Brennero Crash

di Alessandro Berti

© 2013. Tutti i diritti sono riservati

 

 

PREMESSA

I personaggi che s’aggirano sul palco, saranno di diversa consistenza, pure ognuna e ognuno porteranno (speriamo) qualche cosa di loro nella storia.
E allora eccoli qua, li presentiamo, come s’addice a un copione teatrale, che quando uno lo legge – ed è una noia – la prima pagina è appunto deputata, alla presentazione dei caratteri.

Prima di tutto entrerà in scena L’ORDINE:
il narratore, la cornice e che, essendo lo spettacolo in questione, prodotto da tedeschi ed emiliani, questo mostro che è l’Ordine – dentro di noi, fuori di noi, dappertutto – il pubblico berlinese-parmigiano lo conosce, checché lo neghi, faccia il moderno e il freakkettone.

Poi il gruppo dei viaggiatori incidentati.

Tre musicisti in costume bavarese, tre berlinesi, neanche, tre immigrati, proletari culturali come tutti:
TOBI tenore dall’Islanda, il quale campa, con suo gran disappunto, di serate in costume un po’ hitleriano, cantando lieder volgarotti assieme a
TIMO, suo fido e largo diteggiator di fisarmonica, orsaccio siberiano;
nonché alla smilza violinista NOGA, taciturna e gran virtuosa del suo legno.

I tre viaggiavan da Berlino a Brixen (o in lingua più sudista: Bressanone), per suonare a una Bayerische Soirée; ma la macchina sbanda ed han centrato (la colpa è loro), per fretta d’arrivare, una macchina tedesca che scendeva, dentro cui stava una coppia di maschi:
MAURILIO, veneto berlinese, coiffeur mite
ed il suo fidanzato PANAGIOTIS, detto TAKIS, un greco komponist contemporaneo, pianista ossessionato dall’Idea (l’idea che non gli viene, gli verrà).
Con loro viaggia una ragazza, un’italiana, autostoppista punk, è MANUELA: grigiovestita con i piercing, figura misteriosa ed appartata.

Infine i tre pilastri della famiglia italiana, pilastri assai peculiari, lo vedrete.

Innanzitutto AURORA, visionaria, devota a un proprio culto, canterina, e di candore protetto dal fratello:
IL BENZINARO, di cui mai sapremo il nome di battesimo, un corpo tutto muscoli e dolcezza, canta da basso e quando balla fa il porteur.
Entrambi figli adottivi di JEAN LUC, devoto marchettaro, padre vicario assurdo, che pure li ha tirati su e su loro veglia.

Sorvegliati, spiati e anche invidiati dal risentito, brusco narratore, sono queste figure che vedrete, e ascolterete per un’oretta in teatro, o a casa vostra, se riuscirò nell’impresa, di non rendere troppo noioso un testo nato, pensato, scritto e poi provato nei camerini, nelle scale, nella platea del teatro dove tutti provavamo, nell’aprile duemilatredici, a Parma, vegliati noi (come dall’Ordine i caratteri) da un pedanterrimo dramaturg tedesco che alla fine ci divenne anche simpatico, da quando si è capito che anche lui, come noi, era del tutto umano e inaffidabile: Italiano.

 

Aprile duemilatredici.

 

L’ORDINE: Sono il cane che ti abbaia sul collo, sono il papà dello sbirro, sono il capo, sono lo strato avvelenato: (chiama) amici vermi! e milioni di fili di nylon, che mai si scomporranno in qualcos’altro! (Riprende come all’inizio) Una comunità ma suo malgrado, sono io, il direttore di questa discarica, e ci sto bene, sto nel mio, sono nel mio, ma adesso basta con l’autobiografia, veniamo al punto: ci sono più macchine che uomini, solo gli insetti potrebbero competere, con le macchine, come forza, come numero, e le piante, i batteri, sono loro, che combattono ogni giorno con le macchine, che provano a corroderle, a scioglierle e gli umani, gli umani assistono a questa battaglia, completamente indifferenti, finché una macchina, o un batterio, li ferisce, allora prendono posizione, si aggregano a un esercito o all’altro.
Ladies and gentlemen, welcome to Brennero Crash!

 

Voce registrata di una telefonata in tedesco, è Tobi che parla al committente, quello di Bressanone:

“Stiamo arrivando, in mezzora ci siamo, già cambiati”.

La voce ora s’incrina, gran boato.

Fumo sul palco e corpi sparpagliati, lamenti e facce insanguinate.

“È stato lui”

dice Maurilio (non più mite, ora iracondo) a Tobi che controlla il suo menisco.

Rissa che quasi monta, tutti sono ammaccati e intorpiditi.

 

L’ORDINE: Eccoli qua, guardateli, qua, hanno assaggiato il sapore del ferro, hanno visto arrivare l’ostacolo, senza potere fare altro che urlare, e adesso proprio come i bambini, si arrabbiano con quel che li ha feriti, balbettano, ritornano agli esordi, la loro lingua è nuova, appena nata, eccoli qua, disertano dall’esercito nel quale, soltanto fino a pochi istanti prima combattevano: l’armata telefonica, il battaglione a motore, la squadra aerea, le retrovie contabili, bum, tutto sparito, sono coperti di sangue, lo assaggiano, risucchiano il sapore della vita, ingoiano le loro stesse piastrine, ringiovaniscono, ma non durerà a lungo, scommettiamo, sincronizziamo gli orologi: sono le 9 passate da un minuto.

