellocchio – Il costruttore
Giada – Fidanzata del conte
Amelia – Madre di Giada
Francesco - Maggiordomo
Atto Primo
(Salone di un vecchio palazzo patrizio. L’arredamento decrepito ed i muri
scrostati denotano un penoso stato di abbandono. L’ingresso è di fronte; ai lati
alcune porte immettono in altrettante stanze e corridoi. Sulla sinistra,
importante una porta finestra aperta con tendine bianche. Da destra entra
Francesco: è un vecchio maggiordomo perfettamente intonato con l’ambiente.
Mentre attraversa il salone, un pezzo di intonaco si stacca dal soffitto e gli
cade quasi sui piedi).
FRANCESCO – Anche l’intonaco del soffitto? Il palazzo si sta sgretolando e noi
con lui. Un giorno o l’altro dovranno venire a cercarci con i cani, sotto le
macerie. (Va a prendere scopa e paletta e comincia a pulire) Com’è possibile
vivere in questo modo? I muri ormai sembrano a muffa portante, topi non ce ne
sono più e nemmeno scarafaggi: beati loro che sono riusciti a fuggire prima del
crollo definitivo. (Al pubblico) Ci credereste? Questo era uno dei più bei
palazzi della città. Questo salone era una meraviglia, le pareti piene di
specchi e di quadri, un lampadario a gocce con più di cento lampadine…(Sospira)
Sic transit gloria mundi. (Cade un altro pezzo di intonaco) E’ la fine… purché
sia rapida e, possibilmente, indolore. (Si avvia verso sinistra. Da destra entra
Aroldo: è in vestaglia e arrabbiato)
AROLDO – Francesco! Si può sapere quanto deve durare questa storia?
FRANCESCO – Che storia, signor conte?
AROLDO – Non dirmi che non sai che nel bagno non c’è acqua calda.
FRANCESCO – Lo so, signor, conte, lo so. Ma proprio non so cos’è che potrei
farci. Nella cantina c’è un tubo rotto.
AROLDO – E con ciò? In giro non ci sono più idraulici? Cos’è, sono morti tutti?
FRANCESCO – No, signor conte, gli idraulici godranno anche di buona salute. Il
guaio è che se prima non gli paghiamo i lavori pregressi, da questa casa girano
al largo.
AROLDO – Ma che abbiamo, la peste? Saranno pagati…Ci vorrà un po’ di tempo, ma
saranno pagati fino all’ultimo centesimo.
FRANCESCO – Mi creda, signor conte, quelli quando si parla di denaro usano solo
il tempo presente.
AROLDO – Non c’è proprio nessuno che possa farci ancora credito? Magari un
giovane che abbia bisogno di nuovi clienti…
FRANCESCO – Siamo sulla lista nera, signor conte. E non soltanto in quella degli
idraulici. Tutti gli artigiani e i negozianti della città, quando mi vedono
arrivare, si affrettano a tirare giù la saracinesca. Per noi, la parola credito
è stata cancellata dal vocabolario.
AROLDO – (Si siede sconsolato) Siamo ridotti veramente male, vero Francesco?
FRANCESCO – Peggio di così…
AROLDO – Mi chiedo quale sia stata la causa di tanto sfacelo. Ci sarà pur stato
un inizio…Tu sai da dove sia cominciata la discesa?
FRANCESCO – Il signor conte non dovrebbe chiedere a me quale sia stata la causa
di tutti i suoi guai. Dovrebbe conoscerla meglio di chiunque altro.
AROLDO – Un po’ i cavalli…Ho scommesso troppo, vero?
FRANCESCO – Se il signor conte permette, anche le “cavalle” hanno contribuito
non poco.
AROLDO – Eh, già…Anche il gioco, a pensarci bene…
FRANCESCO – Mi perdoni la metafora, signor conte, ma lei dal tavolo verde più
d’una volta s’è alzato in mutande.
AROLDO – (Sorride) Delle volte anche senza. (Cambia tono) Ah, se potessi tornare
indietro! Ero ricco sfondato ed ora guarda, manca poco che i creditori mi
inseguano per strada.
FRANCESCO – Se potesse saperlo il signor conte Paolo, suo defunto padre, sono
certo che si rivolterebbe nella tomba. Lui poi che era anche un po’…corto di
manica.
AROLDO – Corto di manica? Ti autorizzo a dire che era l’avarizia fatta persona.
Non mi comprava un abito nuovo finchè quello che indossavo non cadeva a pezzi. E
le scarpe? Me le faceva risuolare soltanto quando le suole erano diventate
trasparenti. Ricordi le scene che faceva ogni volta che mi dava mille lire?
Guardava la banconota come se stesse salutando un parente in partenza per il
fronte.
FRANCESCO – Però aveva aumentato il già cospicuo patrimonio che aveva ereditato.
AROLDO – E vero, ma quanto gli era costato? Sai con che cosa l’aveva pagato
questo aumento del patrimonio? Con la vita! Non beveva, non fumava, non
giocava…Tu sai bene cosa faceva tutto il giorno. Cosa faceva? Niente. Stava
chiuso nel suo studio a fare dei conti. Oppure, e questo per lui era il massimo
della goduria, una passeggiata fino al Circolo dei Nobili, dove beveva un caffè
soltanto se qualcuno glielo offriva. Ma è vita questa? Non ho chiesto io di
venire al mondo, ma dal momento che ci sono voglio godermelo il più possibile. E
quando non sarà più possibile, mi sparerò un colpo di pistola in una tempia.
FRANCESCO – Ecco, manca solo il colpo di pistola finale per uscire con dignità
dalla comune. Che grande attore sarebbe lei, signor conte!
(Campanello d’ingresso)
AROLDO – Vai a vedere chi è. Comunque, io non sono in casa. I creditori sono una
brutta razza, pensano sempre e soltanto ai soldi. (Esce)
FRANCESCO – (Va ad aprire e poco dopo rientra precedendo Giada ed Amelia) Prego.
AMELIA – Vada, vada ad annunciarci al signor conte. E veda di sbrigarsi.
(Francesco esce. A Giada) Devi dire ad Aroldo che non può tenere in casa un
domestico come quello. E’ solo un perditempo. Ha persino i piedi piatti!
GIADA – E’ vecchio, mamma.
AMELIA – Guarda in che stato tiene la casa. Essere vecchi non è una colpa, ma
non deve essere nemmeno un privilegio. Ricorda Giada, la servitù va trattata con
decisione. La tenerezza riservala a tuo marito, non ai domestici. Chi non fa il
proprio dovere, via! Quando avrai una casa tua…ci sarò io accanto a te e non
avrai bisogno di occuparti di certe cose.
GIADA – Si, mamma.
AMELIA – Sarai contessa, non dimenticarlo mai.
GIADA – Me l’hai già detto, mamma.
AMELIA – Tu contessa e io mamma della contessa. Mam-ma-del-la-con-tessa…Non mi
piace. Possibile che non esista un titolo anche per me?
GIADA – Temo che per quanti sforzi siano stati fatti in proposito, l’unico
titolo che ti competa sia quello di suocera.
AMELIA – Per l’amor di Dio! Suocera sa di lavandaia. Nessuno oserà pronunciare
la parola suocera in mia presenza. Quando Aroldo si deciderà a chiamarmi mamma,
gli altri dovranno chiamarmi almeno contessa madre. Non esiste forse la regina
madre?
GIADA – (Accondiscendente) Si mamma.
AMELIA – Per prima cosa rimetteremo a nuovo questo palazzo. Tende, broccati,
mobili antichi, quadri d’autore… qui manca tutto. Aroldo è un caro ragazzo, ma,
lasciatelo dire, non ha idea di come debba vivere un nobile. E’ stato fortunato
a incontrare te, che hai una madre con gusti raffinati. Non preoccuparti, ci
penserò io a mettere a posto le cose.
GIADA – Con il consenso di Aroldo, naturalmente.
AMELIA – Ma gli uomini, piccola cara, sono incapaci di prendere da soli certe
decisioni. E’ nella loro natura. Perché credi che il buon Dio abbia creato la
donna? Per consigliare e indirizzare l’uomo lungo il cammino della vita. Se
sapessero cavarsela da soli, che bisogno avrebbero di noi? Devono credere di
essere loro a decidere, questo si, altrimenti ne andrebbe della loro dignità, ma
chi in effetti decide, dobbiamo essere noi. Lascia fare a me, la tua felicità è
l’unico scopo della mia vita.
GIADA – Si, mamma.
AMELIA – (Alludendo ad Aroldo) Ma quanto tempo ci mette?
GIADA – Non ci aspettava, avremmo potuto telefonargli.
AMELIA – Santa ingenuità! Non ti rendi conto che una visita improvvisa di tanto
in tanto è la medicina per tenere lontano le tentazioni? C’è qualche altra
uscita in questa casa?
GIADA – Ma cosa vai a pensare, mamma?
AMELIA – Vedi cara la differenza che c’è fra noi due? Tu ragioni con il cuore,
io con il cervello.
GIADA – Non credi che Aroldo mi ami?
AMELIA – Che c’entra? Anche tuo padre, buonanima, mi amava. Eppure non ti
nascondo che con le mie sortite improvvise, ho sventato molte delle sue tresche.
GIADA – Povero papà. E non ti ha mai fatto delle sorprese?
AMELIA – Non poteva. Leggevo in lui come in un libro aperto. Sentivo il radicare
di un tradimento, prima ancora che sbocciasse. Mi bastava un improvviso
cambiamento d’umore, un’attenzione in più nei miei riguardi, piccole tessere di
un mosaico che sapevo incastrare perfettamente. E ti assicuro che difficilmente
sbagliavo.
GIADA – E cosa facevi, allora?
AMELIA – Prendevo dei provvedimenti cautelativi. Gli facevo cambiare la
segretaria, allontanavo qualche mia amica che mi dava l’impressione di essersi
resa disponibile, indagavo su vecchie fiamme emerse improvvisamente dalle nebbie
del passato…
GIADA – Una vera e propria persecuzione.
AMELIA – In guerra e in amore tutto è lecito. E spesso non basta.
AROLDO – (Entrando) Scusate. Ciao cara. (Bacia Giada) Signora Amelia…(Le bacia
la mano)
AMELIA – Caro Aroldo, lo scopo della nostra visita…
GIADA – Mamma!
AMELIA – Ho detto qualcosa che non va?
GIADA – Lo scopo della nostra visita…Sembri un notaio. (Ad Aroldo) Eravamo in
giro per compere e…abbiamo pensato di venire a farti un saluto.
AROLDO –Non preoccuparti, ne sono felicissimo.
AMELIA – E intanto che ci siamo…
GIADA – (La interrompe) Sai Aroldo, la mamma ha un pensiero fisso.
AMELIA – Se permetti, i pensieri fissi li hanno i paranoici.
GIADA – Mamma desidererebbe sapere con un certo anticipo dove passeremo
quest’anno le vacanze.
AROLDO – Le vacanze? Ma…sinceramente, non…non…
AMELIA – Non ci hai ancora pensato? Male, figliolo. Le vacanze vanno programmate
per tempo. Altrimenti va a finire come l’anno scorso, in quella tua villa sul
lago, bella, non dico, ma di una tristezza…
AROLDO – E’ un rischio che abbiamo finito di correre, signora Amelia. Quella
villa non esiste più, almeno per me.
GIADA – L’hai venduta?
AROLDO – Diciamo che è passata in altre mani.
AMELIA – Non ne avrai comprato un’altra, spero.
AROLDO – Assolutamente no. Le ville, specialmente quelle sui laghi, mi mettono
malinconia.
AMELIA – Bene. Le vacanze vanno passate dove c’è gente, gente del nostro mondo,
naturalmente. Possibilmente in grandi alberghi, comodi, lussuosi, esclusivi. Che
ne diresti, Giada, di Montecarlo? E’ tanto che non ci andiamo. Ti piacerebbe un
mese a Montecarlo?
AROLDO – Un mese?!
AMELIA – Troppo poco, vero? Ma non possiam starci di più, non è chic farsi
vedere per tanto tempo nelle stesso luogo. Potremmo fare un mese a Montecarlo e
uno a Taormina. Che ne dici?
AROLDO – Magari!...
GIADA – Che c’è Aroldo?
AMELIA – Non ti piace Taormina?
AROLDO – Come no? Va benissimo.
