L'ASSAGGIATORE DEL RE

monologo di

Aquilino


Monologo per un attore.



Mi chiamo Bastardo.
Sono stato allevato dal boia, ma solo il re è stato buono con me.
Viva il re!

Mia madre di professione faceva la padrona di trenta oche. Era una donna molto bella e indipendente. Fu accusata di stregoneria e portata nei sotterranei reali. Lì mi partorì, prima di essere dissanguata dagli assalti dei dignitari anziani, bramosi di accoppiarsi con una strega nel momento della sua morte.
Per sette giorni giacqui dimenticato tra il cavalletto e la ruota, in una pozza di sangue. Era quello di mia madre e me ne nutrii.
Quando il boia mi notò, mi sballottò per vedere se ero vivo. Io non piansi, ruggii.
“Non hai voluto morire? Peggio per te” disse lavandomi con una secchiata d’acqua.
Fu lui a insegnarmi il mestiere. Ma fui solo io a occuparmi di me stesso. Comunque… viva il boia!

In pochi mesi imparai a stare eretto, a camminare, a parlare. Dovevo fare ogni cosa in fretta. Il ritardo mi avrebbe ucciso.
Ero libero di muovermi nei sotterranei. Si estendevano al di là delle mura del castello e passavano sotto il villaggio, la foresta, il lago, le colline e forse anche il mare. Quando compii otto anni, feci un fagotto con un tozzo di pane e una fiasca d’acqua e partii per scoprire dove finissero: sarei andato a occidente e se fossi rientrato da oriente avrei dimostrato che quelli erano i sotterranei del mondo. Me ne importava qualcosa? No, ma avevo otto anni e volevo compiere un’impresa.
Stetti via un anno. Quando tornai presi tante di quelle bastonate che il corpo mi si riempì di gobbe. Ne era valsa la pena? No. Poiché mi ero perso, non potevo dimostrare niente. Avevo, però, visitato un bel po’ di sotterranei diversi dai nostri. Alcuni erano bassi e stretti, tanto che dovetti strisciare come una biscia per più di un mese; altri erano tanto alti che sul soffitto si formavano le nuvole e scoppiavano temporali spaventosi; altri ancora erano solo gallerie abitate da vermi grossi quanto il mio braccio: non erano cattivi, solo un poco salati.
Viva il cibo in tutte le sue forme!
Crebbi robusto e sano. Facevo molto sport. L’attività che preferivo era il corpo a corpo con i ratti grossi quanto me. Mi assalivano con un sorriso beffardo sotto i baffi che usavano come pugnali. Erano baldanzosi e facevano conto di soverchiarmi in meno di cinque secondi. Ingenui. Li ammazzavo a morsi. Portavo le carcasse a Vincenzo, il boia che mi aveva adottato… e la sera facevamo la grigliata.
Vincenzo era alto come due uomini, largo come tre, forte come cinque, brutto come pochi, cattivo più di tutti, ottuso come nessuno… ma a modo suo mi voleva bene e c’erano dei giorni in cui non mi picchiava.
Lo dovevo chiamare zio Enzo, affinché gli altri, che lo chiamavano boia Vincenzo, capissero quanta familiarità ci fosse tra me e lui. Lui, per me, fu infatti padre, fratello e madre. Io, per lui, fui sempre e solo Bastardo.
Non avevo amici. Da quelle parti, dichiararsi amico di qualcuno era peggio che offendere e ci scappava subito una rissa sanguinosa.
Viva i nemici! Quelli, dopo, li puoi mangiare senza imbarazzo.

Dalla finestrella con l’inferriata spiavo i ragazzini. Prendevano a calci una palla e gridavano incitamenti e insulti. Allora anch’io urlavo: Andate via, bastardi!
A me piaceva il silenzio. Forse perché c’era una tale confusione, nei sotterranei! Gente che strillava, bestemmiava, imprecava, ululava…
C’erano quelli che duravano un mese e per tutto il mese emettevano urla. Dove trovassero tanta energia, proprio non lo so. Io mi innervosivo e gli andavo abbastanza vicino, ma non troppo per non essere colpito dagli schizzi, e gli sussurravo: Muori, no? Muori, così non soffri più e la smetti di gridare!
Pur così piccolo, ero già ricco di buonsenso.