 

Sul ciglio della strada, tutti in fila.
Chi si rolla una sigaretta, chi telefona, ma non c’è campo, solo abeti, abeti.
Passa una macchina ma non li vede o non si ferma.
Dietro di loro intanto, barcollando, arriva una ragazza tutta in grigio, minuta, insanguinata.

AURORA: (Canta) Sfassadaaa, sono un buso uno sbrego, sfassadaaa, e pasi da me tuto, e pasi in qualcoss’altro, sfassadaaa.
(Parla) Ero dietro preparare, finito ancora no, un triduo un triduo un triduo, come la santa Gianna e so marì, vegliate perché né il giorno e gnancha l’ora voi sapete: (pensosa intona) Kyrieleison kyrieleison kyrieleison (poi precisa la scaletta del suo rito)e tuta la litania del pelegrin.
(Riattacca il canto) Peeelegrin che vien da Roma al va l’biroc, con le scarpe rote ai pièee; (s’accorge che è confusa, si fa forza) resistere in tuta questa cunfusion, cussì sfassada da eser persin forta.
(Canta) Doona smorta doona forta, e mi la dona smorta la voli sìii; (di nuovo chiede scusa all’uditorio) non è me che quaschta quaschta, non è me: sono una pietra, la roccia su cui ti scassi se ci sbatti, e se ci sbatti però me fa piaser, che ridivento sabia: un buso, un buso, cusì che tuto infin pasi da me, sun traversada (la parola la risveglia, quasi grida): sta ’tenta traversar la strada Aurora ’tenta (e poi, innocente): ma mi stavo sul cilio adès diobuono (abbandonata a dio, del tutto vinta): ma tu fai tutto secondo un disegno, che poi noialtri no conossemo mai.

Tobi l’ha guardata tutto il tempo. Ora la prende, le sostiene una mano, canta con bella voce tenorile, dolce:

“Laudamus dominum”.

Lei risponde (fissandolo)

“Laudamus dominum”

solo un po’ incerta, tanto da domandare:

“Sit un angel?”

e non avendo risposta ipotizza

“Alora mi sun rivada in paradiss”.

Placata, col sorriso, infine sviene.
Tobi la prende al volo, s’incamminano, mentre il gruppo di incidentati avanza piano.
Aurora a tratti si risveglia e grida:

“Portèm da me fradel, Il Benzinaro”.

La processione avanza verso l’autogrill.
Entrano in scena una porta e un lavandino, portati dentro dal Benzinaro in tuta, che finito il lavoro canta forte:

“Eccomi Aurora, son tuo fratello, porto il fardellooo, eccomi Aurora, dove sei stata? ti sei tagliataaa? Siam la famiglia, guai a chi ti piglia, siamo una famigliaaa”.

Tobi, alla testa del gruppo, getta Aurora tra le braccia del fratello (baffi da Sud Italia e faccia torva) il quale chiede:

 “È successo sul viadotto di Brennerbad?”.

Non c’è risposta. Chi lo sa?

IL BENZINARO: (insiste) Lei di solito è lì che va a pregare.
AURORA: (si risveglia e giustifica) No xe stada colpa mia, tel giuri.
IL BENZINARO: (andando al sodo) Stai bene?
AURORA: (frettolosa) Sì, sì.

Entrano tutti.

 

L’ORDINE: Oh signori che bello, un misterioso, temporaneo ritrovarsi, tra stranieri, tra estranei: bello, bravi, che rigoglio, che fantasia ci ha l’animale umano, prende gusto a ogni cosa, la estenua, la tira lunga, bravi, bello.
(Cambia tono) Se non ci fossi io, sarebbe tutto già franato giù, sparito nell’incomprensibile, nel caos.
(Riprende il tono iniziale) Calma, calma, per te oggi non è festa, lo sai, è una giornata di lavoro come tutte, sono le 9 e 18 minuti.

 

Dentro l’autogrill.
Il Benzinaro pulisce tutti dal sangue come può.
A un certo punto, Tobi gli domanda:

“Scusissimo segnor, una pregunta: esè posibile una telefoneada?”

Piuttosto riluttante, Il Benzinaro:

 “Sì, però solo telefonate brevi, che è privato”.

Generale viavai presso la porta, dove è il telefono (a muro, vecchio stile).
Tobi non prende linea, non ci sente; Maurilio ha più fortuna, chiama l’ACI; Takis chiama la mamma, a Berlino:

“La moussakà la mangeremo un’altra volta”…

Fino a che sbotta Il Benzinaro:

“Basta! è privato v’ho detto”.

S’accorge adesso che a chiamare casa, manca solo la punk, l’autostoppista.
Gli dispiace:

“Dai, chiama pure tu, però fai presto”.

Lei, come svegliata da un suo sogno:

“No, io non devo chiamare nessuno”.

Tutti fermi, bloccati, fissi in un freeze collettivo. Il narratore avanza dal proscenio, verso di loro.

 

L’ORDINE: Che cosa? non è possibile, ma chi ti credi di essere? “Io non devo chiamare nessuno”: lo vedremo!”

 

Nella notte, là fuori, rimane solo Tobi.
L’Ordine è soddisfatto: delle chiamate, di questa nostalgia che hanno dell’Heimat; solo la frase della punk un po’ lo turba.