AMELIA – Per le prenotazioni ci pensi tu?
AROLDO - Certamente.
AMELIA – Però non rimandare alle calende greche. Una telefonata e ti levi il
pensiero. Mi raccomando, per me e Giada una bella suite con vista mare. Andiamo
a finire le nostre compere, Giada?
GIADA – Si, mamma.
AMELIA – Ciao Aroldo. Riguardati, non hai una bella cera.
GIADA – (Piano, mentre bacia Aroldo su ua guancia) Torno più tardi…da sola.
(Le due donne escono)
AROLDO – (Chiama) Francesco!
FRANCESCO (Entrando) Il signor conte ha chiamato?
AROLDo – (Fruga in un cassetto, trova un biglietto da visita e lo porge al
maggiordomo) Vai da questo signore e fallo venire subito qui.
FRANCESCO – (Osservando il biglietto) Il solito impresario edile. Cosa ancora
vuole vendergli, signor conte?
AROLDO – Non ho rimasto che questo palazzo, se lo vuole glielo do.
FRANCESCO – E dopo?
AROLDO – Dopo ci penseremo. Ora fai come t’ho detto. (Francesco esce scuotendo
il capo. Aroldo cammina su e giu pensieroso. Improvvisamente, le tendine della
porta-finestra fluttuano e subito dopo entra Torquato: è in abiti ottocenteschi.
Quando lo scorge Aroldo resta sorpreso) E lei chi è? Chi l’ha fatto entrare?
TORQUATO – Come sarebbe chi sono? Guardami bene, non ti dice nulla il mio volto?
AROLDO – Senta buon uomo, se questo vuole essere uno scherzo, l’avviso che oggi
non è giornata. Perciò, mi faccia la cortesia di girare sui tacchi e torni da
dove è venuto.
TORQUATO – Non fare lo sbruffone con me, sai. A me nessuno ha mai detto di
girare sui tacchi, specialmente in casa mia.
AROLDO – Ecco spiegato l’equivoco, lei ha sbagliato casa. Questa non è casa sua,
ma casa mia. Questo è il palazzo del conte Aroldo Torrisi. Lei come si chiama?
TORQUATO – Senti Aroldo, se non la smetti di trattarmi come un matto, qui, prima
di sera, scorrerà il sangue. Ci siamo capiti?
AROLDO – Calma, calma, stia calmo, non deve arrabbiarsi. Torno a ripetere, credo
che lei abbia sbagliato indirizzo. Può capitare a chiunque. Magari
distrattamente uno pensa di entrare in casa sua e invece entra in casa d’altri.
Faccia mente locale. Deve andare a qualche festa in maschera?
TORQUATO – Perché dovrei andare a una festa in maschera?
AROLDO – Non mi sembra che l’abito che indossa sia all’ultima moda.
TORQUATO – (Con un gesto vago della mano) Quando si va di là, gli abiti restano
quelli di qua. Ma questo non ha alcuna importanza.
AROLDO – Se non ha alcuna importanza per lei, figuriamoci per me. Ora mi
vorrebbe dire, per cortesia, chi è e che cosa fa in casa mia?
TORQUATO – Ho abitato in questa casa per più di sessant’anni. E se tu non avessi
venduto tutti i quadri che erano appesi a queste pareti, potresti vedere da solo
chi sono. Il mio ritratto era li, accanto a quella porta.
AROLDO – Ecco un altro equivoco. Sembrano scatole cinesi: dentro un equivoco ce
n’è un altro. Se ricordo bene, lì, accanto a quella porta c’era il ritratto di
un mio antenato.
TORQUATO – E io cosa sarei?
AROLDO – Andiamo buon uomo, ogni scherzo è bello se dura poco. E lei, per me,
questo scherzo l’ha fatto durare anche troppo. Perciò, o se ne va da solo, o
sarò costretto a chiamare la polizia.
TORQUATO – Vergognati! Trattare così il tuo trisnonno! Non la senti la voce del
sangue?
AROLDO – Oh, insomma! Vuole dirmi come si chiama, si o no?
TORQUATO – Mi chiamo Torquato. Come si chiamava il nonno di tuo nonno?
AROLDO – (Ci pensa e poi stupito) Si chiamava…Torquato.
TORQUATO – Quindi?...
AROLDO – E’ incredibile.
TORQUATO – Cos’è incredibile? Non c’è niente di incredibile, sei tu che non vuoi
accettare la realtà.
AROLDO – Cerchi di ragionare…
TORQUATO – Tu devi cercare di ragionare. Mi vedi, mi senti, che altro vuoi?
AROLDO – Ma quando mai è accaduto che…
TORQUATO – Non è che capiti tutti i giorni, però di tanto in tanto qualche
permesso lo concedono.
AROLDO – Chi concede questi permessi, il direttore del manicomio?
(Un tuono formidabile sembra spaccare l’aria)
TORQUATO – (Improvvisamente spaventato) Ma tu cos’hai segatura al posto del
cervello?
AROLDO – (Avvicinandosi alla finestra) Oggi è davvero una strana giornata, tuona
e nel cielo non c’è nemmeno una nuvola.
TORQUATO – (Lo prende per un braccio e lo trascina davanti a uno specchio)
Guarda, cosa vedi nello specchio.
AROLDO – (Con un filo di voce) Vedo… vedo… Mi vedo solo…
TORQUATO – E come mai non mi vedi accanto a te?
AROLDO – (Spaventato) Ma cosa siete…un fantasma?
TORQUATO – Più o meno.
AROLDO – Ma allora…
TORQUATO – Allora, cosa?
AROLDO – Voi sareste…
TORQUATO - Ma se te lo sto dicendo da almeno mezz’ora. Sono il nonno di tuo
nonno, il conte Torquato Torrisi. (Aroldo si piega sulle gambe, Torquato lo
aiuta a mettersi a sedere) Ora cerca di stare calmo, non devi avere paura. Non
c’è nulla da temere.
AROLDO – Capirà , non mi capita tutti i giorni di trovarmi a tu per tu con il
nonno del mio nonno, in carne ed ossa, come se fosse appena uscito dalla tomba.
Saretemica fuggito dalla tomba?
TORQUATO – Macchè tomba. Ti sembra questa la faccia di un cadavere?
AROLDO – Allora…da…da dove venite?
TORQUATO – Non hai ancora capito? Vengo dall’aldilà.
AROLDO – Dall’aldilà…aldilà?
TORQUATO –Non fare lo stupido, esiste un solo aldilà.
AROLDO – Come avete fatto?
TORQUATO – A venire qua? E’ stato facile, come bere un bicchiere d’acqua. Hanno
pensato loro a tutto. Ti dirò che non me ne sono nemmeno accorto. Come tour
operator, nulla da dire, tanto di cappello.
AROLDO - E voi dove sareste? Si, insomma, per quello che si sa, di là non c’è un
posto solo.
TORQUATO – Ah, tu vorresti sapere se sto ai piani alti o nelle cantine? Diciamo
che sto all’ammezzato, al primo piano insomma.
AROLDO – Capisco. Siete stato condannato al purgatorio.
TORQUATO- Condannato non è la parola giusta. Mica ti fanno un processo. Quando
scendi dal vaporetto…
AROLDO – Il vaporetto? Quale vaporetto?
TORQUATO – Quello che fa il trasbordo…Ma tu, niente niente sei rimasto ai tempi
di Caronte? Caronte sono secoli che è in pensione. Cosa credi, anche là hanno
fatto delle riforme. Le pene part-time, celle singole…Comunque vedrai tutto con
i tuoi occhi quando verrai di là anche tu. (Aroldo si tocca). Dov’ero
rimasto?...Ah, si! Quando scendi dal vaporetto ci sono degli addetti che ti
indirizzano verso il luogo che ti è stato assegnato. Tutto qui.
AROLDO –E…come si sta?
TORQUATO – Come vuoi che si stia? Si vive.
AROLDO – Si vive?!
TORQUATO – Certo, mica si potrà morire un’altra volta. Si potrebbe star meglio,
questo si, ma io m’accontento. Altri stanno molto peggio.
AROLDO – Quelli che stanno nelle cantine?
TORQUATO – Eh, quelli se la passano veramente male. Quando sono arrivato di là,
dato che di qua non sono mai stato uno stinco di santo, temevo di finire anch’io
nelle cantine, invece…
AROLDO – Giuro che se la racconto in giro mi prendono per matto.
TORQUATO – Allora, vogliamo arrivare al dunque? Guarda che non ho molto tempo da
perdere, devo tornare di là appena finito il mio lavoro.
AROLDO – Potrei saperlo anch’io qual’è questo vostro lavoro?
TORQUATO – Devi sapere che noi, di là, siamo in grado di vedere tutto ciò che
fate voi di qua.
AROLDO – Davvero? Tutto tutto?
TORQUATO – Tutto ciò che riguarda i nostri parenti, naturalmente ciascuno i
propri. Pensa a una finestra spalancata, dalla quale noi possiamo osservare
tutto quello che fate.
AROLDO - Non deve essere uno spettacolo molto divertente. Ma ci vedete sempre,
giorno e notte?
TORQUATO –Quella finestra è sempre aperta. Ti ricordi quella sera che quel sette
ai dadi non ti venne mai?
AROLDO – Se me lo ricordo? M’è rimasto qui, sullo stomaco per dei mesi.
TORQUATO – E tu, come uno scemo, continuavi a raddoppiare il banco.
AROLDO – Il principio del gioco è o la va o la spacca.
TORQUATO – E tu con questo bel principio, quella sera ti giocasti l’ultimo
podere che t’era rimasto.
AROLDO – E a me lo venite a raccontare?
TORQUATO – E quella villa che l’anno scorso hai lasciato alla roulette al casinò
di Venezia?
AROLDO – Non era la roulette, era chemin de fer.
TORQUATO – E quei quadri che comprasti da un imbroglione, pagandoli un occhio
della testa, credendo di fare un affare, e non erano che croste che valevano
meno delle loro cornici?
AROLDO – Ma voi siete quì per farmi un processo, o cosa?
TORQUATO – (Indica l’alto dei cieli) Anche loro sanno che dentro il tuo cervello
c’è qualche rotella che non funziona, cosa credi? M’hanno concesso un permesso
speciale per venire ad impedirti di commettere l’ultima stupidaggine della tua
vita.
AROLDO – Ma quale stupidaggine…Non ho rimasto più niente.
TORQUATO – Non hai forse deciso di vendere questo palazzo?
AROLDO – Perché, non si può?
TORQUATO – No che non si può.
AROLDO – Chi lo dice?
TORQUATO – Io lo dico! Le tue pazzie ti hanno ridotto alla miseria più nera, ma
perdio!... (Tuono formidabile. Torquato si rivolge al cielo, contrito) Scusate,
ho esagerato. (Ad Aroldo) In questo palazzo ci sono nato, cresciuto e morto,
quindi non si vende e basta.
AROLDO – Cercate di capire, se voi sapete tutto di me, saprete anche che ho più
debiti che capelli in testa.
TORQUATO – Questi sono affari tuoi.
AROLDO – Non esco quasi più di casa, per paura che qualche creditore mi spari.
Oppure vorreste che mi sparassi da solo?
TORQUATO – Non sarebbe una cattiva idea. (Tuono) Cos’altro ho fatto? (Porge
l’orecchio al cielo) Non devo spingerlo al suicidio? Ma lui…(Brontolio di tuono)
Capisco. (Ad Aroldo) Devi cercare un’altra soluzione.
AROLDO – (Alludendo al cielo) Visto che siete in buoni rapporti, perché non
provate a chiedere quale potrebbe essere un’altra soluzione?
TORQUATO – Ma cos’hai capito? Io non sono in grado di chiedergli proprio nulla.
Ha già fatto troppo, e lo ringrazio, a concedermi il permesso per venire qua. Ma
se tiro troppo la corda, potrei trovarmi in quattro e quattr’otto a spalare
carbone sotto le caldaie della pece bollente.
AROLDO – (Dopo una breve pausa) Sapete che vi trovo quasi simpatico?
TORQUATO – Vorrei vedere! Anche se sei un po’ squinternato, sei pur sempre un
Torrisi. Anche se pare impossibile, nelle tue vene dovrebbe scorrere il mio
stesso sangue.
AROLDO – Posso offrirvi qualcosa da bere?
TORQUATO – E dove me lo metterei?
