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'A sciaveca
di Vincenzo Morvillo
Nell’assistere a “’A Sciaveca”, spettacolo scritto da Mimmo Borrelli –già premio Riccione nel 2005 per ‘Nzularchia- prodotto dal Mercadante Teatro Stabile di Napoli, ed andato in scena al Teatro San Ferdinando con la regia di Davide Iodice, mi sono tornati alla mente, in maniera quasi inesorabile direi, alcuni versi di opere di Moscato: Partitura principalmente e Rasoi. Il motivo credo vada ricercato, innanzitutto, in una certa affinità, nel lavoro di Borrelli, con stilemi linguistici e strutture poetico-drammaturgiche tipiche del teatro moscatiano; e poi, non di meno, nel fatto che, sin dall’incipit di questa tragedia in versi in lingua flegrea -composta di tremila endecasillabi sciolti e dieci canti- si ha la sensazione di trovarsi spettatori di eventi i quali, collocandosi in una dimensione extratemporale, e dunque sostanzialmente metastorica, ma ben determinata dal punto di vista spaziale -la vicenda si svolge, come vedremo, a Torregaveta, località dell’area flegrea- si definiscono nella loro essenza favolistico/mitologica e linguistico/simbolica: dualismi che costituiscono gran parte del patrimonio tematico ed estetico-filosofico anche all’interno della drammaturgia –intesa tanto come testo letterario quanto come testo spettacolare- dell’autore, attore, regista di Luparella, Piéce Noire, Compleanno, Scannasurice, ecc. Insomma, per chiarire, quando ‘U Mare, personaggio dalle sembianze umane, Voce/Poeta-narrante/veggente, metà dio metà bestia -dunque, incarnazione dionisiaca per antonomasia- comincia il racconto, in lingua bacolese, di ‘A sciaveca –storia al centro della quale vi sono tre fratelli, i cui unici vincoli sentimentali sono l’odio, il sangue, lo stupro- è stato abbastanza immediato andare con la memoria agli incipienti versi moscatiani di Rasoi: «La fogna è il vizio che la città ha nel sangue», ma soprattutto all’appestato lirismo di hölderliniana preveggenza con cui Enzo Moscato ammanta quel Partitura al quale Mimmo Borrelli, autore di ‘A sciaveca, sembra togliere, a tratti, stilemi, immagini, costruzioni linguistiche e topoi drammaturgici, per farli propri e tradurli, con rinnovato vigore poetico e appassionata sensibilità filologica, in una lingua/vernacolo tanto folgorante e ricca di cromatismo nei suoi accessi visionari, quanto dura e lancinante negli arrochiti rantoli della lingua/parola -o, per dirla con Saussure, della langue/parole. Vorrei fare un esempio. In ‘A sciaveca, ‘U Mare, più o meno all’inizio, dice: «Sta renzecata ‘i costa schifata r’ ‘u Pataterno e r’ ‘a pruvvidenze, ch’echeggia ancora in parte eiaculata‘ncoppe ‘a nu lietto spuorco ‘i cunzeguenze, brulica sott’ e ‘ncoppe azzeriate ra nu popolo senza mamma nné pate: n’accolita ‘i cumpare spiccia-perete, vattiente ca vatteno fujente, stuoteche muort’ ‘i famme aspartate nel ghetto r’ ‘a scummunica cantate! Ciarpame elegiaco r’ ‘u catrame, cumpagnia filodrammatica di guitti! Nate ‘i sette mise eppure maje smammate…s’ ‘u metteno ‘nculo ll’une cu ll’ate!!…Ogni pertuso è bbuono ‘mmiez’ ‘a rocchia, pe’ cchesto ‘i ‘mmarroide ce spontano ‘mmocca!! Llane ‘a fede se sposa cu ‘a ghiastemma, mentre l’ammore divorzia cu ‘a collera! Stann’ addenucchiate cu nu rusario ‘mmane, ma senza Ddio comme ‘u turco e ‘u crestiane, pe’ stabbili’ na vota e pe’ sempe chi è cchiù ‘nfame cu ‘a bibbia ‘ncopp’ a ll’uocchie e ‘mmocca ‘u curane?!». Mentre in Partitura, ‘A Voce, a sua volta: «Brutta, sporca, lurida, chiavica città! Brutta, sporca lurida, chiavica, zoccola città! Brutta, sporca, lurida, chiavica, zoccola, immondissima città![…]Bestie, Bestie, Bestie! Nisciuna bestia è chiù bestia ‘e vuie, nisciune animale è chiù animale ‘e vuie, campanno…e scennenno zuoppe e sciancate, mughiusurde, cecate, criature cu tre ccape, senza cosce, cu ciento vracce a raggiera[…]Tanto ammore, tanta devozione del Creato è inutile! Nun passa suspiro ‘e morte ca vuie nun ‘o ‘ngannate, nun passa palpito ‘e nature, sennuzzo ‘e vita, che voi non lo inculiate! Stirpe di sodomiti, imbroglioni dal sorriso nero, popolo ‘e magna-pignatte ce simme astrignute a sanghe, cu nu sortilegio, quand’eremo piccerille!». Ovviamente, se nel giovane Borrelli riecheggiano sonorità, atmosfere, accenti, visioni, umori moscatiani, evidenti sono anche le diversità, a cominciare dalla lingua, dall’articolazione segnico-fonematica testuale e scenica. Se la lingua di Moscato, infatti, è una mescolanza multisonora e ritmica di napoletano e altri idiomi -italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo, greco, latino, saraceno- un po’ artificiale, costruita “sub vitro” come in un’officina alchemica, privata e segretissima, un po’ ricalco esagerato, iperbolico, ridondante, del caos multietnico-poliglottico che ci gira attorno; incontro di armonie-cacofonie di echi urbani, decibel, rumori, urla; in linea con la tradizione idiomatica dei padri e in rotta con loro; la lingua di Borrelli si manifesta, si ri/vela in una sorta di sprofondamento abissale, in quello che mi piacerebbe definire, con una linguisteria, l’infantile, arcaica lalangue corpo/voce di matrice lacaniana; una lingua svuotata di ogni funzione rappresentativa ed investita di una significanza “creatrice di senso”: dunque una lingua teatrale e teatrante. La lingua, come teorizza in effetti Lacan, non è solo separazione, annullamento, negativizzazione, “significantizzazione” del godimento; la lingua è essa stessa corpo, intrusione e apparato di godimento. C’è una fisicità, un erotismo, una corporeità di lalangue che il poetico, e di conseguenza la poesia teatrale esalta. Lalangue, in conclusione, non è altro che la lingua materna, il dialetto o meglio, nel caso di Borrelli, il vernacolo la cui elegiaca musicalità, dovuta alla formalizzazione in endecasillabi sciolti, viene sfregiata dalla potenza abrasiva di una parola che è sempre eccessiva e crudele come a dirompere dalle oscure profondità dell’inconscio/mare. Una lingua che sulla scena, grazie alla sapiente regia di Davide Iodice, si fa carne e sangue, sperma maleodorante di stupro e bacchica follia, divampando –per dirla con Romeo Castellucci- in un incendio pantoclastico di corpi/demoni che trascinano lo spettatore in un inferno senza speranza di pacificazione.
Un orgiastico rito dionisiaco, dunque, intessuto di materia mitica e misterica, in cui il poeta è presente sulla scena –Borriello interpreta proprio quel Mare che, come dicevamo prima, tanta somiglianza ha con il satiro dionisiaco- e svolge una funzione sciamanica, quasi di creazione della visione, per riprendere quanto diceva Nietzsche a proposito de “La nascita della tragedia”. La presenza della musica dal vivo, poi, aggiunge suggestione al tutto, calando l’intera messinscena in una dimensione di magia ancora più densa e nella quale si intrecciano danza, gioco, allucinazione, stato contemplativo, trasfigurazione artistica. Sul luogo scenico di “’A sciaveca” il dionisiaco è presente –se così si può dire- dall’inizio alla fine, e non può non far tornare alla memoria le parole che Giorgio Colli scriveva ne La sapienza greca vol.I : «Dioniso è l’impossibile, l’assurdo che si dimostra vero con la sua presenza. Dioniso è vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda». E più avanti: «Nel crearlo, l’uomo è stato trascinato a esprimere sé stesso, e qualcosa ancora al di là di sé. Dioniso non è un uomo: è un animale e assieme un dio, manifestando così i punti terminali delle opposizioni che l’uomo porta in sé». In conclusione, qui sono il mito e la lingua, e con essi il conseguente apparato simbolico, a costituire il nucleo formale e filosofico dell’intera messinscena. Del resto, a suggerircelo è lo stesso programma di sala che, dopo aver chiarito il significato del termine sciaveca –parola che, nell’area flegrea, i pescatori usano per indicare la rete da strascico adoperata per la pesca sotto costa, sporca sempre di