 

L’ORDINE: Sono rientrati nei ranghi, quasi tutti, quasi, mi chiama in causa quel “quasi”, mi tormenta. “Io non devo chiamare nessuno”, che cos’è? dovrò fare di più di così? dire la mia, intervenire a mani nude? anche oggi? anche la notte di Pasqua? calma, stai calmo, non è ancora detto, sono le 9 e 22 minuti.

 

Aurora esce nella notte. Va da Tobi.
Fin dal loro primo sguardo, si cercano. Lei ha da esser circospetta, avanza piano.
Appena si avvicinano, duettano. Lui parla inglese, che spera lei capisca; lei gli risponde nel suo slang padano.

“Who are you?”

canta il tenore islandese.

“Chi sa?”

risponde lei.

“Where were you?”

Riattacca lui, un po’ retorico.

“Di là!”

risponde Aurora di rimando, letterale.

Lui del tutto conquistato, sturm und drang:

“What should I do now?”

che per lei, però, è troppo:

“Mo valà!”

Danzano.
Lui, con pochi tratti, vuole dire, chi è infine veramente, denudarsi.

“Ich hasse mein beruf” – parla tedesco – “ich hatte immer eine doppelte berufung, sozusagen”

“Oh scusa cara, scusa” – sembra dire – “mi ero infuocato troppo, non capisci? torno all’inglese, ascolta qua”:

TOBI: Vocation, do you know the word vocation?
AURORA: (sconvolta) La vocassiun, ancha ti te gh’à la vocassiun?
TOBI: Yes, two vocations!
AURORA: (incredula. È un parossismo) Do vocassiun!
TOBI: Yes, yes!
AURORA: (solenne, conquistata) Sant e po ancha martir!
TOBI: (capisce quel che può, si sforza) Paul Anka, yes, sort of.
AURORA: (lontana, piccola, tra sé) Mo vacaboia!
TOBI: (possibilista) “Vacaboia”, I don’t know, yes, maybe, the point is people love rubbish, that’s the point, they do like rubbish.
AURORA: (mal intende la keyword) Un conìjo!
TOBI: (sempre possibilista, comprensivo) Rubbish, un conìjo, ja, conìjo, of course it’s not their fault, they’re so corrupted.
AURORA: (ha sentore che qualcosa non torna. Franca) No ò mia capiìi cussa gh’entra el conìjo.
TOBI: Forget it!

Il vichingo va al punto, la afferra.
Vanno in proscenio e lì davanti, soli, sopra un tappeto d’erba finta (cioè sulla schiena della giacca dell’Ordine, sdraiato e camuffato) lui le confessa il suo sogno d’amore.

Lately I have realized my real vocation, and it’s another, not Paul Anka but a family, a wife, a house in the country, animals, children, children on animals, vegetables, shit of animals on vegetables, and cherries, wild berries…

La lista s’interrompe bruscamente, è arrivato Il Benzinaro. Furibondo, salta giù dalla porta, li ha scoperti. Aurora fugge; i due maschi s’affrontano.

 

L’ORDINE: (s’alza, soddisfatto) Finalmente, ce ne hai messo del tempo vecchio mio.

Li mostra, bloccati in freeze, pronti a combattere, si avvicina ai due maschi e dice al pubblico.

Ecco che i due magneti si opporranno, faran scintille i ferri, è legge eterna, è regola perenne: (sottovoce) qui ne vedrete una versione morbida, simbolica, son complicati gli umani, sono dolci, ma alla fine non sfuggono a se stessi, sono bestie ambientali, immutabili.

 

I due maschi cominciano un duello, però da comica, escono ed entrano di continuo dalla porta, con Aurora che s’intromette: abbracci, pugni, e poi il fratello la spunta, cocciuto, e fa da schermo tra lei e il vichingo; così alla fine, imperioso, ridicolo, intima a lei di entrare, niente scuse. Lei per adesso non può fare altro, a testa bassa torna dentro, va.

Gli altri escono fuori sulla scena, ubriachi; la triste Europa dei popoli ha nel cibo – e nel maiale in special modo – il suo collante; italici e fintobavaresi si confrontano, su nomi e modi dell’insaccare carne: bratwurst, soppressa, salsiccia e friarielli, weisswurst, ’a carne cotta e altre delizie conservate.
Solo la punk esce sobria, concentrata: barcolla già di suo, non serve alcool; danza con L’Ordine invisibile, si tasta il corpo, controlla di star bene.

MANUELA: (scossa) Sto mica bene, dov’è che ho letto che si può morire, anche un bel po’ di tempo dopo l’incidente, ti sembra che stai bene, torni a casa, e poi invece ti accasci, caschi, muori; sto mica bene, ma è più una cosa neurologica, non so, le budella sono tutte al loro posto, il cranio anche, è piuttosto un malessere, del nervo vago, del parasimpatico, puttana Eva che botta che ho preso.

Intanto la festa degli scampati ha un suo anticlimax.
Takis, bevuto, si arrampica alla porta e da lì grida la sua angoscia, è un komponist a secco, in crisi dura, che ha abbandonato Eraclito per Fichte:

“Ich brauche eine idee, komm idee, komm”.

La musica s’interrompe, tutti guardano: Maurilio è imbarazzato, conosce l’umor tetro dell’amante, lo aiuta a scendere, lo invita a ricomporsi; Takis è lentamente disissato e tocca terra. Poi, barcollando, corre via in bagno chiudendosi dentro. Si sentono rumori. Il komponist fa suonare il lavandino, il posasciugamani, i rubinetti, tenta una partitura per oggetti; è alla frutta.