AROLDO – Eh, già…Voi siete qui, ma è come se non ci foste.
TORQUATO – Per gli altri non ci sono, ma per te ci sono, eccome!
AROLDO – Cosa pensate di fare?
TORQUATO – Non ho ancora deciso. Devo comunque impedirti di vendere questo
palazzo.
AROLDO – Non capite che se non lo vendo, non mi resta che spararmi?
TORQUATO – Tu vuoi venderlo per pagare la villeggiatura a quelle due che erano
qui prima di me.
AROLDO – Voi siete di un altro secolo, certe cose non potete capirle. Questo
sarebbe il più bell’affare della mia vita.
TORQUATO – E tu giudichi un buon affare vendere un palazzo per sperperare i
soldi con le donne?
AROLDO – Ma allora non sapete tutto! Una di quelle due donne è la mia fidanzata
e l’altra è sua madre.
TORQUATO – Questo l’avevo capito anche senza che tu mi facessi da interprete.
AROLDO – Se la mamma della mia fidanzata sapesse che sono in bolletta, il
matrimonio andrebbe a monte.
TORQUATO – E sarebbe una grande disgrazia?
AROLDO – Certo che sarebbe una disgrazia! Col matrimonio, la mia fidanzata mi
porterebbe in dote metà del capitale di sua madre. Capite perché ho bisogno di
fare il brillante ancora per un po’ di tempo?
TORQUATO – Ma la vecchia quanto è ricca?
AROLDO – Più di quanto possiate immaginare:
TORQUATO – E tu credi che con la ghigna che si ritrova ti lascerebbe mettere le
mani su una parte del suo capitale? Dammi retta, lascia perdere.
AROLDO – Quando sua figlia sarà mia moglie, non potrà negarle la sua parte di
eredità. E poi, i soldi per lei non sono il massimo della vita. A lei interessa
soltanto che sua figlia diventi contessa. E’ questa la sua grande aspirazione.
TORQUATO – Fossi in te, non ne sarei tanto sicuro.
AROLDO – Per favore, ho bisogno soltanto di un po’ di tempo per sistemare le
cose a modo mio.
TORQUATO – Palazzo Torrisi non si tocca.
(Entra Francesco che fa strada a Bellocchio)
BELLOCCHIO- Signor conte…
AROLDO – Giusto lei…
BELLOCCHIO – Sempre agli ordini, signor conte. Per me è un onore servirla.
AROLDO – (A Francesco) Una bottiglia con due bicchieri. (Francesco esce)
IBELLOCCHIO – Questo è un buon inizio.
AROLDO – S’accomodi.
BELLOCCHIO – (Va per sedersi, Torquato gli leva la sedia da sotto ed egli
ruzzola per terra) Porca vacca!
AROLDO (A Torquato) Ma cosa fate?
BELLOCCHIO. – (Credendo che Aroldo si sia rivolto a lui) Che ne so? Mi sembrava
che la sedia…
TORQUATO – Tu fai quello che ti pare? E io faccio altrettanto.
AROLDO – (Sempre a Torquato) Dovreste vergognarvi.
BELLOCCHIO – Ha ragione, signor conte, ma le giuro che non so proprio come possa
essere successo.
AROLDO – Non parlo con lei.
BELLOCCHIO – Ah, no? E con chi allora?
AROLDO – Parlo con chi…Lasciamo perdere. Si sieda. (A Torquato) E lei la smetta,
intesi?
BELLOCCHIO – (Si siede, tenendo ben stretta la sedia e brontolando far sé) Azzo,
com’è arrabbiato. Sembrava un buon inizio, invece…
AROLDO – Dunque, vi ho mandato a chiamare per un affare.
(Entra Francesco, posa sulla tavola bottiglia e bicchieri)
FRANCESCO - Ha ancora bisogno di me, signor conte?
AROLDO – Se ho bisogno ti chiamo. Vai pure.
(Francesco esce)
BELLOCCHIO – Stava dicendo, signor conte?
AROLDO – (Versa il vino nei bicchieri) Ho una proposta da farvi.
BELLOCCHIO – Trattare affari con il signor conte, per me è sempre un piacere.
TORQUATO – Ci credo. E’ come rubare caramelle a un bambino.
AROLDO – (A Torquato) Volete smetterla, per favore?
BELLOCCHIO – Perché, cos’ho detto di male?
AROLDO – Lasci perdere. Andiamo avanti. (L’impresario si guarda intorno con
circospezione. Torquato ne approfitta per prendere il suo bicchiere e vuotarlo
dentro un vaso) Ma no, andiamo…Queste sono cose senza senso.
BELLOCCHIO – Le chiedo scusa, signor conte, ma ho l’impressione che ci sia
qualcosa che non va. (Va per bere e si accorge che il bicchiere è vuoto) Non
sembra anche a lei?
AROLDO – (Imbarazzato) Ma no, perché? (Gli riempie di nuovo il bicchiere)
BELLOCCHIO – (Quasi fra sé) Sarà, ma a me tutte queste stramberie m’hanno messo
un freddo nelle ossa…
AROLDO - Senta, non dia tanta importanza a tutte queste sciocchezze. Guardi me,
non sono forse tranquillo?
BELLOCCHIO – Sinceramente, ho l’impressione che anche lei…(Torquato alza un dito
e una larga fetta di calcinaccio cade alle spalle dell’impresario. Mentre questi
si gira spaventato, Torquato prende il suo bicchiere e lo vuota di nuovo).
AROLDO – (A Torquato) Ancora? Ma se volete la mia morte perché non dirlo chiaro
e tondo?
BELLOCCHIO – Ma signor conte! Io vorrei la sua morte? Guardi che il calcinaccio
mica l’ho fatto cadere io.
AROLDO – Lo so, lo so che non siete stato voi.
BELLOCCHIO – E chi sarebbe stato, allora?
AROLDO – Se ve lo dicessi non mi credereste.
BELLOCCHIO – Ma lei me lo dica. Non credo di essere poi così stupido.
AROLDO – Guardate il vostro bicchiere.
BELLOCCHIO – (Controlla) E’ vuoto per la seconda volta e sono certo che lei l’ha
riempito due volte.
AROLDO – L’ha vuotato lui.
BELLOCCHIO – (Dopo aver panoramicato con lo sguardo per la stanza) Se permette,
signor conte, sono certo che qua dentro siamo soli, lei ed io.
AROLDO – Magari! Se fossimo soli, avremmo già concluso l’affare.
TORQUATO – La vuoi capire, testa di legno, che questo sarebbe un altro dei tuoi
affari sballati?
AROLDO – Questo lo dite voi.
BELLOCCHIO – Mi scusi, cos’avrei detto?
TORQUATO – Sei completamente fuori di testa.
AROLDO – Voi sostenete che non è un affare soltanto perché siete morbosamente
attaccato a questo rudere.
BELLOCCHIO – (Timidamente) Signor conte…
TORQUATO – Innanzi tutto ti proibisco di chiamare rudere questo palazzo.
AROLDO - Per vostra informazione, lo chiamo come mi pare.
TORQUATO - Ma non capisci che lui ti prenderebbe alla gola e ti darebbe due
lire? Sai bene che tipo è. Non è la prima volta che gli vendi roba mia.
AROLDO – Roba vostra? Per favore, lasciamo perdere… (L’impresario tenta di
sgattaiolare fuori della porta, Aroldo lo ferma) E voi dov’è che volete andare?
BELLOCCHIO – Visto che oggi è tanto impegnato, non sarebbe meglio se ci
vedessimo, con più calma, un altro giorno?
AROLDO – Voi non vi muovete di qui finché non avremo combinato il nostro affare.
BELLOCCHIO – Ma che fretta c’è? Quello che non facciamo oggi, possiamo sempre
farlo domani.
AROLDO – Ma come? Desiderate questo palazzo da tanto tempo, ed ora che è
arrivato il momento di comprarlo, non lo volete?
BELLOCCHIO – Lei sa benissimo, signor conte, che sugli affari non ci ho mai
sputato sopra. Però ho l’impressione che oggi non sia proprio il caso.
AROLDO – Perché, cosa c’è che non va?
BELLOCCHIO – Io glielo dico, signor conte, però non vorrei si offendesse. E’
sicuro di sentirsi bene?
AROLDO – Mai stato meglio. Ma lei non deve preoccuparsi, se c’è qualcosa che non
capisce, sorvoli, lasci perdere. Qui è tutto sotto controllo. Adesso si sieda e
beva un bel bicchiere di questo ottimo vino. (Gli versa da bere)
BELLOCCHIO – Se è possibile. Sembra che oggi sia molto difficile bere un
bicchiere in santa pace. (Appena Aroldo ha versato, afferra il bicchiere e
tracanna tutto d’un fiato).
AROLDO – Visto? Semplice, no?
BELLOCCHIO – Speriamo che duri.
AROLDO – Dunque, questo palazzo è in vendita.
BELLOCCHIO – Ed io sono disposto a comprarlo.
AROLDO – Se ricordo bene, una volta mi faceste un’offerta.
BELLOCCHIO – (Con aria professionale) Una volta, signor conte, è l’inizio di una
favola.
AROLDO – Non vorrete rinunciare, spero.
TORQUATO – Certo che finge di voler rinunciare, ha capito che sei con l’acqua
alla gola.
BELLOCCHIO – Vede, signor conte, un palazzo non è una botte di vino, che più
invecchia, più il prezzo aumenta. Qua oramai ci sono soltanto macerie.
AROLDO – Macerie? Ma… e l’area?
BELLOCCHIO – Le pagherò giusto l’area, il palazzo non ha alcun valore. E’ un
rudere da demolire.
TORQUATO – (Con un salto) Da demolire? Hai capito che cosa intende fare? Vuol
comprare per pochi soldi e poi distruggere tutto. Questo supera ogni limite.
Credevo acqua, non tempesta!
AROLDO – Ma state zitto!
BELLOCCHIO – Ci risiamo.
TORQUATO – E tu avresti il coraggio di lasciar demolire il palazzo dei tuoi
antenati? Ma dov’è finita la tua dignità?
AROLDO – Senza soldi, la dignità vale poco.
BELLOCCHIO – Dice bene, signor conte. E’ la sacrosanta verità. (Fra sé) Ma con
chi starà parlando?
TORQUATO – Sei la vergogna dei Torrisi. Venti generazioni di grandi uomini
buttate nella latrina. La nostra casata ha dato al mondo due Papi e tre
Gonfalonieri.
AROLDO – (Annoiato) Lo so, lo so…
TORQUATO – E sai pure che in una di queste stanze ha dormito Garibaldi?
AROLDO – Sai che novità! Garibaldi ha dormito dappertutto, sembra non abbia
fatto altro che dormire. In ogni palazzo patrizio c’è una stanza in cui ha
dormito Garibaldi! E comunque, quel letto l’ho venduto da un pezzo.
TORQUATO – Con la testa di rapa che ti ritrovi, saresti capace di vendere anche
la tomba di tua madre.
AROLDO – (All’impresario) Allora, qual è la vostra offerta?
BELLOCCHIO – Ma, così, tutt’a un tratto…Avrei bisogno di pensarci su…
AROLDO – Vi avverto che non ho tempo da perdere.
TORQUATO – Guarda Aroldo che questo è un affare che non te lo lascio fare.
AROLDO – (All’impresario) Su, decidetevi, prima che ci ripensi. Oppure preferite
che l’affare lo faccia con qualcun altro?
BELLOCCHIO – Ma no, signor conte. Perché vuol mettere in mezzo altre persone?
Lei ed io ci conosciamo bene, abbiamo fatto insieme altri affari, no? Posso
assicurarle che il prezzo che posso darle io, non glielo può dare nessun altro.
Però…mi sembra che potremmo parlarne in un altro momento…con più calma.
TORQUATO – Ho deciso, gli spezzo le gambe. Così, palazzo Torrisi lo vedrà
soltanto in cartolina. (La frase di Torquato provoca un brontolio di tuono).
BELLOCCHIO – Tuona. Devo andare, sono senza ombrello.
TORQUATO – (Si rivolge al cielo) Cos’ho detto ancora che non va?...Ah, non posso
fare male a nessuno? Scherzi, si, ma non del male. Pazienza, se non posso fare
altro…
BELLOCCHIO – (Ad Aroldo, che è sopra pensiero) Signor conte…devo proprio andare,
tra poco comincerà a piovere.