La mia era una dieta di proteine. Sui bracieri arrostivo le bestie che catturavo. Certi biscioni!... Sgranocchiavo pipistrelli che era un piacere. Gli altri no, loro non mangiavano bestiacce. I loro piatti erano a base di filetto e fegato di giustiziato, ma a me che cosa toccava? Mi toccavano gli avanzi, di solito le ossa con brandelli di muscolo attaccato. Un giorno, il giorno che compii dieci anni, lo zio Enzo mi disse: Ormai sei un uomo, è ora che ti guadagni la pagnotta.
Finalmente! Non solo avrei staccato bistecche dalle cosce dei morti torturati, ma… il pane! Quanto lo desideravo! Che tormento sentirne il profumo e non poterne avere un pezzo! Di notte masticavo saliva e uggiolavo per la bramosia, mentre in sogno mordevo pagnotte calde e fragranti.
Da anni mi allenavo con i cani e con i gatti che attiravo nei sotterranei con gli avanzi delle grigliate di topo. Avevo il mio stanzino con il gancio al soffitto, il cavalletto di misura ridotta, una piccola ruota e una serie di tenaglie, seghe e trapani adatti alle mie mani di bambino.
Una volta lo zio Enzo mi disse: Bel lavoro. Avevo svuotato un cane senza mai lasciarlo morire, e tenevo in mano il cuore che pulsava ancora. Mi ero talmente emozionato ed ero talmente fiero di me che quando lo zio Enzo se ne fu andato riattaccai il cuore al cane per farlo vivere ancora un’ora.
E invece morì, quel cane vile.
Abbasso i cani! Gli divorai il cuore, crudo.

Venne il momento del mio primo essere umano.
Si trattava di un terrorista che non si era inchinato al passaggio del re.
Sapevo che lo zio Enzo mi spiava, anche se fingeva di dedicarsi ad altro. Avrebbe capito subito se ci sapevo fare e se valeva la pena di continuare con il mio addestramento. Mi concentrai per non fare nemmeno un errore.
L’uomo aveva un’emorragia e se avessi insistito con quello che stavo facendo l’avrei perso prima ancora di dare inizio alle grandi manovre.
Gridava cose stupide e insultava il re e io non potevo permetterlo, quindi mi trovai ad affrontare il primo dilemma: gli strappo la lingua sì o no?
Non è mai una buona mossa di partenza, perché intervenire su uno che non grida impedisce di dare il buon esempio agli altri in attesa; d’altronde, nessuno poteva permettersi di essere maleducato con il re.
Decisi di amputargli solo un pezzo di lingua e di cauterizzare la ferita con il ferro rovente, così avrebbe potuto urlare, ma non parlare.
Era un intervento delicato, ma me la cavai in modo egregio.
Evitai amputazioni e lesioni profonde e non sprecai una sola goccia di sangue, procedendo con schiacciamenti diffusi, arroventamento dei bulbi oculari, storpiamenti vari e bruciature dei capezzoli, del pene e dei testicoli. Gli infilai anche un ferro rovente nell’ano, per fargli intendere quale fosse la mia opinione nei suoi riguardi.
Appena perdeva i sensi, gli buttavo addosso acqua salata mista a calce. Riuscii così a farlo durare quasi sei ore. Lo zio Enzo, con una manata sulla testa che mi scaraventò lungo disteso sul pavimento, mi fece intendere che ero stato promosso aiutante.
Non ero più un ragazzino a caccia di cani e gatti, ero diventato un uomo. Che poteva mangiare vera carne come gli altri uomini dei sotterranei. E che aveva tanta fame arretrata e tanta voglia di mostrare a tutti quanto era bravo.
Viva i veri uomini!

Quando compii i tredici anni, riuscii a mandare lo zio Enzo in vacanza. Lo iscrissi alla crociata contro gli adoratori del Bue. Si divertì moltissimo, prima di essere catturato, bollito, fatto in spezzatino e servito ai maiali.
L’esuberanza giovanile, il gusto per la sperimentazione, la naturale curiosità di conoscere persone nuove mi stimolarono a dare uno stile diverso al lavoro.
Feci adattare l’illuminazione alle mie esigenze, con punti luce che crearono angoli suggestivi. Rinnovai l’arredamento e feci disporre divanetti, tappeti, tavolini bassi; e poi una ghiacciaia; e infine un mobile bar e una dispensa.
Approfittai di un prigioniero acculturato, uno scrittore di teatro che aveva offeso la religione. Gli feci scrivere una supplica al re. Io non ho mai avuto tempo per imparare a scrivere e nemmeno voglia di perdere tempo. Gli promisi una riduzione delle sofferenze e mise giù delle parole proprio belle. Lo ringraziai e gli tagliai la testa.
Seppi poi che il re scoppiò a ridere, quando lesse la mia supplica, ma solo perché era entusiasta della mia iniziativa. Ebbi così a disposizione cinque suonatori che sistemai, nudi e con la testa rasata, nell’angolo delle ossa.
Quindi feci stampare gli inviti.
Inviti molto esclusivi. Non volevo feccia nel mio locale.
Viva la nobiltà!

