'A sciaveca di Vincenzo Morvillo |
![]() Un orgiastico rito dionisiaco, dunque, intessuto di materia mitica e misterica, in cui il poeta è presente sulla scena –Borriello interpreta proprio quel Mare che, come dicevamo prima, tanta somiglianza ha con il satiro dionisiaco- e svolge una funzione sciamanica, quasi di creazione della visione, per riprendere quanto diceva Nietzsche a proposito de “La nascita della tragedia”. La presenza della musica dal vivo, poi, aggiunge suggestione al tutto, calando l’intera messinscena in una dimensione di magia ancora più densa e nella quale si intrecciano danza, gioco, allucinazione, stato contemplativo, trasfigurazione artistica. Sul luogo scenico di “’A sciaveca” il dionisiaco è presente –se così si può dire- dall’inizio alla fine, e non può non far tornare alla memoria le parole che Giorgio Colli scriveva ne La sapienza greca vol.I : «Dioniso è l’impossibile, l’assurdo che si dimostra vero con la sua presenza. Dioniso è vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda». E più avanti: «Nel crearlo, l’uomo è stato trascinato a esprimere sé stesso, e qualcosa ancora al di là di sé. Dioniso non è un uomo: è un animale e assieme un dio, manifestando così i punti terminali delle opposizioni che l’uomo porta in sé». In conclusione, qui sono il mito e la lingua, e con essi il conseguente apparato simbolico, a costituire il nucleo formale e filosofico dell’intera messinscena. Del resto, a suggerircelo è lo stesso programma di sala che, dopo aver chiarito il significato del termine sciaveca –parola che, nell’area flegrea, i pescatori usano per indicare la rete da strascico adoperata per la pesca sotto costa, sporca sempre di alghe melmose e di fanghiglia- ci informa che: «[…]L’ordito delle sue fitte trame rinvia, nell’immaginario drammaturgico di Mimmo Borrelli, all’ingarbugliato patrimonio di fatti, memorie, mitologie di uno dei territori campani più ricchi di Storia[..]». Proseguendo con le dichiarazioni del regista Davide Iodice: «’A sciaveca ha la forza favolistica e la blasfemia arcaica di un vangelo apocrifo. Una sorta di marina commedia che annega Dante nel mare colerico della penisola flegrea[...]Su una musicalità percussiva da canto sopra il tamburo, da canto a ghiastemma, mischia passioni umanissime e crudeltà apocalittiche[…]fino all’ultima ragione di una storia tanto simbolica quanto autentica e spietata». La storia, come abbiamo già altre volte ripetuto, ha la sua ambientazione a Torregaveta, paesino di pescatori dell’area bacolese, dimenticato -come ci informa lo stesso autore nella sinossi- «da Dio ma non dalla miseria, che rende infame chi lo abita». Narra di tre fratelli, Tonino ‘u bbarbone, il più grande, Peppe Scummetiello, il secondogenito nonché prete del paese, e Cinqueseccie, un fratellastro mai legittimato -nato dallo stupro, commesso dal padre dei tre, a danno di una contadina bacolese- che si vendica di questa sua condizione con l’assassinio di Tonino e lo stupro –ancora uno stupro- della sua innamorata, Angela, innocente orfanella appena maggiorenne. Tonino però tornerà, dopo un anno trascorso nelle profondità marine, e, come un angelo sterminatore, come un “Cristo rovesciato”, invece della salvezza porterà con sé la sua collera/colera vendicatrice, trasformandosi, infine, in un pesce. A questo punto, appaiono chiari i riferimenti simbolici e mitici, ma anche escatologici, che fanno da sfondo a questa narrazione/messinscena, in bilico tra la fiaba e l’apocalisse: il Mare, il Naufragio, la Tempesta, il Tradimento, la Vendetta, il Mascheramento, la Metamorfosi, la Resurrezione, l’Amore e la Morte, in un continuo fondersi e confondersi di miti pagani, mitologie cristiane e ancestrali pulsioni animalesche di una tribale modernità. Ognuno di questi miti sembra irrompere nello spettacolo con il furore, la visceralità, l’ebbro delirio del vino, andando a creare ora un piccolo incantamento scenico, ora una danza macabra e dolorosa; ora un animato inferno boschiano, ora un quadro di struggente carnalità; ora un’immagine di rara bellezza onirica, ora un bestemmiante girotondo di demoni rabbiosi; ora un afflato poetico di musicale emozione, ora un orgiastico sabba insozzato di sperma e di sangue di vergine; ora un lancinante canto di amorosa disperazione, ora l’abisso maleodorante che esala dalla bellezza stuprata. Tutto ciò, grazie alla capacità allucinatoria della regia di Davide Iodice che -come sempre minuziosamente attento ai dettagli e fantasmagorico nella capacità creatrice di visioni sceniche- dirige, con mano sicura ma colma di lirismo e commozione, questa seconda opera di Mimmo Borrelli, autore dalla lussureggiante capacità lessico/vernacolare e dalla scintillante fantasia poetica. Davide Iodice ci fa sprofondare in un liquido amniotico cupo e sudicio –come sudicio di abiezione è il ventre materno che lo ha generato- metafora talassica in cui si con/fondono principio e fine, nascita e morte, benedizione e maledizione. E alla fine, infatti, l’Amore tra Tonino e Angela si confonderà con la Morte, in un epilogo apocalittico che lascia davvero poca speranza. «...Poi vidi salir dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste[…]E tutta la terra, meravigliata, seguiva la bestia[…]E le fu data una bocca che proferiva parole piene di arroganza e bestemmie.[…]E aperse la sua bocca per proferir bestemmie contro dio, bestemmiare il suo nome, il suo tabernacolo e quelli che hanno la loro dimora nel cielo[…]E l’adoreranno tutti quegli abitanti della terra, i nomi dei quali non sono scritti, sin dal principio del mondo, nel libro di vita dell’agnello che è stato sgozzato. Chi ha orecchi intenda! Se qualcuno è destinato alla schiavitù, andrà in schiavitù; chi uccide con la spada, di spada perirà». Sono le parole dell’Apocalisse di San Giovanni, e precisamente quelle che attengono al secondo segno: La bestia del mare, che qui sembrano inverarsi nella tragedia che ha colpito questa comunità di pescatori, tutti macchiatisi di una colpa immonda: ecco l’approdo escatologico dello spettacolo! Splendido, va detto infine, il lavoro sugli attori, i quali sembrano muoversi in scena come in una sorta di trance, e le cui energie psico-fisiche sembrano emergere dagli strati più intimi dell’essere e dell’istinto, scaturendo in una sorta di transluminazione. In tal senso, vanno assolutamente sottolineate le prove di Massimo De Matteo –Tonino ‘U bbarbone- capace di recitare in situazioni di respirazione al limite dell’iperventilazione e di toccare corde emotive e fisiche diversissime: dalla rabbia alla tenera pietà, dall’incredulità all’azione più incalzante; di Floriana Cangiano -Angela- la cui voce tocca tonalità parossistiche e il cui canto, pieno di dolcezza e dolore, penetra e commuove; di Angelo Laurino, un Peppe Scummetiello di rara incisività nella sua ipocrita abiezione; e di Davide Compagnone, un Pacchione che sembra già portare nel nome quella follia vaneggiante che contraddistingue il suo personaggio. Tutti bravissimi, comunque, e splendide le scene di Tiziano Fario. |