MAURILIO: (impotente, da oltre la porta) Non far così, dai, Takis vieni fuori, non serve a niente, vieni fuori di lì, più la vuoi un’idea più lei non viene, e quando meno te l’aspetti: tac, la ’riva! Hai preso la balla triste, dai, succede, è che abbiam preso una paura dell’ostia, allora dopo è normale: ci è presa voglia di scolarci un silos, tutto lì, lasciati andare Takis cristodio, sei Greco mica Tedesco, tra l’altro a te la birra ti fa male, dovresti bere Retsina mica Weiss, non sentiresti la mancanza di un’idea. Ma poi che cazzo è un’idea Takis, cos’è? un’idea per far cosa, per chi? per uno stronzo che ti dice: “Bella idea”, e perché te lo dice? perché un altro sopra di lui gli dice “bella quest’idea” e anche ’sto stronzo ci ha un altro stronzo sopra, che anche lui cerca un’idea che vada bene, che non disturbi, che non stoni, tutto lì.

Nel mentre, a destra, Aurora e Manuela parlano per la prima volta una con l’altra.

AURORA: Quando mi a fago el senio de la crose, mi penso propio a tuta la famija: pader et filio e po’ ancha spirito santo.
MANUELA: Manca la madre.
AURORA: (non sorpresa, comprensiva) La mare la xe tuto, la xe in tuto, tuto xe nostra mare, xe la vida, l’andar avanti de tuto.
MANUELA: (dritto in faccia) Non è un po’ troppo generale?
AURORA: (concorda) General, sì, xe general, la xe tuto, xe in tuto, la mare xe quel che una la pol far, la xe un vodo, capissi tu? un spassio indò qualcossa la pol star e la pol crésser, crésser e crésser e crésser, e po nàsser.

Continua, in bagno, il concerto d’oggetti.

MAURILIO: Quando qualcuno ti dice: “Grande idea”, vuol dire solo che sta bene lì, in quel momento, in quel posto, va bene a quelli che te l’hanno chiesta, che te la pagano, basta, smettila di ravanarti dentro Takis: non c’è niente.
(Adesso cambia strategia, s’illumina, ha trovato) Invece fuori c’è una sorpresina, ce l’ho qua in tasca da quando siam partiti, volevo dartela a Berlino, non resisto. (Estrae un kazoo, prova a suonarlo, non ci riesce. Tra sé, sconfitto, preoccupato) Ma com’è che si suona ’sto canchero? Il tipo del negozio lo suonava, sembrava una cagata, guarda qua, ma perché adesso ti fregano tutti?

Takis ha smesso di torturare il bagno. Da dietro ascolta quel silenzio impotente, incuriosito apre la porta, viene fuori, vede Maurilio col suo kazoo nella mano, glielo prende, lo porta al labbro e poi ci canta dentro.

Lo sai suonare Takis! meno male, tu mi ridai la fiducia nell’uomo. (Cerca ancora qualche cosa nelle tasche, ne estrae una marranzana. Vittorioso) Questa invece l’ho presa per me, che son capace, sta a sentire qua…

E mentre i due, massacrando uno standard, vanno via, le donne chiudono il dialogo teologico.

AURORA: Doman xe Pasqua, doman al Crést as leva so’ dai mort, el ressurrèxit. (Silenzio)
MANUELA: (mastica in bocca la parola) Pasqua. 
AURORA: (naturale, abbandonata) Pasqua, sì, Pasqua.
MANUELA:(riflessiva, attenta) Non l’avevo mai festeggiata.

Escono tutti tranne Aurora. Arriva Tobi.
Cominciano una danza, ora più fisica, fatta di incerti inizi, goffe avances, fino a un cambiarsi d’abito di entrambi: cioè poi rivoltano gli abiti di sempre, ci fan veder l’interno, e sulla fodera di ognuno dei vestiti, ora alla luce, svettano due cuori rossi scintillanti. In quel cambiarsi d’abito s’aiutano.

Aurora sotto non ha niente, rimane nuda per un attimo, minuscola, impaurita.

 

L’ORDINE: (sbotta, si alza, parla al pubblico) Eh no eh, basta, si stanno allontanando troppo, adesso basta, non posso mica rincorrerli fin lì, non così a lungo, serve qualcosa che li riporti a terra, che li rimetta al loro posto, basta, ho avuto anche troppa pazienza.

Si mette giù, si mimetizza, ritorna finta aiuola – sulla quale, ora sfinito, cede Tobi – e dopo qualche secondo di silenzio, all’improvviso (come un terremoto) si scuote L’Ordine, si libera del corpo. 

Ecco ho trovato! (Estrae un iPhone dalla giacca, fa un numero)

 

Squilla il telefono a muro in autogrill, entra Jean Luc con gli occhiali da sole: è un uomo piccoletto, femminile, di equivoca eleganza marinara.

JEAN LUC: Pronto? Sì, ma chi parla? Che cosa? Certo che ci tengo, ma chi sei? (Si blocca, cambia tono) Ho capito, la ascolto. (Silenzio, una sorpresa impietrita si fa strada. Si sfila via gli occhiali, guarda fisso) E così quanto sarebbe? (Sorride, è sconvolto, si riprende) Ma noi non siamo così ricchi, lo saprà, sulla benzina non ci prendiamo niente, non c’è l’albergo sopra, lo saprà, non siamo mica in Silbergasse. (Lungo silenzio. È stremato) Domani? (Ormai è assente, ha il tempo di un assenso) Va bene, domani.