All’inizio, solo alcuni nobili annoiati scesero le scale di pietra viscide sulle quali avevo steso una passatoia di velluto rosso. Erano scettici e snob, ridacchiavano annusando flaconi di profumo e tirando su nel naso una polverina bianca. Mi squadrarono con alterigia e gradirono l’aperitivo con sussiego, come se gli facesse schifo.
Poi, però, servii la cena.
Ma che cos’è questa delizia? Ma che cos’è questo pasticcio di paradiso? Ma che cosa sono questi bocconcini d’estasi?
Mica potevo dirglielo. Mica potevo rispondere: coglioni di democratico, mammella di puttana, chiappa di ladro, fegato di strega, polpa di verseggiatore… Mica potevo dirgli che nel vino c’era il sangue dei disgraziati che loro stessi avevano condannato e che il pane era fatto con la farina delle loro ossa. L’unica cosa importante era che gli piaceva. Uh, come gli piaceva la mia cucina!
Dovetti buttarli fuori, traballanti e scarmigliati, che era già mattino.
La sera dopo il locale era pieno. C’erano anche le dame.
Scesero le scale strillando quando i topi guizzarono tra le loro gambe fasciate di seta.
Non furono da meno dei signori. Mangiarono, bevvero, lanciarono gridolini di appagamento, applaudirono, diedero suggerimenti idioti, provarono a fare incisioni sul petto dei prigionieri più aitanti, andarono perfino in calore e dovetti convincere una coppia dai bollori eccessivi a ritirarsi nel separé.
Ci tenevo a un certo decoro.
Viva me.

Dopo quindici giorni, venne il re.
Solo un giro di controllo, disse. Solo per assicurarsi che i suoi prigionieri fossero trattati in modo adeguato. In realtà, aveva sentito decantare la mia cucina e un crapulone come lui non aveva resistito.
Mangiò da re.
La voce si sparse. Tutti i nobili vollero assaggiare i miei piatti ormai famosi: Cocktail de turcas, Flan de spaccaginocchi, Bourride de mordacchia, Garrotta à l’étuvée avec sauce gogna, Soufflé di collare spinato à la biscaïenne, Mousse di achiacciatesta, Fricandeau di libertino impalato…
Mi lanciarono monete d’oro come se fossero chicchi di riso e io diventai ricco. Non sapevo che cosa fare dei soldi e ammucchiai le monete in un angolo buio, dove rimasero fino alla mia scomparsa, quando i miei aiutanti se le contesero ammazzandosi tutti a vicenda.
Viva la povertà!

Visto che lo zio Enzo non tornava dalla crociata, fui nominato sia primo boia sia primo cuciniere reale. Viva il bastardo boia reale! Viva il bastardo cuciniere reale!

Con la duplice nomina non ebbe inizio un futuro luminoso, ma la mia fine. Ahimé, il lavoro non mi disse più niente. Taglia, scortica, squarta, arrostisci, strappa, ustiona, schiaccia, metti a bollire, aggiungi aromi, assaggia la salsa, sperimenta nuovi piatti, arrosto di giustiziato ancora vivo… sempre le stesse cose.
Avevo tre assistenti, erano diventati bravi, sempre più spesso lasciavo che facessero tutto loro.
A diciassette anni mi sentivo già vecchio e inutile. Perché non riuscivo a godermi il successo?
Dormivo poco. Le urla dei prigionieri non mi facevano più da ninnananna. Erano diventate un’ossessione. Come lo sbattere di un’imposta nel silenzio della notte.
Mi alzavo e sbraitavo: Urla! Sempre urla! Basta urlare! Ma è vita, questa? E sempre questa puzza di cucina!
Mi alzavo e ne ammazzavo qualcuno, ma gli altri urlavano con più convinzione. Allora fuggivo nei sotterranei profondi e dormivo con i topi. Lasciavo che mi assaggiassero qua e là, in ricordo dei vecchi tempi.
Fu in quello stato d’animo che provai curiosità per la mia clientela. I cavalieri e le dame erano diversi dai prigionieri e dai miei assistenti: non puzzavano, si muovevano con grazia, parlavano cinguettando, ridevano arpeggiando e non smettevano mai di parlare e di ridere.
Noi, meno si parlava meglio era e mai e poi mai si rideva. Al massimo un ghigno in faccia ai prigionieri intellettuali.
Mi misi ad ascoltare le loro conversazioni.
Mi sembrò incredibile che nel mondo di sopra esistessero tutte le cose di cui parlavano. Avevo sempre creduto che il mondo di sopra fosse più o meno come il mondo di sotto, un sotterraneo rovesciato; invece, a sentire loro, c’erano meraviglie da perdersi nei sogni a occhi sbarrati, come in un labirinto. Cercavo di immaginare carrozze foreste arazzi laghi selvaggina levrieri cristalli cannoni palazzi…
Mi resi conto che non avevo ancora conosciuto il mondo reale, quello dove c’era la luce del sole.
Nemmeno una donna avevo mai conosciuto.
Ma sì, ogni tanto si faceva sesso con le prigioniere, prima e dopo. Capii, però, che c’era un altro tipo di sesso, che poteva durare più di un minuto e che si faceva con calma, senza squartare.
Si chiamava amore. Quando gustai la dama che era stata tanto incosciente da appartarsi con me, scoprii un nuovo gusto. Mi piacque. La sua carne non sapeva di sudore, orina e terrore. Deliziosa. Me la cucinai di notte, in una solitudine frenetica.
Viva l’amore!