AROLDO – A piovere? Ma non vedete che sereno?
BELLOCCHIO – Però…non l’ha sentito il tuono?
AROLDO – Ma che tuono e tuono? E’ lui che fa tuonare.
BELLOCCHIO – E chi sarebbe…sempre quello di prima?
AROLDO – E chi, se no? Voi non potete vederlo, ma io lo vedo bene.
BELLOCCHIO – Ma…chi sarebbe costui?
AROLDO – Lasci perdere.
BELLOCCHIO – E’ uno che può far tuonare tutte le volte che vuole?
AROLDO – Sembra proprio di si.
BELLOCCHIO – Con uno così, io non voglio aver nulla a che fare. (Si alza)
AROLDO – Vi avverto: se ve ne andate, il palazzo lo vendo a qualcun altro.
BELLOCCHIO – Lo venda al suo amico, quello che può far tuonare tutte le volte
che vuole. La saluto, signor conte. (Esce in fretta).
AROLDO – (A Torquato)Ora sarete pur contento.
TORQUATO – Vincere una battaglia, non significa vincere la guerra.
AROLDO – Cioè?
TORQUATO – Visto come la pensi, non credo che il mio lavoro sia terminato.
AROLDO – Avete intezione di restare ancora qua?
TORQUATO – A meno che…tu non voglia venire di là con me.
(Tuono)
AROLDO – (Al cielo) Tranquillo, non ho alcuna intenzione di venire di là di mia
volontà. Vado dove va il mio treno e non penso nemmeno per sogno di scendere in
qualche stazione intermedia. Anche se in questo momento, le cose per me si sono
messe molto male. (A Torquato) Ve lo chiedo per favore, lasciatemi vendere
questo palazzo.
TORQUATO – Nemmeno se piangi in greco.
AROLDO – Come ve lo devo dire che non ho più alcuna risorsa? (Rovescia le tasche
dei pantaloni) Vedete? Non ho una lira!
TORQUATO – E hai promesso a quelle due “signore” di portarle in villeggiatura?
AROLDO – Se conoscessero la verità!...
FRANCESCO – (Che durante questo dialogo fra Aroldo e Torquato ha fatto capolino
da una porta, ora si decide ad entrare) Signor conte…
AROLDO – Che c’è?
FRANCESCO – Mi scusi signor conte, ma da quando ha preso il vizio di parlare da
solo?
AROLDO – Che cosa ne diresti, se ti dicessi che sto conversando con il nonno di
mio nonno?
FRANCESCO – Devo proprio?
AROLDO – Certo che devi!
FRANCESCO – Direi…che mi sembra pronto per il manicomio.
AROLDO – Ah, è questo che pensi? Bene, ora ti darò una prova. (A Torquato)
Forza, fate tuonare un’altra volta.
TORQUATO – Guarda che non sono io che fa tuonare, ma…(Indica il soffitto)
AROLDO – Allora, fate qualche altra cosa… Fate cadere quel vaso là.
TORQUATO – Questo lo posso fare. (Si avvicina al vaso)
AROLDO – (A Francesco) Stai bene attento, guarda quel vaso. (Torquato prende il
vaso e lo lascia cadere a terra) Hai visto? Ed ora che cosa mi dici?
(Spaventatissimo, Francesco esce in fretta) Sapete Torquato che se noi due ci
mettessimo insieme, potremmo sbalordire il mondo? (Un tuono brontola a lungo.
Aroldo si rivolge al cielo) Ho capito, ho capito, era soltanto un’idea. Non si
può più nemmeno scherzare?
Fine del Primo Atto
Atto Secondo
(Stessa scena. Francesco aiuta Aroldo a vestirsi)
FRANCESCO – Quindi, se ho capito bene, il signor conte Torquato, dall’aldilà è
venuto di qua per impedire a lei, signor conte, di vendere questo palazzo.
AROLDO – Sembra proprio di si.
FRANCESCO – Se lei permette, signor conte, temo di avere molti dubbi in
proposito.
AROLDO – Non hai visto con i tuoi occhi cos’è capace di fare? Hai forse
dimenticato che fine ha fatto quel vaso?
FRANCESCO – Da ieri mi chiedo come sia potuto accadere.
AROLDO – E questo è niente. Devi sentire cosa succede se mi scappa una parola di
traverso in sua presenza. Scatena dei tuoni da fine del mondo.
FRANCESCO – Sinceramente, signor conte, se queste cose me le avesse raccontate
qualcun altro, avrei chiamato immediatamente la croce rossa.
AROLDO – Ma io domando e dico: proprio a me doveva capitare? Lui se la suona e
se la fischia, come fosse il padrone di casa. Ed io devo sottostare ai suoi
voleri.
FRANCESCO – Ma…signor conte! Sta parlando di un fantasma, come di una persona
viva!
AROLDO – E’ questo il punto. Non mi sembra un fantasma.
FRANCESCO – Signor conte! E’ una persona morta da più di cento anni!
AROLDO – E’ vero, ma…Come posso dire?...Non mi dà assolutamente l’impressione di
essere morto. Parla come me e te…E sembra anche abbastanza in salute.
FRACESCO – Sarei pur curioso di vederlo.
AROLDO – E’ sparito da ieri.
FRANCESCO – E dov’è andato?
AROLDO – Come faccio a saperlo? So solo che da me non si fa più vedere. Però
sono certo che mi tiene d’occhio. Ti è mai capitato di sentirti guardato anche
se sei solo? E’ la sensazione che provo io. E’ come se non fossi mai solo.
FRANCESCO – Però se non lo vede…
AROLDO – Non lo vedo…ma lo sento.
FRANCESCO – Non potrebbe essere una sua impressione?
AROLDO – Come si spiega allora che con Bellocchio non posso più comunicare?
FRANCES CO – Come sarebbe a dire?
AROLDO – Sarebbe a dire che posso telefonare a chiunque, tranne che a
Bellocchio. Quando faccio il suo numero, il telefono smette di funzionare.
FRANCESCO – Ma no!
AROLDO – Guarda.(Alza la cornetta del telefono forma un numero, poi la porge a
Francesco) Visto? Non da segni di vita. E’ bloccato.
FRANCESCO – E se provassi io, signor conte? Siccome non sono parte in causa…
Voglio dire che non faccio parte del suo parentado, per cui potrei chiamare
Belloccio anche solo per fare quattro chiacchiere. Che cosa ne sa lui? (Intende
Torquato).
AROLDO – Scommettiamo che non funziona nemmeno con te? Comunque, prova, il
numero di Bellocchio è lì, accanto al telefono.
FRANCESCO – (Forma il numero, attende poi riattacca. Riforma il numero, attende
di nuovo e poi riattacca) Permette che sbalordisca, signor conte?
AROLDO – Naturalmente.
FRANCESCO – Ma siamo certi che il conte Torquato non sia nascosto dove lei non
può vederlo?
AROLDO – Per quale motivo? Fa quello che vuole anche quando lo vedo.
FRANCESCO – Ma che mistero è mai questo? Ha provato a chiamarlo?
AROLDO – Ma che dici?
FRANCESCO – (Prima con un filo di voce, poi sempre più forte) Signor
conte…Signor conte… Conte Torquato…Se c’è, perché non si fa vedere?
AROLDO – Lascia perdere…
FRANCESCO – E se fosse andato via…per sempre?
AROLDO – Lasciando il telefono bloccato?
FRANCESCO – Potrebbe essersene dimenticato. Capirà, alla sua età…E se gli fosse
scaduto il permesso e l’avessero chiamato di là con urgenza? (Pausa) In ogni
caso, signor conte, tutto ciò non significa che lei non possa parlare con
Bellocchio. Perché non fa una prova?
AROLDO – Che prova?
FRANCESCO – Potrebbe andare lei a casa di Bellocchio.
AROLDO – Ma nemmeno per sogno. Quello come ha bloccato il telefono, con un
semplice gesto potrebbe spezzarmi una gamba.
FRANCESCO – Allora, con il suo permesso, potrei andare io da Bellocchio. Ci sono
andato tanto volte e non m’è mai successo niente.
AROLDO – Ma prima, in giro non c’era (allusivo) chi sappiamo noi.
FRANCESCO – Chi non risica non rosica, signor conte.
AROLDO – E tu cos’avresti da rosicchiare?
FRANCESCO – Se il suo affare con Bellocchio andasse a buon fine…ci sarebbero
anche i miei arretrati.
AROLDO - Fa come credi, vai pure. Ma sono convinto che Bellocchio intenda stare
per qualche tempo lontano da questa casa.
FRANCESCO – Non credo che quello sia il tipo da lasciarsi scappare un affare
vantaggioso.
AROLDO – E come pensi di convincerlo?
FRANCESCO – Qualcosa inventerò, signor conte. Una bugia detta bene è sempre più
credibile di una verità detta male.
(Campanello d’ingresso)
AROLDO – E questo chi può essere?
FRANCESCO – Bellocchio, chi altri? Si sarà detto: fantasma o non fantasma, un
affare è sempre un affare.
AROLDO – Bene. Allora sai che cosa faccio? Se è Bellocchio, ti aumento lo
stipendio, ma se non è Bellocchio te lo diminuisco.
FRANCESCO – Mi perdoni, signor conte, di quale stipendio parla? Di quello che mi
avrebbe dato se mi avesse pagato, oppure di quello che mi darà se l’affare con
Bellocchio andasse in porto? (Altro squillo) Vado?
AROLDO – Vai, vai… Ma ricordati, non ci sono per nessuno, tranne che per
Bellocchio. (Francesco esce e ritorna con Giada) Giada, amore! (I due si
abbracciano. A Francesco) Tu vai pure dove sai e fai tutto il possibile per far
venire qua quell’individuo. (Francesco si avvia, Aroldo lo ferma) E tienimi in
mente che ti devo diminuire lo stipendio.
FRANCESCO – (Quasi fra sé) Come farà a diminuirmi lo stipendio se sono anni che
non vedo una lira. (Esce)
GIADA – Amore, m’hai fatto stare in pensiero, sai? Sarei venuta prima, ma la
mamma sembra lo faccia apposta a non lasciarmi mai sola. Cosa c’è, caro? L’altro
giorno ti ho sentito…strano…si, diverso…preoccupato. C’è qualcosa che non va?
AROLDO – Ma no. Cosa ti sei messa in quella tua testolina? Ti assicuro che la
tua è un’impressione sbagliata.
GIADA – Non mentirmi, Aroldo. C’è qualcosa che ti turba, lo sento. Non sei del
tuo solito umore, ne sono certa. Non devi farmi soffrire.
AROLDO – Io, farti soffrire? Ma Giada…io ti amo!
GIADA – Anch’io ti amo tanto…(Aroldo la bacia) Anche se non mi stimi degna delle
tue confidenze. E mi fai sentire una piccola donna.
AROLDO – Ma che dici? Tu, una piccola donna?
GIADA – Si, Aroldo. Una donna immatura, frivola, alla quale si possono dire solo
cose piacevoli e tacere quelle spiacevoli. E’ un ruolo che non accetto. La vita
in comune la intendo come una comunione di pensieri: tu sai tutto di me, io devo
sapere tutto di te. Avere fiducia in una persona non vuol dire amarla, però
amare significa anche avere fiducia, non credi?
AROLDO – Vieni qui, Giada, siediti. (Siedono sul divano) E’ vero, ho qualche
preoccupazione.
GIADA – Lo sentivo, non potevo essermi sbagliata!
AROLDO – Ora ascoltami.
GIADA – Certo caro, certo. Prima però voglio ripeterti che ti amo tanto. (Si
baciano) Si tratta di un’altra donna?
AROLDO – Ma cosa vai a pensare?
GIADA – Allora, dimmi tutto.
AROLDO – Non è facile.
GIADA – Ora però non sei più solo, qualsiasi problema lo affronteremo insieme.
La frase di rito è: sarò al tuo fianco nella buona e nella cattiva sorte, finché
morte non ci separi.
AROLDO – Giada…sono completamente rovinato.
GIADA – Che significa?
AROLDO – Quello che ho detto: non sono padrone più di nulla.
GIADA – Tu scherzi.
AROLDO – No, Giada, è la pura e sola verità. Tutto ciò che possedevo è svanito,
non c’è più.