Riattacca ed esce a prendere un po’ d’aria.
Incontra Tobi. I due si stringono la mano, hallo, hallo, ma subito arrivano Aurora e Il Benzinaro che Jean presenta ufficialmente allo straniero.

This is my little daughter Aurora, and this my son (poi brusco s’avvia fuori).

Il Benzinaro lo fa passare riluttante, con sguardo torvo e le braccia incrociate.

(Sulla porta, Jean Luc) Io vado a prepararmi.
(Dalla porta attacca, dolce, l’aria abituale dedicata al figlio, ma dopo la prima strofa va a cambiarsi, nel bagno dove prima o poi finiscon tutti, e continua da là)
Ad un bimbo abbandonato serve mamma e anche papàaa
Né gli amici né lo Stato mai, giammai ti aiuteraaan
Iesus Christus Salvatore di noi tutti abbi pietàaa
Siamo merde e nel dolore non diciam la veritàaa
Et un bimbo abbandonato tu lo devi rispettaaar
Lascia sfoghi il suo furore, prima o poi gli passeràaa
Iesus Christus facci bimbi, facci andar di qua e di làaa
Torneremo sempre a casa torneremo sempre quaaa.

Aurora e suo fratello, uniti, assieme, adesso accolgono il vichingo in famiglia e gli raccontano il mito fondatore. Perlopiù è lei a raccontare a parole, lui più che altro mima, descrive quel che dice la sorella, di volta in volta afferra l’islandese, davanti a lui cade in ginocchio, muore, poi risorge. È il loro oliato, sacro teatrino.

AURORA: Io vivo qui da molti anni, sì, con loro, lui è mio fratello e lui è un amico di famiglia, è diventato un amico di famiglia, prima era un nemico di famiglia, poi è diventato un amico di famiglia, come San Paolo, hai presente San Paolo, prima ammazzava i cristiani e poi è diventato cristiano, è diventato il più cristiano dei cristiani, ma prima li perseguitava i cristiani, era il terrore dei cristiani, i cristiani quando vedevano San Paolo scappavano, poi lui ha avuto un incidente, col cavallo, gli incidenti col cavallo sono terribili, ci puoi rimanere secco in un incidente col cavallo, come Superman, ti ricordi l’attore di Superman? Anche lui è caduto da cavallo, e c’è quasi rimasto, e San Paolo un giorno cade da cavallo e lì capisce, si fa male ma poco, giusto quello che gli serve per svegliarsi, uno meno sensibile di San Paolo avrebbe detto: “Basta col cavallo, d’ora in poi vado a piedi”, ma San Paolo ha capito che non era il cavallo il problema, era tutta la sua vita, che fino a quel momento era stata una vita da sbirro, una vita passata a controllare, a ordinare, a molestare, una vita di merda, prima di tutto per San Paolo, prima di tutto per lui, e così per qualche giorno lo mettono a letto, lui non ci vede più, ha preso una botta, una botta forte e allora lì, con la testa che gli scoppia, le ossa rotte, non c’erano mica gli antidolorifici, cioè qualcosa ci sarà stato però non così forte, e allora lì, nel silenzio, su quel letto, col caldo, le zanzare, dolore dappertutto, San Paolo pensa: “Ma se morivo adesso, cazzo, che vita di merda che avevo fatto!”

Entra Jean Luc travestito. Sembra Maria Antonietta.

“Vado” dice.

“Anche stanotte?” gli fa il figlio.

“Anche stanotte” risponde Jean, che s’avvia verso il proscenio, lentamente.

Lo segue, serpe strisciante, aiuola, L’Ordine.

Jean va da destra a sinistra, ancheggiando; e tra le voci di un coro struggente, che viene da lontano, fuori scena, il vecchio batte le strade, si offre a clienti immaginari, poi rinuncia.

“Non c’è nessuno per strada stanotte, nessuno vuole divertirsi un po’.”

 

L’ORDINE: (alza la testa, sempre mimetizzato, prato in tartan) Adesso sono io che mi diverto!

 

Uscendo, Jean Luc incrocia Tobi, gli sorride, mentre entrano Takis poi Maurilio: il primo a grandi falcate e, dietro, l’altro, che tiene in mano – cauto – una gran sega.

MAURILIO: (avanzando perplesso) Con tutti i soldi che tuo padre ha speso, per istruirti, per farti studiare...
TAKIS: Er hätte es sowieso ausgegeben, und sogar schlechter [li avrebbe spesi comunque, e ancora peggio]…
MAURILIO: Dico che come musicista sei sprecato, a suonare una sega voglio dire…
TAKIS: (infastidito e acuminato) Mauri, io su come fai i colpi di luce non discuto [dass heisst: mische ich nicht].
MAURILIO: (non può che concordare) Infatti Takis sto portandoti una sega, non sto portandoti uno Steinway, ma una sega, tu mi hai chiesto una sega, io ho trovato una sega e te la porto, l’ho limata, gli ho tolto tutta la ruggine, così non hai la paranoia del tetano, ho chiesto in prestito l’archetto alla tedesca, ho fatto tutto come mi hai chiesto tu.

Pausa.