Il re mi volle come suo cuciniere personale. Va bene, risposi. L’ordine era arrivato al momento più opportuno. Forse mi sarei annoiato di meno, nel mondo di sopra. Ero eccitato e accettai a occhi chiusi anche un altro incarico. Il re aveva appena perso l’ultimo assaggiatore e io fui subito disposto a rimpiazzarlo. Più che un lavoro, mi sembrò un divertimento.
Dovetti cambiare le mie abitudini e prima ancora dovetti cambiare gli indumenti che avevo portato per tanti anni senza mai toglierli. Dovetti anche fare un bagno e mi si impose di farne uno tutti i giorni. Mi lamentai per lo spreco d’acqua, ma capii che tutto doveva essere sprecato, altrimenti non sarebbe stato degno del re. Anche di assaggiatori c’era stato uno spreco: quindici in un mese. Mi fu assegnata una stanza e anche quella mi sembrò uno spreco. Nella stanza c’erano perfino i mobili e dissi che sarebbe stato uno spreco, perché non ne avevo bisogno. Mi mandarono una donna e, imbarazzato, dissi che era uno spreco, perché mi ero sempre arrangiato da solo.
Invece mi stupii di me stesso: superai in fretta l’imbarazzo facendo con lei quel tipo nuovo di sesso, dopo il quale la donna rimaneva viva.
Fra tanti sprechi, ne approfittai per avanzare le mie richieste: ogni giorno mi doveva arrivare carne fresca dai sotterranei. Dai sotterranei? Non dalle macellerie reali? No, proprio dai sotterranei. Ma nei sotterrai non c’erano stalle e pollai e nemmeno foreste per cacciare il cervo e il cinghiale! Chi se ne frega, voglio carne fresca dai sotterranei! Fui accontentato.
Viva la carne fresca!
C’era una congrega di invidiosi che ci avrebbe voluti tutti e due morti, me e il re. I veleni nelle pietanze furono raddoppiati. Come accidenti facessero non lo so, dato che le carni arrivavano direttamente dai sotterranei. E poi ero io l’unico a maneggiarle. Ma quello era un mondo fatto così: spie, congiure e veleni.
Dovetti ingurgitare le sostanze più tossiche, fabbricate dagli alchimisti nei laboratori in cui mi era vietato entrare. Oppure procurate dai mercanti giunti dall’Africa, dalle Indie o da chissà che cavolo di posto.
Io bevevo e mangiavo senza rovinarmi l’umore. Nessun veleno mi era letale.
Dovetti ringraziare l’allenamento sostenuto nella prima infanzia, quando fui svezzato con carne e piscio di topo di fogna. L’effetto dei veleni si manifestava solo con emicranie, mal di stomaco e vertigine. Ma in questo modo il re veniva messo in allarme e cambiava menù.
Era stato snervante cambiare assaggiatore ogni due giorni. Finalmente il re poteva contare su di un assaggiatore stabile, che non gli avrebbe vomitato addosso e sarebbe sopravvissuto alla colazione. Ero nelle sue grazie. Ero potente.
Viva ancora il re!