GIADA – Come sarebbe a dire svanito? I sogni svaniscono, non le cose reali.
AROLDO – Ti prego, non farne una questione di termini. Posso spiegarti tutto. Se
vuoi posso raccontarti come mai il patrimonio dei conti Torrisi non esiste più,
o meglio, è finito in altre mani.
GIADA – Non è possibile.
AROLDO – Questo è tutto.
GIADA – Giuralo.
AROLDO – Cosa cambierebbe?
GIADA – Giuralo!
AROLDO – Potrei giurarlo su ciò che vuoi, ma non cambierebbe nulla. E’ la
triste, pura e semplice verità.
GIADA – E’ terribile.
AROLDO – Naturalmente.
GIADA – Così…da un giorno all’altro?
AROLDO – Non proprio da un giorno all’altro. Sta pur certa che per dilapidare un
patrimonio occorre meno tempo di quanto non si creda. Tutto sta nel cominciare,
il resto è una discesa talmente veloce che non consente soste intermedie. Il
denaro ti scivola tra le dita come una manciata di sabbia, ti accorgi che ne hai
sempre meno e non puoi far nulla per trattenerlo.
GIADA – Sono sbalordita. Scusa Aroldo, ma questa da te proprio non me la sarei
mai aspettata. Tutto avrei potuto immaginare, ma non un disastro di queste
dimensioni. Ma come? In tutti questi anni mai un cenno, una parola,che so?,
un’allusione… Potevi dirmi “Guarda Giada che le cose stanno così e così”.
Insieme avremmo potuto cercare un rimedio, mettere un freno a questa follia
prima che fosse troppo tardi. Macché! Tutto bene, tutto a meraviglia! Poi,
improvvisamente mi tiri un colpo basso. (Prevede un’obiezione) Si Aroldo, peggio
di un pugno nello stomaco. Ammetterai che possa fare un certo effetto, sentirsi
dire da uno come te che tutt’a un tratto è diventato povero.
AROLDO – Ora sai come stanno le cose.
GIADA – Bella consolazione! (Dopo una pausa) E adesso, cosa intendi fare?
AROLDO – L’unica proprietà che m’è rimasta è questo palazzo. Se mi sarà
possibile lo venderò, poi si vedrà.
GIADA – Praticamente stai affogando e non hai nessuna possibilità di salvarti, è
così?
AROLDO – Più o meno.
GIADA – E il nostro matrimonio?
AROLDO –(Tenta di sdrammatizzare)Vivremo una romantica storia d’amore: due cuori
e una capanna.
GIADA – Ti prego, non scherzare.
AROLDO – Credimi Giada, non avrei voluto darti questo dispiacere.
GIADA – Avresti dovuto pensarci prima.
AROLDO – Non avrei dovuto dirti nulla, visto coma l’hai presa.
GIADA – E come avrei dovuto prenderla? Credi sia divertente trovarsi
improvvisamente fra le mani i rottami del proprio futuro?
AROLDO – Non vuoi aiutarmi a cercare un’altra soluzione?
GIADA – Spiacente, non ho la vocazione dell’assistente sociale.
AROLDO – Maledizione! Vuoi dirmi almeno cosa dovrei fare?
GIADA – Non alzare la voce con me, sai. Non ti permettere di alzare la voce con
me. Non te l’ho detto io di cacciarti in questo imbroglio. Sei uno sventato, un
irresponsabile…
AROLDO – Ma Giada, cosa ci sta accadendo? In pochi minuti siamo passati dalle
parole d’amore agli insulti, dalle carezze agli artigli. E’ questo che vogliamo,
ferirci a vicenda? Non ti sembra tutto piuttosto squallido?
GIADA – E’ l’argomento che è squallido.
AROLDO – Se ti dà tanta pena parlarne, chiudiamolo questo maledetto argomento e
parliamo d’altro.
GIADA – E fare finta che nulla sia accaduto? Penso che d’ora in poi, per noi
sarà molto difficile parlare d’altro.
AROLDO – Non credi che basterebbe un po’ di reciproca buona volontà?
GIADA – Ci vorrebbe ben altro.
AROLDO – Cos’è che ci vorrebbe? Pietà, comprensione, amore?...Sino a pochi
minuti fa sembravi traboccare di questi sentimenti.
GIADA – Non è onesto da parte tua rivoltarmi contro le mie parole. Le
circostanze non sono più quelle di prima, sono cambiate.
AROLDO – Tu sei cambiata.
GIADA – Tutti siamo cambiati. Niente oròai sarà come prima.
AROLDO – (Dopo una pausa) E’ tutto?
GIADA – Non lo so…sono frastornata… Ho bisogno di pensarci, prima di prendere
qualsiasi decisione.
AROLDO – E’ molto triste quello che stai dicendo.
GIADA – Non so che farci.
AROLDO – Bene. Aspetterò.
GIADA – Cosa?
AROLDO – Che tu decida. Non vedo che altro potrei fare.
GIADA – Mi dispiace.
AROLDO – Dispiace anche a me. Ciao, Giada. (La bacia su una guancia. Giada esce
in fretta, soffiandosi il naso)
FRANCESCO – (Entrando incrocia Giada) Buongiorno…(Non ricevendo risposta guarda
stupito Aroldo)
AROLDO – (Impaziente) Allora, l’hai trovato si o no?
FRANCESCO – E’ qui fuori…
AROLDO – Si può sapere cosa aspetti a farlo venire avanti?
(Francesco esce e lascia entrare Bellocchio)
BELLOCCHIO – La riverisco, signor conte. Ha visto? Il tempo, anche se poco,
mette a posto molte cose.
AROLDO – Meno chiacchiere Bellocchio. Si sieda e vediamo di concludere alla
svelta.
BELLOCCHIO – E quello che spero anch’io. Si sente bene oggi, signor conte?
AROLDO – Perché, dovrei forse sentirmi male?
BELLOCCHIO – Beh, l’altro giorno…Comunque il suo cameriere mi ha spegato tutto.
Stia tranquillo, signor conte, di questa faccenda dalla mia bocca non uscirà
nemmeno una parola. Per certe cose, sono una tomba.
AROLDO – Ma di che cosa sta parlando? Di quale faccenda? Su che cosa lei
dovrebbe mantenere il segreto?
BELLOCCHIO – Insomma… Diciamo che non sarebbe bello se si sapesse in giro che
lei…come posso dire?... Si,ecco, che lei ogni tanto dà i numeri.
AROLDO – Io darei i numeri? Ma lei, per caso, m’ha preso per matto?
BELLOCCHIO – Oddio, matto…Matto è una parola grossa. Non si può considerare
matto uno il cui cervello, qualche volta giri a vuoto. Tutt’al più si potrebbe
dire che è…svagato, che ha altro per la testa…Ma non deve preoccuparsi, signor
conte. E’ la vita che conduciamo che presto o tardi ci condurrà a tutti a
sragionare.
AROLDO – Ma sta scherzando?
BELLOCCHIO – La capisco sa, signor conte. La capisco eccome! Sapesse quante
persone incontro con il mio lavoro, che parlano a sproposito, che capiscono
fischi per fiaschi…Mi scusi, signor conte, non volevo dire che lei…
AROLDO – Quindi, secondo lei, sarei un tipo…stralunato! Ma come si permette? Ha
dimenticato chi sono io? Ma oggi cos’è, la festa di Santa Offesa?
BELLOCCHIO – Fa male a prendersela con me, signor conte. Io ho ripetuto soltanto
quello che mi ha detto il suo servitore. Di mio non aggiunto nemmeno una
virgola.
AROLDO – Ma bene, benissimo! Così, il mio maggiordomo vi avrebbe detto…
BELLOCCHIO - …di avere pazienza, di cercare di comprendere…
AROLDO – Francesco!
FRANCESCO – (Appare sulla porta) Signor conte…
AROLDO – Ritienti licenziato! (Francesco scompare. A Bellocchio) E voi…cerchiamo
di concludere alla svelta, prima che mi prenda voglia di prendervi a calci nel
sedere!
BELLOCCHIO – Ma signor conte!...
AROLDO – Signor conte, un cappero! Forza, quanto avete intenzione di pagare per
tutta la baracca?
BELLOCCHIO – (Trae dalla tasca un foglio di carta) Ecco, signor conte, mi sono
permesso di fare un conticino…Ho buttato giù qualche cifretta…
AROLDO – (Gli toglie dalle mani il foglio e lo osserva) E questa sarebbe la
cifra?
BELLOCCHIO – Sull’unghia, signor conte, denaro contante e sonante.
AROLDO – (Getta il foglio sul tavolo) E il matto sarei io? No, il matto siete
voi.
BELLOCCHIO – Questo è ancora tutto da vedere, signor conte.
AROLDO – Lui me l’aveva detto che mi avreste preso per la gola, che mi avreste
offerto un pezzo di pane. E io non volevo credergli!
BELLOCCHIO – Un pezzo di pane? Mi scusi, signor conte, ma a lei quanto lo fanno
pagare il pane al chilo?
AROLDO – Ma vogliamo scherzare? Lei crede davvero di poter comprare una
proprietà come questa, per poche lire?
BELLOCCHIO – A lei , abituato a maneggiare milioni come fossero noccioline,
sembreranno poche lire. Per me sono una montagna di quattrini. E’ vero che al
giorno d’oggi la lira non vale un piffero, ma i soldi sono sempre soldi.
AROLDO – Senta, facciamo così: la proprietà la facciamo stimare e il prezzo lo
farà un perito. Così nessuno dei due avrà più nulla da obiettare.
BELLOCCHIO – Ma perché vuole farla stimare? Per spendere altri soldi in un
perito, che magari non capisce niente? Non siamo in grado di prendere da soli
certe decisioni? La stima è già fatta:il palazzo in sé non vale nulla, l’area,
con quei soldi è più che pagata. Non le sembra che le sia venuto abbastanza
incontro?
AROLDO – Si, certo, m’è venuto incontro…ma con il fucile spianato.
BELLOCCHIO – Perché dice così, signor conte? La mia mi sembra una proposta
onesta.
AROLDO – Se lei una rapina la chiama proposta onesta…
BELLOCCHIO – Perché mi offende, signor conte? Faccio il costruttore, non il
brigante. Compro soltanto quello che posso pagare. Certo che anch’io cerco di
fare i miei affari, come tutti, e non credo sia un delitto. Vede, signor conte,
un affare è una coperta troppo corta per coprire due persone: se la tiro dalla
mia parte, io mi copro ma lei resta al freddo; mentre se lei la tira dalla sua
parte, si copre ma al freddo ci resto io. Quindi, come si può fare? Cerchiamo di
coprirci un poco entrambi, senza avere la pretesa che uno dei due resti al
freddo.
AROLDO – Ma è quello che dico io! Però, ho l’impressione che la coperta la
voglia tutta per lei.
BELLOCCHIO – Questo proprio non lo deve dire!
AROLDO – Bene. A questo punto, visto che con lei non è possibile trovare un
accordo, cercherò un altro compratore. La saluto e stia bene.
BELLOCCHIO – Ma è mai possibile che lei, mi scusi signor conte, debba sempre
prendere gli spilli per la punta? Non è possibile ragionare? E’ un’ora che siamo
qui a discutere, però lei ancora non mi ha detto qual è il suo prezzo. La mia
offerta l’ho fatta, lei mi faccia la sua e poi vedremo.
AROLDO – Siamo troppo distanti, Bellocchio. Meglio lasciar perdere.
BELLOCCHIO – Ma lei dica la sua cifra.
AROLDO – Un prezzo onesto sarebbe il doppio di quanto offerto da lei.
BELLOCCHIO – Il doppio? Eh, si, che siamo distanti! Lei vorrebbe la luna nel
pozzo, ma io proprio, con tutta la mia buona volontà, non posso dargliela. (Si
alza) La saluto, signor conte.
(Il solito fluttuare di tende ed entra Torquato. Aroldo ha un moto di sorpresa)
AROLDO – (A Bellocchio)Un momento, non abbiate fretta. Qual è la vostra ultima
offerta?
BELLOCCHIO – (Scrive qualcosa su un foglio) Questa.
AROLDO – (Osserva la cifra, storce la bocca, poi decide) In contanti?
BELLOCCHIO – Contanti e sonanti.
AROLDO – (Si rivolge a Bellocchio a voce alta, perché Torquato intenda) Allora,
lei prepari il contratto e me lo porti più presto che può per la firma.