TAKIS: Gut, danke.
MAURILIO: Prego. (A un uditorio immaginario) Concerto per sega opera 16 di Panagiotis Vangelis.
TAKIS: Du verstehst ein scheiss! [cioè, mas o menos: “Tu non capisci un cazzo”]
MAURILIO: Va’ ben, può darsi.
TAKIS: Nein, es ist sicher! [“è certo!” conclude assai stizzito]

Si avvia Maurilio verso l’autogrill: il concerto per sega non lo attrae. Ma mentre mette mano alla maniglia, attacca Takis a carezzar l’arnese e subito ne esce fuori un suono dolce, come di thèremin senza cavi né onde.
Mauri si ferma un attimo, sorpreso, poi esce riflessivo, sulle sue.
Entrano intanto Aurora e Il Benzinaro, a ballare come bimbi in mezzo al palco.

La musica si complica e stratifica: non solo sega, anche violino, fisarmonica, stilofono e poi Tobi che dal cesso attacca un lied del Winterreise:

“Fremd bin ich angezogen, fremd ziehe ich wieder aus” [“straniero sono giunto, straniero partirò”].

I due fratelli vanno via, di corsa, ora il tenore vichingo si scatena. La melodia vira al maggiore e lui già sogna, e dentro la misura, ecco, improvvisa:

“Dentro la fattoriaaa, ci siamo io e teee, o bella Aurora mia, tutto tu sei per meee, raccoglierò il letaame, le uova coglieròoo, rastrellerò lo straame, sull’erba piscieròoo”.

Il parossismo è interrotto di brutto:

“Scusa, è libero il bagno?”

grida la punk (chissà da quanto) fuori.

“Libero, sì”

fa Tobi e se ne va.

Takis rimane alla sua sega, muta, e – seduto sulla schiena dell’Ordine, di nuovo mimetizzato – fa un discorso, come davanti a una folla, come qualcuno che ha ricevuto un premio.

“Penso alla musica come a un rutto, una scoreggia, qualcosa anche di naturale, di nascosto, qualche cosa che è lì, che è pronta a uscire, forse l’esempio della scoreggia è un po’ fuorviante, in ogni caso qualche cosa che è in tutto, e che può uscire da tutto, anche da qui, da qui, da qui, la musica per me, come spiegarlo? è come l’anima potenziale delle cose, ecco sì, questo, un compimento possibile di tutto, un compimento giocoso, una scoreggia, però ecco sì: una scoreggia di dio!”

 

“Ma che noia” – sembra dire il gran corpo dell’Ordine, là sotto – “ci mancava il discorso”.

L’ORDINE: (stanco, risentito) Ogni azione reale è condita, da un insaporitore fantasma, un sale immaginario, con cui gli umani farciscono ogni cosa, io non ci sono abituato, alla lunga, mi fa salire la pressione, mi arrabbio!

A grandi sculacciate (come a un bimbo), spedisce Takis fuori, e poi si accentra, verso la punk, al lavandino, in mezzo al palco. Silenzio.

 

Adesso è il turno di lei là, dentro il cesso; si guarda in faccia allo specchio.
E poi pianissimo, come a se stessa, dice:

“Mamma!”

 

Al che L’Ordine, brusco, non visto né sentito, alle sue spalle:

“Che cosa? Cosa c’entra? Me lo spieghi?”

Vorrebbe rieducarla ma non riesce.

 

Sulla porta, appare Timo. Fisarmonica in braccio, goffo, attacca una melodia slava, melancolisch. Manuela inizia a danzare al lavandino, mentre lui la contempla, la spia, suonando intento.

 

L’ORDINE: (quasi intenerito) Troppo tardi amico mio, già troppo tardi. Non ne vorrà sapere niente. È già su Marte, provaci, tu provaci lo stesso ma per me, non hai speranze. Gli umani! sempre in ritardo di un istante, sempre! non si incontrano mai!

 

Timo diteggia e adesso canta.
Prima sta basso ma poi si lascia andare, allarga i ritornelli, ulula, grida – steppenwolf siberiano – innamorato, appiccicato alla porta del cesso. La punk, a un certo punto, gli urla:

“Hai bisogno del bagno?”

Gran silenzio.

“No, no, Manuela”

a fil di voce, timido, il gran Timo (nomen hominem).
Dopodiché riattacca, ulula, s’inarca, fino all’uscita dal cesso di lei – che fragorosa spalanca la porta – e a un reciproco sguardo d’impotenza, di imbarazzo, di viltà, di incomprensione.

Alla porta, adesso Aurora.
Timo avanza in avanti verso L’Ordine e Manuela sale sulla porta.
Le due donne guardano avanti, all’orizzonte, e dicono a se stesse piano, piano

AURORA: Un angel l’è rivà da nord a sud, al s’è fermà, al va da nord a sud, mi adess sun prunta, a l’è rivà ’l mument, lus, lus, a voj la lus, sun prunta, a sun nassuda al sol, gh’ò da tornèregh.
MANUELA: Fai spuntare radici, dalle piante, da queste piante dei piedi, dalla carne, stringimi dentro un posto, un vaso alto, pieno di terra e sassi, e dammi acqua, fai spuntare radici, e buca calze, suole, battistrada.
AURORA: A voj ander al mer cun al me angel, o da par me, sè, da par me, se lo’ al vrà mia pió gnir, adess sun prunta, da par me, sun prunta!