Fu in quel periodo che alcuni nobili rottinculo scoprirono l’origine della materia prima della mia cucina. Scoppiò lo scandalo. Fui arrestato e incatenato nel mio sotterraneo, tra i miei assistenti allibiti. Rimasi in catene solo tre ore. Il re in persona venne a liberarmi. Aveva convocato d’urgenza il consiglio dei ministri. La delibera era stata votata all’unanimità: che riprendessi all’istante le mie funzioni i e miei onori, perché alla mia cucina non si doveva rinunciare.
Erano intossicati, i damerini. La carne di torturato li aveva drogati. Non potevano più fare a meno dei miei disgraziati. La proclamazione della mia cucina come buona, salutare e metaforica della vera giustizia convinse anche gli ultimi recalcitranti che una bistecca di eretico al sangue avrebbe allungato la loro vita futile.
Le richieste aumentarono e divennero eccessive: non c’erano, nel regno, tanti reprobi da torturare e giustiziare!
Andai dal re e gli dissi: Re, non ti sembra tempo di fare una guerra? Ho pronte nuove ricette per i popoli che abitano i regni confinanti. Da leccarsi le dita.
Non volevo una guerricciola da poche migliaia di uomini, quella me la potevo fare da solo, ma una guerra mondiale, in modo che ci fosse da viaggiare. Avrei conosciuto altri usi e costumi di combattimento, ammazzamento e tortura. E, perché no, anche di cucina. Mi sarei divertito un sacco.
Partimmo. Il popolo ci salutò festosamente. Dopo tre giorni vincemmo la prima battaglia. Una montagna di teschi.
Dopo sei mesi il re era stanco e voleva fare la pace per tornare al castello. Io avevo previsto almeno cinque anni di guerra e mi arrabbiai e protestai e lui mi minacciò e io capii che fin che lui fosse stato il re e io un suddito non mi sarei potuto divertire come volevo.
Lo ammazzai. Non lo feci di notte o a tradimento. Lo ammazzai davanti a tutti tagliandogli la testa con un colpo netto e preciso. Ero un professionista. Gridai: Il re è morto! Viva il re! Gli tolsi la corona e me la ficcai sulla testa. Poi appesi il cadavere al gancio, lo feci a pezzi e lo cucinai. Fu un banchetto molto chiassoso. I presenti non sapevano più che cosa dire e che cosa fare. Li avevo spiazzati. Molti si ubriacarono per evitare di schierarsi. Molti si ammazzarono tra di loro. Io ammazzai i superstiti. Ammazzai anche i figli dei nobili ammazzati, le loro dame, e poi i dignitari, i paggi e infine tutti quelli che mi andava di ammazzare.
Poi, presi il popolo e lo portai in giro per il mondo, ad ammazzare tutti quelli che incontravamo.
Ne incontrammo tanti. Dopo un anno non rimase più nessuno. Eravamo ridotti alla fame.
Salii sulla cima della montagna. Allungai lo sguardo verso ognuno dei quattro punti cardinali. Vidi ovunque colonne di fumo salire vorticose. Il mondo era mio prigioniero e io ne ero l’assaggiatore.
Scesi dalla montagna e comandai di prepararsi alla marcia. Si tornava a casa. Fu un viaggio silenzioso. I più forti divorarono i più deboli. Quando arrivammo al castello, fummo accolti da un silenzio tetro: tutti pelle e ossa, tutti folli e feroci.
Scesi nei sotterranei, ammazzai gli assistenti e i pochi prigionieri ancora in vita. Tirai un sospiro di sollievo e di soddisfazione.
Ero a casa.
Scesi nei sotterranei più profondi e ripartii all’esplorazione delle viscere del mondo.
Ed eccomi qua.
In questa oscurità, in questo silenzio, in questo brulicare di occhietti crudeli, in questa verità di vita che divora vita, ora mi sento felice.
Sto ancora percorrendo le budella nelle quali i sogni sono incubi. Ogni tanto riaffioro in superficie per rendermi conto del cammino percorso. Sono un fiore velenoso che sboccia all’improvviso in una piazza di paese, in un pascolo, in una strada, dentro una casa… Mi guardo intorno, vedo donne che preparano il pranzo, bambini che giocano, uomini che lavorano… Ammazzo e divoro tutti quelli che vedo e torno nel labirinto del mio pensiero cupo, cercando la via per il cuore del mondo, che voglio divorare. Crudo, come il cuore del cane che non era vissuto abbastanza per soddisfare il mio piacere. Io quanto vivrò? Sotto i miei piedi scorre un rivolo di sangue e fango, ma qui non scorre il tempo e io sono votato all’eternità.
Mi nutro dell’umanità che si è sempre e da sempre nutrita di sé stessa. Così mi hanno insegnato. Vorrei solo qualcuno, ora, a cui trasmettere la mia arte. Ma, poi, lui divorerebbe il suo maestro.
Io sto bene da solo.
Tutto il resto è cibo.