BELLOCCHIO – Finalmente abbiamo trovato un’intesa! (Vede che Aroldo guarda
dietro le sue spalle) Cosa c’è, signor conte? Cos’ha visto?
AROLDO – Cos’ho visto?
BELLOCCHIO – Mi sembrava…
AROLDO – Ricominciamo con le stramberie?
BELLOCCHIO – Non vorrei che lei…
AROLDO – Io ho una sola parola. Lei piuttosto…
BELLOCCHIO – Non avrò i suoi titoli, signor conte, ma sono una persona seria.
Per me una parola vale un contratto.
AROLDO – Lei non pensi ad altro, pensi solo a preparare il contratto. Il resto
non ha alcuna importanza. Più presto chiudiamo e più piacere ho. E ricordi: in
una mano il contratto, nell’altra il denaro. Altrimenti niente firma.
BELLOCCHIO – Non dubiti, signor conte, la sua volontà per me è legge.
Arrivederla.
AROLDO – (Gli allunga la mano) La saluto Bellocchio e stia bene. (Bellocchio gli
stringe la mano con calore ed esce. A Torquato) E voi…non dite nulla?
TORQUATO – Cosa posso dirti? Sai come la penso, hai voluto fare di testa tua,
ora staremo a vedere come andrà a finire.
AROLDO – Chissà perché, ho l’impressione che non sia finita davvero. Che sia a
causa della vostra inquietante presenza?
TORQUATO – Sarebbe questo il bene che mi vuoi? Ti ringrazio. Ed io che credevo
che saresti stato contento di vedermi.
AROLDO – Certo che sono contento di vedervi. Ma sarei stato ancora più contento
se la vostra fosse stata una visita di cortesia e non una spedizione punitiva.
TORQUATO – Che tristezza. Parenti serpenti.
AROLDO – Mi spiace di non essere stato cortese con voi, ma nemmeno voi siete
stato molto cortese con me.
TORQUATO – Ognuno fa la guerra con le armi di cui può disporre.
AROLDO – Ammetterete che non è stata una battaglia ad armi pari. (Indica il
cielo) Voi, lassù avete alleati che io non posso nemmeno immaginare.
TORQUATO – Tu però hai il vantaggio di essere vivo, che non è poco. Infatti,
questa mano l’hai vinta tu.
AROLDO – Adesso cos’avete intenzione di fare?
TORQUATO – La partita è appena cominciata. Tu gioca le tue carte e non cercare
di sbirciare le mie.
AROLDO – Ve lo chiedo per favore: lasciate le cose come stanno.
TORQUATO – Impossibile.
AROLDO – Ma cos’avrò mai fatto per meritarmi questo castigo? Non sarò uno stinco
di santo, questo è vero, ma non credo d’aver commesso più mascalzonate di altri.
Possibile che di là non abbiano nient’altro da fare che pensare alle mie
disgrazie?
TORQUATO – (Indica il cielo) Vorresti forse mettere in discussione le sue
decisioni?
AROLDO – Per l’amordidio! (Poi timidamente) Si può dire? (Torquato accenna
gravemente di si con la testa) Non è questo che intendevo dire. Certo che se
potessi parlargli di persona, spiegargli la mia situazione…
TORQUATO – Non c’è che un modo per parlargli direttamente: andare di là, come ho
fatto io.
AROLDO – E se poi non mi rimanda più di qua?
TORQUATO – Cos’è, vorresti anche una garanzia? Non esistono biglietti di andata
e ritorno per quel viaggio.
AROLDO – (Dopo una pausa) Ma voi…gli parlate direttamente?
TORQUATO – Vorrai scherzare! Noi nemmeno lo vediamo.
AROLDO – Allora, chi ve l’ha dato il permesso per venire di qua?
TORQUATO – Certe pratiche seguono un iter, una trafila come di qua. Tu parli con
uno, che parla con un altro, che a sua volta parla con un altro più
importante…finchè la tua domanda arriverà dove deve arrivare. E la risposta,
naturalmente, segue la stessa trafila. Non puoi nemmeno immaginare la burocrazia
che c’è di là. Non parliamo poi degli imbrogli.
AROLDO – Anche di là?
TORQUATO – Ma scusa, di là non ci va la stessa gente che c’è di qua?
AROLDO – Ma…io pensavo…che gli imbrogli fossero cose da vivi.
TORQUATO – Dammi retta, meglio lasciar perdere con certi discorsi. (Indica il
cielo) Potrebbero ricominciare con i tuoni.
AROLDO – (Quasi tra sé) Era da immaginarselo, dove c’entrano i preti…
TORQUATO – I preti? Cosa c’entrano i preti?
AROLDO – Ma…Ai piani alti, dove si predono le decisioni importanti…non ci sono i
preti?
TORQUATO – Qualcuno ci sarà…vuoi che non ce ne sia? (Breve pausa) Io poi ci sono
stato una sola volta, in gita, e non ho visto gran che. Comunque, un amico, uno
che se ne intende, mi ha assicurato che la maggior parte dei preti si trova dove
sono io. E molti anche nelle cantine. Per quanto ne so, nei piani alti ci sono
molti santi…molti bambini…Guarda che in Paradiso non c’è mica una grande
affollamento.
FRANCESCO (Entrando) Signor conte…
AROLDO – (A Torquato) Se fossi giornalista, questo si che sarebbe uno scoop!
FRANCESCO – E’ ritornato? (Aroldo fa cenno di si col capo) Dov’è?
AROLDO – E’ seduto su quella sedia.
FRANCESCO – E cosa fa?
AROLDO – Ti guarda.
FRANCESCO – (A Torquato, con un inchino) La riverisco, signor conte. (Ad Aroldo)
Posso parlargli anch’io?
AROLDO – Certo.
FRANCESCO – (A Torquato) Signor conte, io sono maggiordomo in questa casa da
quasi quarant’anni…
TORQUATO – Lo so.
AROLDO – (A Francesco) Ha detto che lo sa.
FRANCESCO – (Sempre a Torquato) Quindi, il signor conte, immagino saprà anche
che dopo tanti anni uno si affeziona alla casa che ha visto passare quasi tutta
la sua vita.
TORQUATO – E lo dici a me?
AROLDO – (A Francesco) Ha detto che sa anche questo.
FRANCESCO – Però vorrei far osservare al signor conte che la vita non tiene
conto quasi mai dei sentimenti delle persone. (Ad Aroldo) Dico bene, signor
conte?
AROLDO – Assolutamente.
(Torquato si alza e si sposta)
FRANCESCO – (Rivolgendosi verso il punto in cui crede si trovi ancora Torquato)
Come vadano le cose di là non lo sappiamo, ma di qua, per vivere occorrono
quattrini.Sono molto triste se penso che questo palazzo possa essere venduto,
ma, sinceramente, voglio più bene al mio padrone che a questo palazzo.
AROLDO – Guarda Francesco che non è più li.
FRANCESCO – Ah no? E dov’è?
AROLDO – Appoggiato a quel mobile là.
FRANCESCO – (A Torquato) La prego signor conte, quando si sposta avvisi.
AMELIA – (Entrando come una furia, seguita da Giada) Oh, insomma!
FRANCESCO – (Ad Aroldo) Mi perdoni, signor conte, m’ero completamente
dimenticato che le signore erano di là in attesa.
AROLDO – (Con gesto melodrammatico) Vai pure Francesco, sei licenziato.
FRANCESCO – Di nuovo?
AROLDO – E senza gli otto giorni.
(Torquato si sposta di nuovo)
FRANCESCO – (Verso il mobile, al quale crede sia ancora appoggiato Torquato) Ha
visto, signor conte? Chi fa del bene, male riceve. (Esce)
AMELIA – (allude a Francesco) Ma cosa fa, parla da solo?
AROLDO – Lasci perdere, è un male di famiglia.
AMELIA – Ora ascoltami bene, Aroldo. Che tu fossi un tipo poco raccomandabile
l’avevo capito da molto tempo. Ma non avrei mai creduto che tu fossi anche tanto
maleducato e cafone da far fare anticamera a due signore, preferendo alla loro
conversazione la compagnia di un servo rimbambito.
AROLDO – La prego di credere che si è trattato di un equivoco.
AMELIA – Punto secondo, spero ti renderai conto che il tuo comportamento nei
nostri riguardi è stato quanto meno ignobile.
TORQUATO – Se quella fosse stata mia moglie gli avrei sciolto contro i cani.
AROLDO – Di che cosa dovrei rimproverarmi, di essere stato sincero?
AMELIA – Intanto, sei stato sincero solo quando ti ha fatto comodo. E poi la
sincerità non sempre è una virtù, specialmente quando fa male ad altre persone.
La verità è che hai abusato dell’ingenuità di una figliola innocente e di una
povera vedova.
TORQUATO – (Ad Aroldo) Se non avessi venduto anche i cani, la metterei a posto
io.
AROLDO – Non crede, signora, che il male maggiore l’abbia fatto più a me stesso
che ad altri?
AMELIA – E a noi non pensi? Giada avrebbe dovuto sposare un conte.
AROLDO – Volendo può ancora farlo. Il titolo, grazieadio, mi è rimasto.
TORQUATO – L’unica cosa che non hai potuto mettere in vendita.
AMELIA – A questo punto, preferisco farle sposare un impiegato di banca.
AROLDO – Le faccio notare che in questo modo, lei non potrà vantarsi di essere
madre di una contessa.
AMELIA – (Sospira) Eh…Una rinuncia che mi farà passareparecchie notti insonni.
AROLDO – (A Giada) Tu sei d’accordo con tua madre?
GIADA – Mamma, non si potrebbe ragionare?
AMELIA – Non intendo restare un minuto di più in questa ca. (Torquato alza un
dito, cade dal soffitto un pezzo di calcinaccio) Che fra l’altro sta cadendo a
pezzi.
GIADA – Ma allora, cosa siamo venute a fare?
AMELIA – A dire al signor conte che cosa pensiamo di lui, cioè che è un
cialtrone.
(Torquato, furente, tira un moccolo tra i denti provocando un tuono)
AROLDO – (A Giada) Tu sei dello stesso parere?
(Giada china il capo in silenzio)
AMELIA – Andiamo Giada, sta per piovere. (Ad Aroldo) Io e mia figlia abbiamo il
piacere di salutarla per l’ultima volta, signor conte.
(Le due donne escono)
TORQUATO – Giuro che se fossi stato vivo, le avrei tirato il collo.
AROLDO – Sapete, Torquato? Sono curioso di vedere come questa storia andrà a
finire. Per il momento sta andando sempre peggio.
TORQUATO – Adesso non è più necessario che tu venda il palazzo. Se la signora
vorrà andare in villeggiatura, ci andrà con i suoi soldi, non con i tuoi.
AROLDO – E i mie debiti chi li paga? Voi?
TORQUATO - Vuoi dire che non è cambiato nulla?
AROLDO – A quanto pare…
TORQUATO – Sai che cosa ti dico? Se lassù mi danno il permesso, ti apro quella
zucca che hai sulle spalle, per vedere cosa c’è dentro. (Tuono formidabile. Al
cielo) E’ solo un modo di dire! (Borbotta) Non si può dir niente che quello si
arabbia subito.
Fine del Secondo Atto
Atto Terzo
(Stessa scena. Aroldo, seduto dietro un tavolo, è alle prese con un mucchio di
scartoffie. Dopo un poco chiama)
AROLDO – Francesco!
FRANCESCO – (Entrando) Signor Conte?
AROLDO – Ma quanti me n’hai dato di questi conti da pagare?
FRANCESCO – Tutti quelli che avevo, signor conte. Qualcosa non va?
AROLDO – Sono troppi. Non ce la faccio a pagarli tutti.
FRANCESCO – No?! Brutto affare.
AROLDO – Avresti dovuto avvisarmi prima.
FRANCESCO – Di che cosa avrei dovuto avvisarlo prima, signor conte? Non m’ha
sempre detto di non fargli vedere nessun conto, perché gli causavano
l’emicrania?
AROLDO – Cerca di capire, Francesco, credevo acqua non tempesta.
FRANCESCO – Il signor conte non se ne sarà accorto, ma da molto tempo la nostra
acqua è diventata tempesta. E poi, se permette, fra quei conti ne mancherebbe
ancora uno.
AROLDO – Un altro?