La porta intanto è arrivata in proscenio, spinta da Aurora e cavalcata dalla punk.
Lì, Jean Luc parla al telefono, piange, contratta un qualche sconto, una proroga, col suo invisibile strozzino lontano.
Il Benzinaro vuole dire la sua:

“Passa!” – e quasi grida – “Adesso fammici parlare, dai a me!”

Jean ora s’avvinghia tetro alla cornetta, fa il gran piagnone e dice no con la testa.
In mezzo al palco, intanto, dietro tutti, danzano Takis e Maurilio un loro ballo, di riconciliazione, di pazienza, sulle note oramai piccole di Timo, che con due dita muove il mantice piano e con l’altra sua mano, assente, fuma.
Poi ecco Noga, spettinata, col violino.

La porta viene ricondotta via.
Scena sgombra. Vi entrano forte, ancora, Il Benzinaro e Aurora per ballare, mentre Jean Luc ora canta (a se stesso) un evangelico estratto, su un’aria post-verdiana, calda, intenta:

(da Luca XII, 22-31) “E guardate gli uccelli nel cielo, non piantano, non mietono, niente, e né i gigli del campo faticano, ma nessuno ha una veste più ricca, e se Dio veste l’erba dei campi, non farà per voi tutti di più? E non siate agitati, non dite: ‘Che cosa mangeremo?’, non dite: ‘Come ci copriremo?’ Cercate prima il regno, e allora tutto, vi sarà dato in sovrappiù”.

Ognuna, ognuno, guardando quel fratello e la sorella, vorrebbe dir la sua, tirarla fuori, come se adesso s’incarnasse la metafora, il simbolo imprendibile, in quei due, che ballano tra loro, che sono dentro un mondo solo loro.
E il popolo li spia, provando a trarne, come può, una sua morale.

Tra loro Tobi, il nuovo amico. Ecco quel che racconta (ed è importante), glielo hanno riportato – si capisce – come la storia di San Paolo.
Ecco la Favola Bella di Famiglia – e truculenta e peculiare assai – che svela al mondo perché sono lì, cosa successe e cosa ancor li avvinghia, come in tempo reale, adesso in scena, mentre si prendono, sollevano, riabbracciano.

TOBI: C’era una volta un bimbo e anche una bimba, che viaggiavano di notte con papà, e con la mamma, su una macchina grande; a un certo punto la macchina si rompe, e va fuori di strada, si ribalta, il bimbo e anche la bimba allora urlano, escono fuori dai finestrini rotti; adesso è buio, sono soli tra gli alberi, abeti abeti abeti abeti abeti, chiamano “mamma papà” ma c’è silenzio, solo una voce si sente: “State bene?”– dice una voce che arriva dalla strada –
“E la mamma e il papà?”. Non lo sappiamo.
La voce dice: “State bene bimbi?”. C’è buio, tanto, e alla luce della Luna non si capisce se è una mamma o se è un papà, chi adesso dice: “State bene bimbi? E la mamma e il papà?”. Forse dormivano, forse erano stanchi.
“Lasciamoli dormire” – fa la voce – “venite, torneremo domani, con la luce”.
I tre camminano lungo un sentiero buio, sentono gli animali, non li vedono. “Non abbiate paura” – fa la voce – “sono cervi, leprotti, e tra le foglie civette, scoiattoli”. E la mamma? E il papà? “Eccoli là, vedete quelle luci?” – dice la voce ai bimbi e, con il dito, indica le due sirene d’ambulanza – “li portano a curarsi, all’ospedale, venite bimbi andiamoli a trovare, ma per di qua, che si fa prima, su!”
Passano gli anni e i bimbi son cresciuti, e sono ancora qua tra questi boschi; il bimbo cattura serpi, intaglia archi, la bimba alleva conigli, coglie fiori, e vanno a scuola, come tutti; poi, la voce dice “siete grandi ormai” e compra loro un bel distributore; al bimbo piace, è il gioco preferito, la bimba va per fiori, corre, canta, si ferma ai crocifissi degli incroci, s’inchina a quei giganti sanguinanti, lungo i sentieri torna a quella notte; da anni coglie frammenti di vetro, ancora trova schegge, degli specchietti, dei finestrini rotti, e ogni anno, nella notte di Pasqua, la notte di quello scoppio che li ha uniti, notte di anniversario, prepara la preghiera di famiglia.

Appunto questo vuole fare Aurora: andare, adesso, via, compiere il rito e poi partire, chi lo sa; qualcosa cova, così si libera dal Benzinaro che la tiene, lei si divincola, scappa; lui la segue.

JEAN LUC: (s’intromette) Basta, lasciala stare, adesso basta.
IL BENZINARO: (sorpreso, poi guardandolo dritto e indietreggiando) Tu? tu adesso dici di lasciarla andare, proprio tu? Che cazzo ne sai tu, che cazzo vuoi? Non c’entri un cazzo con noi, capito, niente! Tu ci hai presi con te, va bene, grazie! Ma tu chi cazzo sei: sei nostro padre, nostra madre? Chissei? Abbiamo il distributore: bene, grazie! E lavoriamo come schiavi per due soldi, e adesso spariranno pure quelli! Grazie, davvero, ma adesso fammi passare. (Si avvia)
JEAN LUC: Lasciala andare.
IL BENZINARO: (ormai livido, sconvolto) Perché? perché diventi come te; no, grazie, scordatelo: (scandisce crudele) checca!

Jean si frappone e adesso sfodera una sua virilità, una grande forza.
Lottano padre e figlio, la folla assiste attorno, poi interviene, li separa, fino a che il vecchio ha un malore e – teatrale – cade per terra con la mano sul cuore.