FRANCESCO – Volendo, ci sarebbero anche i mei stipendi arretrati.
AROLDO – Pure?
FRANCESCO – Volendo…
AROLDO – Quanti mesi?
FRANCESCO – Vorrà dire quanti anni, signor conte.
AROLDO – E’ inutile, i conti avrei dovuto farli prima di vendere. La verità è
che pensavo di usare questi soldi per il matrimonio e poi pagare tutti i miei
debiti con la dote di mia moglie. Così ho perso la moglie e il palazzo e mi
restano solo i debiti.
FRANCESCO – Ha ancora bisogno di me, signor conte?
AROLDO – No, no, va’ pure.
FRANCESCO – (Sulla porta) Non ha saputo più nulla del conte Torquato?
AROLDO – (Scuote il capo e sospira) Le disgrazie non vengono mai sole. Ho avuto
la fortuna, più unica che rara, di ricevere la visita del mio trisnonno e non ho
potuto farlo contento. Chissà con quanta rabbia sarà tornato lassù?
FRANCESCO – Pensa che se ne sia andato davvero, signor conte?
AROLDO – Temo di si. Non si fa più vedere da molti giorni. Se fosse ancora da
queste parti, stai pur tranquillo che non se ne starebbe nascosto. Vuoi sapere
una cosa? Comincio a sentirne la mancanza.
FRANCESCO – Sa, che pur non avendolo conosciuto di persona, in un certo senso mi
ci ero affezionato anch’io?
(Francesco esce. Aroldo torna ai suoi conti. Solito fluttuare di tende ed entra
Torquato. Ha l’aria triste, per un poco guarda Aroldo scuotendo il capo, poi si
siede in un angolo)
TORQUATO – Hai troppi buchi da chiudere e pochi tappi, vero Aroldo?
AROLDO – (Con un salto) Siete qua? Pensavo ve ne foste andato.
TORQUATO – Senza salutarti?
AROLDO – In fondo, a pensarci bene, non avreste avuto tutti i torti. Non è che
vi abbia trattato molto bene.
TORQUATO –Non pensarci. Abbiamo gareggiato più o meno lealmente, tu hai vinto ed
io ho perso. E’ normale che se uno vince qualcun altro perda.
AROLDO – Ma dove siete stato in questi giorni?
TORQUATO – Sono stato in giro…Non volevo arrendermi, ma ho capito che se qualche
possibilità c’era, per me era qua dentro. Fuori sono un pesce all’asciutto. Chi
vuoi che al giorno d’oggi creda a un fantasma?
AROLDO – Dovete proprio andare? Non potreste stare ancora un po’ con me?
TORQUATO – Il mio tempo è scaduto, caro Aroldo. E non ho combinato nulla.
AROLDO – Potreste trovare una scusa.
TORQUATO – Le scuse andranno bene qua, ma di là è come essere nei militari. C’è
un regolamente che va rispettato. E per chi non lo rispetta, ci sono sempre i
sotterranei.
AROLDO – Mi dispiace. Se potessi…
TORQUATO – Su questo non ho dubbi. Sei un po’ squinternato, ma in fondo non sei
cattivo. Hai fatto passi più lunghi delle tue gambe… Fai conto di essere entrato
in uno di quei grandi negozi che ci sono oggi…
AROLDO – Un supermaket.
TORQUATO – Ecco, bravo, uno di quelli. Sei entrato, hai visto tanta bella roba
negli scaffali e ne hai preso più di quanto potevi permetterti, senza pensare
che all’uscita c’è una cassiera che ti farà pagare tutto fino all’ultimo
centesimo. Ma dove hai la testa?
AROLDO – Me lo chiedeva spesso anche mio padre.
TORQUATO – Almeno avessi rimediato tutti i soldi che ti occorrono. Ma ho
l’impressione che nei tuoi conti, due più due faccia fatica a fare quattro.
AROLDO – Purtroppo…E anche stavolta, l’unico che ci ha guadagnato è stato
Bellocchio.
TORQUATO – Potrei dirti che ti avevo avvisato, ma ormai non ha più alcuna
importanza. Ora bisogna proprio che vada.
AROLDO – Ancora qualche minuto.
TORQUATO – Non vorrei che cominciasse a tuonare davvero.
AROLDO – Vorrebbe salutarvi anche Francesco.
TORQUATO – Il tuo servitore?
AROLDO – Vi si è affezionato anche lui. Lo chiamo?
TORQUATO – Chiamalo.
AROLDO – Francesco!
FRANCESCO – (Entrando) Signor Conte?
AROLDO – Se vuoi salutare il conte Torquato…
FRANCESCO – E’ tornato? Dov’è?
AROLDO – Seduto su quella sedia.
FRANCESCO – (A Torquato) Buon giorno, signor conte. Come sta?
AROLDO – Sta bene, sta bene.
FRANCESCO – (A Torquato) Posso fare qualcosa per lei?
AROLDO –Non posiamo far nulla, Francesco. Il conte Torquato è di partenza.
FRANCESCO – Se ne va…per sempre?
AROLDO – Temo proprio di si.
FRANCESCO – Mi dispiace.
AROLDO – Anch’io sono dispiaciuto. In fondo cominciavamo a star bene insieme.
FRANCESCO – (A Torquato) Allora, sa cosa le dico, signor conte? Se un giorno
dovessimo incontrarci di là, in quel posto dove lei sta ritornando, sarei felice
se volesse prendermi al suo servizio.
TORQUATO – Lo farei se fosse possibile, ma di là le cose non stanno come qua. Di
là c’è un solo padrone, tutti gli altri sono suoi servitori.
FRANCESCO – Che ha detto?
AROLDO – (Gli fa cenno di tacere. A Torquato) Anche voi?
TORQUATO – Certamente. Tutti.
(Campanello d’ingresso. Francesco esce)
AROLDO – E com’è? Meglio o peggio?
TORQUATO – Avete pur provato anche voi, qui, in Italia, con uno che comanda e
tutti gli altri devono ubbidire. (Tuono formidabile. Torquato si rivolge al
cielo) Chiedo scusa, non avevo alcuna intenzione di paragonarvi a…(Altro tuono.
Torquato brontola) Se non la smetto, quando torno mi mettono a spalare carbone
sotto le caldaie della pece bollente.
FRANCESCO – (Sulla porta) C’è Bellocchio, signor conte.
AROLDO – Fallo passare.
(Francesco esce)
TORQUATO – Meglio che me ne vada. Quello proprio non lo digerisco.
AROLDO – Ma no, ancora qualche minuto.
TORQUATO – Tanto, ormai, qua non ho nulla da fare.
(Francesco introduce Bellocchio)
BELLOCCHIO – Buon giorno, signor conte.
TORQUATO – (Fra sé) E’ piuttosto avvilito. (Al cielo) Ancora cinque minuti,
soltanto cinque minuti. (Si risiede)
AROLDO – Venga, venga Bellocchio, si accomodi. Francesco, porta una bottiglia
con due bicchieri.
(Francesco esce)
TORQUATO – (Ad Aroldo) Almeno alza il prezzo. Non farti mettere nel sacco anche
questa volta.
BELLOCCHIO – Signor conte, io sarei venuto…
AROLDO – (Conciliante) So, so perché siete venuto. Siete venuto a portarmi i
soldi e il contratto. Però devo dirvi, caro Bellocchio, che nel frattempo le
cose sono cambiate. (Chiede con gli occhi l’approvazione di Torquato che
tacitamente consente) Il mondo gira, caro Bellocchio, e ciò che oggi sembra
facile, domani può risultare difficile. (Sentenzia) Ciò che non accade in dieci
anni, può accadere in un minuto. Insomma, per farla breve, ho ricevuto una
proposta migliore della vostra. Nella faccenda è entrato un nuovo personaggio
che mi ha offerto una somma maggiore della vostra. Quindi, spero capirete che o
mi date più di quello che avevamo pattuito, oppure mi ritengo libero di fare
l’affare con un altro. (Previene un’opposizione) Capisco, capisco che sia per
voi che per me una parola data vale un contratto, però anche voi dovete capire
che non posso perdere del denaro soltanto perché sono stato troppo frettoloso
nel vendere. D’altra parte, voi non mi avete dato una caparra, quindi, in un
certo senso possiamo ritenerci entrambi liberi. Dico bene?
(Francesco entra, mette sulla tavola un vassoio con bottiglia e bicchieri ed
esce)
TORQUATO – Questo è il modo di trattare un affare!
BELLOCCHIO – Giusto, anzi, giustissimo. Non abbiamo firmato nessun contratto,
quindi, volendo, possiamo ritenerci liberi sia da una parte, che dall’altra.
Lei, signor conte, ha il diritto di fare i suoi affari, come io i miei. Vede?
Tra galantuomini si fa presto a mettersi d’accordo. (Piccola pausa) Non le
nascondo, signor conte, che venendo qua, oggi, ero piuttosto preoccupato. Non
sapevo come l’avrebbe presa. Ora, se posso dirlo, mi ha sollevato da un grosso
peso.
AROLDO – (Perplesso) Sono contento di avervi sollevato da un peso…Ma, non sono
sicuro che abbiate capite bene ciò che intendo dire.
BELLOCCHIO – Vorrà scherzare, signor conte! Più chiaro di così? Abbiamo trattato
un affare che entrambi, ora, non vogliamo concludere. Non è questo che intendeva
dire?
TORQUATO – (Ad Aroldo) Non farti prendere per i fondelli. Quello fa così per
abbassare il prezzo.
AROLDO – (A Bellocchio) Forse non mi sono spiegato. Non ho detto che non sia
possibile concludere l’affare. Ho detto che l’affare lo possiamo concludere se
alziamo un po’ il prezzo, dal momento che un altro compratore mi ha fatto
un’offerta migliore della vostra.
BELLOCCHIO – E cosa aspetta a concludere con l’altro?
AROLDO – (A Torquato) Ma siamo sicuri di aver fatto bene?
BELLOCCHIO – Vedo che sta parlando con qualcuno che non c’è. E’ forse quello che
dovrebbe comprare?
AROLDO – Questi sono affari miei. Lei non s’impicci.
BELLOCCHIO – Signor conte,qua dentro non c’è nessuno. Ed è per quello che le ho
chiesto se quello cun cui parla è il nuovo compratore. Parché questo palazzo lo
può comprare soltanto il signor nessuno.
(Torquato versa del vino nel bicchiere di Bellocchio)
AROLDO – Se qua dentro non c’è nessuno, chi l’ha riempito quel bicchiere?
BELLOCCHIO – Andiamo, signor conte, questo è un trucco che me l’ha già fatto e
non ci casco più. Alla sua salute. (Beve).
TORQUATO – Accidenti, penso che faccia proprio sul serio.
AROLDO – Sentite Bellocchio, siamo qui per ragionare, no? Non voglio darvi
l’impressione di volermi tirare indietro. Voi siete state il primo al quale ho
dato la mia parola e intendo mantenerla, anche se dovessi rimetterci. Quanto
siete disposto ad aumentare?
BELLOCCHIO – Aumentare? Ma io questo palazzo non lo voglio nemmeno gratis.
Senta, signor conte, facciamo finta di avere scherzato e non ne parliamo più.
TORQUATO – Questo non l’avevo davvero previsto.
AROLDO – Come sarebbe a dire che non lo vorreste nemmeno gratis? Mica stiamo
parlando di un cumulo di letame, stiamo parlando di un palazzo che è ciò che era
una settimana fa. Non è cambiato. Siete voi che volete cambiare le carte in
tavola. E’ per colpa del fantasma? Se è per quello, potete stare tranquillo, è
qui perché è venuto a salutarmi, ma ha detto che se ne andrà per sempre.
BELLOCCHIO – Parliamoci chiaro, signor conte. A me che quel fantasma che dice
lei ci sia o non ci sia, non mi fa né caldo, né freddo. Io non lo vedo e non
l’ho mai visto, perciò per me sono solo sue fantasie. (Torquato gli versa un
altro bicchiere che egli beve tranquillamente) Anzi, se il signor conte
permette, vorrei bere alla sua salute. (Alza il bicchiere) Alla sua salute,
signor fantasma!
AROLDO – Allora, cos’è che non va?