Tutti si fermano nella scena più trash; eccoli lì, il moribondo nel mezzo e loro attorno, tutti in freeze
L’Ordine è stanco, disgustato, li osserva; si avvia alla porta, la scala, siede sull’architrave. Guarda giù, schiocca le dita e loro si riprendono.

Jean è rimesso al mondo dal pio Tobi, che gli ha insufflato dell’aria nordica nei bronchi: baciato così bene, decide che è bello vivere e rinviene.
Arriva Aurora sorridente, nulla ha visto né sentito e ha nelle mani un oggetto curioso: è il suo Toy Piano, un antico regalo di Jean ma mai suonato. Lo porge a Takis, rituale –

“per favore”

gli dice – dolce ma imperiosa. Un invito a provarlo, a estrarne una qualche musica. Lui può.

Takis lo prende, lo soppesa, è incuriosito. Maurilio porta il lavandino e glielo appoggia. Aurora intanto attacca un canto di bordone. Il Benzinaro e Jean, che già conoscono il rito di famiglia, s’abbracciano riconciliati e vanno dietro.

Takis comincia goffo, a note sole, staccate, stonate.
Si riavvolge la processione dell’inizio, ora al contrario: dall’autogrill alle auto, com’erano arrivati adesso vanno; tornano alle carcasse delle auto; s’incamminano.
Li guarda L’Ordine commosso e, da lassù, annuncia loro quello che farà.

Ora si svela, appena riluttante, e chiude il cerchio della storia (o così pare) con queste sue minacce misteriose, che pure avranno effetti assai concreti. 

 

L’ORDINE: Vi toglierò il pavimento dai piedi, lo toglierò a uno di voi, a due, basterà questo a far crollare tutto; cederanno i soffitti, le volte, dell’edificio che avete costruito, vi mostrerò com’è fragile, e come cade in fretta, se sotto trema la terra, se sussulta; invecchierete prima, i vostri corpi avranno fame, sete e non sarà così facile pensare, né essere buoni senza niente in cambio; vi guarderete alle spalle, come lupi braccati, come cani, starete chini sui bisogni più umili, non crederete che alla bocca, alla pancia; la povertà è una malattia, un’ipnosi, e può arrivare all’improvviso; volevate comandare, essere i re, e sarete gli schiavi, i reietti; io non sono altro che un funzionario, eseguo ordini da quando ero bambino, e li faccio eseguire; noi abbiamo assaggiato sulla carne artigli duri, crudeli, fin da piccoli, non conosciamo un altro modo per toccare, non ancora, a volte sembra che siamo vicini, a liberarci dalla stretta ma poi temiamo di scoprire che quel nodo, è il nodo che ci fa stare in piedi, ci fa vivere; beato chi domani avrà l’ardire di usare i suoi stessi artigli per scioglierlo; forse chi lo ha già fatto adesso è vivo, ma tace, perché nessuno crederebbe, e forse è questo il segreto del mondo.

 

Estrae di tasca un accendino, l’accende e s’ode subito un gran scoppio: l’autogrill ora è in fiamme, esplode, brucia. La processione s’interrompe, si fermano, guardano fisso in avanti, inebetiti, davanti all’ultimo crash: silenzio, fuoco, fuoco che brucia legno, vento, notte.
Durante questa scena, lentamente, la luce muta; e dalla luce dell’incendio, si va a una luce d’alba, trasparente.

Adesso tutti parlano, ognuno in lingua propria, a monosillabi o quasi, a mozziconi.
È un linguaggio balbettante, come all’inizio però esausto, placato.

“Non ci aveva dato un’altra settimana? Avevo capito così. Che te ne importa? Cristo. Che t’importa? E adesso? Resta. Devo andare. Aspetta. Ho paura. È normale. Aspetta. Mai avere paura. Mai. Dove sei? Qua. Ci sei? Ci sono. Ci sei? Ci sono. Cristo. Che t’importa? Guarda i fiori. Che cosa? I fiori. È un parcheggio. È lo stesso. Ci sei? Sì, ci sono. Non vai? Dove vado? Cristo. Pietà. Signore. Pietà. Che t’importa? Andiamocene. Sì. Venite. Io resto. Calma. Sì, calma. Tranquilli. Ma sì. Ho capito. Tranquilli. Che bello. Che cosa? Non so. Non lo so. Non lo so. Che aria! Addormenta. È l’ozono. Gli abeti. Può darsi. Si è aperta. Che cosa? La cassa. La cassa? Il torace. Si è aperto. Fa male? Per niente. Per niente. Ho paura. Respira. Ci sei? Sono qua. Che aria! L’ozono. Gli abeti. Il torace. Ha ceduto. Si è aperto. Fa male! Normale. Fa male. Normale. Ho una soglia. Normale. Del dolore, una soglia. È normale. Bassissima. Anch’io. Si alzerà. Vieni qui. Sono qui. Non ti vedo. Ci sono. Mi appoggio. Va bene. Resisti? Resisto. Che pace. Che cielo. Lo vedo.
(Ognuna e ognuno nella propria lingua materna) Si schiara. Si schiara. Si schiara.”

Nel frattempo la luce è diventata d’alba, vincendo la luce dell’incendio; e quest’alba sono fari verso il pubblico, che ne è abbagliato.
Dopo, viene il buio.