BELLOCCHIO – Troppe cose non vanno, signor conte. Lei ha mai sentito parlare
della Sovrintendenza ai beni culturali? Il capo di quell’ufficio è una specie di
paranoico che solo che veda qualcuno piantare un chiodo un un muro vecchio, si
fa venire le convulsioni. Bene, io in quell’ufficio ci sono dovuto andare,
altrimenti il notaio non avrebbe cominciato nemmeno a scrivere. E sa cosa m’ha
detto quel pazzoide? M’ha detto che io posso comprare tutto quello che mi pare,
ma se solo mi azzardo ad allargare o chiudere una finestra, quello mi fa una
multa che per pagarla sarò costretto a fare un mutuo in banca. Se poi volessi
abbattere un muro, mi porterebbe in tribunale e chiederebbe al giudice di darmi
l’ergastolo.
AROLDO – I Beni Culturali? E questo palazzo sarebbe un bene culturale?
BELLOCCHIO – Sempre quella là ha detto che ha più di quattrocento anni.
TORQUATO – E li dimostra tutti.
AROLDO – Ma se sta in piedi per miracolo!
BELLOCCHIO – Quello là ha detto che l’età è un motivo in più per conservarlo
come una reliquia. S’immagini che io pensavo di abbatterlo e al suo posto
costruire un albergo.
TORQUATO – Ora se vuole un albergo dovrà costruirselo da un’altra parte.
AROLDO – (A Torquato) Ma non capisce che sono rovinato?
BELLOCCHIO – (Alludendo a Torquato) Io non so cosa capisca lui, ma se capisce
ciò che ho capito io, questo rudere non lo vuole nemmeno lui.
AROLDO – Questa proprio non ci voleva.
BELLOCCHIO – Mi dispiace, signor conte. Ma gli affari sono affari.
AROLDO – (A Torquato)Adesso cos’è che potrei fare?
TORQUATO – Non preoccuparti. Non è mica la fine del mondo.
AROLDO – Dice bene lei. E’ facile ragionare di denaro quando non se ne ha
bisogno. Di là avete tutto gratis.
TORQUATO – Ti dirò che la vita non è facile nemmeno di là.
AROLDO – Non sarà facile, ma sarà sempre migliore di questa. Sono stufo, non ne
posso più. Possibile che non me ne possa andare bene una? Va a finire che decido
di dare un taglio a tutto e vengo di là con voi.
TORQUATO – Ma smettila di dire sciocchezze! Per quanto bene si stia di là, si
sta sempre meglio di qua.
BELLOCCHIO – Beh, visto che lei, signor conte, deve parlare con un sacco di
gente e io qui non ho più nulla da fare, col suo permesso toglierei il disturbo.
AROLDO – Ma si, vada, vada.
BELLOCCHIO – Arrivederla, signor conte. Sono certo che un’altra volta andrà
meglio. (Esce)
AROLDO – Possibile che non me ne possa andare bene una ? Se mi mettessi a
fabbricare ombrelli, scommetto che smetterebbe di piovere. Mancavano soltanto i
Beni Culturali! E questo cumulo di macerie sarebbe un bene culturale? Ma in che
mondo viviamo? Avessi fatto l’assicurazione, glielo farei vedere io ai beni
culturali, gli darei fuoco a questo bene culturale! Anzi, forse gli do fuoco lo
stesso, tanto che me ne faccio?
TORQUATO – Stammi bene a sentire Aroldo, quando sono presente, certe eresie non
le devi nemmeno pensare. Ora che hai avuto la fortuna…(Previene un’obiezione)
Si, la fortuna che bene o male questo palazzo è rimasto tuo, dovrai rimetterlo a
posto come si deve. Sono anni che lo lasci andare in malora. Ti sembra questa la
maniera di conservare un capitale come questo?
AROLDO – Ma che capitale e capitale? Questo è solo una fabbrica di debiti!
TORQUATO – E’ la magione dei tuoi antenati!
AROLDO – Un accidente li spacchi anche loro! (Torquato si trattiene dal
saltargli addosso) Scusate Torquato, non intendevo offendere nessuno. Ma quando
uno è ridotto alla disperazione, è normale che non si sappia controllare. Mi
sento come se mi strizzassero le palle e non possa far niente.
TORQUATO – (Dopo una pausa) Quando si tocca il fondo, non c’è altro che
risalire.
AROLDO – Balle! Quando tocchi il fondo, ti accorgi che c’è qualcuno che sta
scavando per farti scendere ancora più in basso.
TORQUATO – La vuoi smettere di piangerti addosso? Sei giovane, sei un po’
squinternato ma non sei imbecille, tira fuori qualche idea! Il mondo è pieno di
occasioni, devi solo afferrarne qualcuna al volo. Al tuo posto, ai miei tempi
avrei fatto scintille. Se ti ripieghi su te stesso non puoi vedere l’orizzonte.
Drizza la schiena se vuoi vederlo! In fondo sei sempre un conte!
AROLDO – Per favore, nonno…La verità è che giunto a questo punto dovrei cercarmi
un lavoro, ma quale lavoro? Non so fare nulla. Se i miei genitori, invece di
allevarmi nella bambagia, mi avessero insegnato un mestiere…
TORQUATO – I tuoi genitori non hanno alcuna colpa se ti sei comportato da
imbecille.
AROLDO –E’ vero, ma né loro né io ci siamo accorti che il mondo stava cambiando.
Al giorno d’oggi, un titolo non vale un piffero. Ai vostri tempi, forse…Ma oggi,
se si vuole mangiare tutti i giorni, bisogna saper fare qualcosa. Io che cosa so
fare? So solo giocare d’azzardo. E poi, nemmeno quello, visto come mi sono
ridotto.
FRANCESCO – (Entrando, preoccupato) Signor conte…di là ci sono la signorina
Giada e la signora Amelia.
AROLDO – Digli che non ci sono.
TORQUATO – Sei sicuro di far bene?
AROLDO – Dopo tutto quello che è successo?
TORQUATO – Se sono ritornate, dopo aver saputo come stanno esattamente le cose,
come minimo dovresti ascoltarle.
AROLDO – (A Francesco) Falle passare. (Francesco esce)
(Leggero brontolio di tuono)
TORQUATO – (Al cielo) Per favore…ancora cinque minuti.
AMELIA – (Facendo capolino dalla porta) Si può?
AROLDO – (Brusco) Avanti, avanti.
AMELIA – Sei ancora arrabbiato?
AROLDO – (Ironico) Arrabbiato? E perché dovrei essere arrabbiato, con tutte le
cose carine che ha avuto la bontà di dirmi l’ultima volta che ci siamo visti?
AMELIA – Capisco la tua reazione ma…(Cambia tono) C’è anche Giada, non vuoi
vederla?
AROLDO – Cos’è, non ha il coraggio di entrare, oppure vuol fare la preziosa?
AMELIA – (Dura) Ti avverto Aroldo, non siamo venute per farci umiliare. Se ci
vuoi ricevere, bene, altrimenti come non detto.
AROLDO – Se vi voglio ricevere? Ma se in questa casa da qualche tempo andate e
venite, come fosse l’atrio della stazione centrale.
GIADA – (Entrando) Potresti anche essere più gentile. Siamo venute per fare
pace.
AROLDO – (Improvvisamente ammorbidito) Giada, io… E’ vero, ho i nervi ancora un
po’ scossi.
AMELIA – Ti perdoniamo soltanto se ci fai accomodare.
AROLDO – Si, certo, scusate…accomodatevi. (Amelia ve per sedersi sulla sedia
dove c’è Torquato) No, quella no!...E’ rotta.
AMELIA – (Andando a sedersi da un’altra parte) Anche le sedie rotte! Sei ridotto
veramente male.
GIADA – Mamma!
AMELIA – Va bene, va bene. (Ad Aroldo) Se sei d’accordo, noi saremmo disposte a
mettere una pietra sopra su quello che ci siamo detti in un momento di rabbia.
GIADA – La mamma vuol dire che siamo venute a chiederti scusa. Vero mamma? (La
tira per una manica) Vero mamma?
AMELIA – (Ad Aroldo) Dì qualcosa dunque! Non pretenderai che mi metta in
ginocchio!
AROLDO – La prego. Accetto le vostre scuse, come voi, spero accetterete le mie.
TORQUATO – (Ironico) Mi state spezzando il cuore.
AMELIA – Ora lasciamo perdere il passato e pensiamo al futuro.
AROLDO – Quale futuro?
AMELIA – Il vostro. Visto che Giada senza di te sembra non possa vivere.
AROLDO – (A Giada) E’ vero?
AMELIA – Se te lo dico io.
AROLDO – Con tutto il rispetto, preferirei fosse Giada a dirmelo.
GIADA – E’ vero, Aroldo. In questi giorni ho pianto tanto.
TORQUATO – Abbracciala dunque!
AROLDO – (A Torquato) Per favore!
AMELIA – Prego?
AROLDO – Non ci faccia caso. Di tanto in tanto mi piace parlare da solo.
AMELIA – Nelle tue condizioni è il minimo che ti possa capitare. Pieno di
debiti, zero prospettive…
GIADA – Mamma!
AMELIA – Dovrei forse fingere di non sapere come stanno le cose? (Ad Aroldo) Mi
sono informata e conosco perfettamente la tua situazione, forse anche meglio di
te. Da mettersi le mani nei capelli! Comunque, il punto non è questo.
AROLDO – E quale sarebbe?
AMELIA – Aroldo, guardami negli occhi e dimmi se ami mia figlia.
AROLDO – Più di me stesso. Più di qualsiasi altra cosa al mondo.
AMELIA – Ti chiedo solo questo. Al resto ci penserò io.
AROLDO – In che modo?
AMELIA – Non preoccuparti. Posso permettermelo.
GIADA – La mamma vuol dire che…
AMELIA – Voglio dire che quello che ho è tanto mio quanto di Giada. E siccome
lei…Dovrò pur farvelo un regalo di nozze, no?
TORQUATO – E brava la vecchia! Chi l’avrebbe mai detto?
AROLDO – (Dopo una pausa) Lei è molto gentile, ma non so se possa accettare.
TORQUATO – Ma stai dando i numeri?
AMELIA – Come sarebbe a dire?
GIADA – Aroldo!
AROLDO – Cerca di capire, Giada, sarebbe come se mi mettessi in vendita.
TORQUATO – Stai scherzando, vero?
AMELIA – Allora, mettiamo le carte in tavola. Come si dice: patti chiari,
amicizia lunga. Non è solo per Giada che lo faccio. Anche su questo mi sono
informata: come madre di una contessa, mi spetta il titolo di Nobildonna. Non
sarà gran che, ma è sufficiente per far crepare d’invidia le mie amiche.
TORQUATO – (Ad Aroldo) Sai cosa ti dico? Lei è molto, ma molto più intelligente
di te.
AMELIA – Voglio un titolo da mettere sul mio biglietto da visita. E se l’unico
modo per averlo è questo, penso che alla fine saremo tutti felici e contenti.
Voi vi sposerete ed io sarò Nobildonna.
GIADA – Aroldo, ti prego.
AROLDO – (Ci pensa un po’) Va bene. Diciamo che sarebbe come se facessimo una
società: io ci metto il titolo e lei i capitali.
TORQUA>TO – Eh, già! Fate la società del formaggio Emmenthal: lei ci mette il
latte e tu i buchi.
AROLDO – E poi amo troppo Giada per dire di no. ( I due giovani si abbracciano.
Si ode un leggero brontolio di tuono, Torquato fa un cenno di saluto ad Aroldo.
Questi gli fa cenno di restare) Giada, signora Amelia, vi dispiace lasciarmi
solo qualche minuto. Sono emozionato, frastornato…
GIADA – Che c’è Aroldo?
AROLDO – Nulla, cara. Solo qualche minuto, ti prego
AMELIA – (Uscendo con Giada) Vorrà parlare un poco da solo. Lascialo fare, piano
piano perderà anche questo vizio. Ci penserò io. (Escono)
TORQUATO – Devo proprio andare. A quanto pare, le cose sono andate meglio di
quanto credessimo.
AROLDO – Darei dieci anni della mia vita, per farvi restare qui con me.
TORQUATO – Non sprecarli quei dieci anni, un giorno potrebbero farti comodo.
(Brontolio di tuono) Senti? Mi chiamano. (Si avvia) Ti aspetto di là.
AROLDO – Non mancherò. Speriamo il più tardi possibile.
(Sipario)
FINE