alghe melmose e di fanghiglia- ci informa che: «[…]L’ordito delle sue fitte trame rinvia, nell’immaginario drammaturgico di Mimmo Borrelli, all’ingarbugliato patrimonio di fatti, memorie, mitologie di uno dei territori campani più ricchi di Storia[..]». Proseguendo con le dichiarazioni del regista Davide Iodice: «’A sciaveca ha la forza favolistica e la blasfemia arcaica di un vangelo apocrifo. Una sorta di marina commedia che annega Dante nel mare colerico della penisola flegrea[...]Su una musicalità percussiva da canto sopra il tamburo, da canto a ghiastemma, mischia passioni umanissime e crudeltà apocalittiche[…]fino all’ultima ragione di una storia tanto simbolica quanto autentica e spietata». La storia, come abbiamo già altre volte ripetuto, ha la sua ambientazione a Torregaveta, paesino di pescatori dell’area bacolese, dimenticato -come ci informa lo stesso autore nella sinossi- «da Dio ma non dalla miseria, che rende infame chi lo abita». Narra di tre fratelli, Tonino ‘u bbarbone, il più grande, Peppe Scummetiello, il secondogenito nonché prete del paese, e Cinqueseccie, un fratellastro mai legittimato -nato dallo stupro, commesso dal padre dei tre, a danno di una contadina bacolese- che si vendica di questa sua condizione con l’assassinio di Tonino e lo stupro –ancora uno stupro- della sua innamorata, Angela, innocente orfanella appena maggiorenne. Tonino però tornerà, dopo un anno trascorso nelle profondità marine, e, come un angelo sterminatore, come un “Cristo rovesciato”, invece della salvezza porterà con sé la sua collera/colera vendicatrice, trasformandosi, infine, in un pesce. A questo punto, appaiono chiari i riferimenti simbolici e mitici, ma anche escatologici, che fanno da sfondo a questa narrazione/messinscena, in bilico tra la fiaba e l’apocalisse: il Mare, il Naufragio, la Tempesta, il Tradimento, la Vendetta, il Mascheramento, la Metamorfosi, la Resurrezione, l’Amore e la Morte, in un continuo fondersi e confondersi di miti pagani, mitologie cristiane e ancestrali pulsioni animalesche di una tribale modernità. Ognuno di questi miti sembra irrompere nello spettacolo con il furore, la visceralità, l’ebbro delirio del vino, andando a creare ora un piccolo incantamento scenico, ora una danza macabra e dolorosa; ora un animato inferno boschiano, ora un quadro di struggente carnalità; ora un’immagine di rara bellezza onirica, ora un bestemmiante girotondo di demoni rabbiosi; ora un afflato poetico di musicale emozione, ora un orgiastico sabba insozzato di sperma e di sangue di vergine; ora un lancinante canto di amorosa disperazione, ora l’abisso maleodorante che esala dalla bellezza stuprata. Tutto ciò, grazie alla capacità allucinatoria della regia di Davide Iodice che -come sempre minuziosamente attento ai dettagli e fantasmagorico nella capacità creatrice di visioni sceniche- dirige, con mano sicura ma colma di lirismo e commozione, questa seconda opera di Mimmo Borrelli, autore dalla lussureggiante capacità lessico/vernacolare e dalla scintillante fantasia poetica. Davide Iodice ci fa sprofondare in un liquido amniotico cupo e sudicio –come sudicio di abiezione è il ventre materno che lo ha generato- metafora talassica in cui si con/fondono principio e fine, nascita e morte, benedizione e maledizione. E alla fine, infatti, l’Amore tra Tonino e Angela si confonderà con la Morte, in un epilogo apocalittico che lascia davvero poca speranza. «...Poi vidi salir dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste[…]E tutta la terra, meravigliata, seguiva la bestia[…]E le fu data una bocca che proferiva parole piene di arroganza e bestemmie.[…]E aperse la sua bocca per proferir bestemmie contro dio, bestemmiare il suo nome, il suo tabernacolo e quelli che hanno la loro dimora nel cielo[…]E l’adoreranno tutti quegli abitanti della terra, i nomi dei quali non sono scritti, sin dal principio del mondo, nel libro di vita dell’agnello che è stato sgozzato. Chi ha orecchi intenda! Se qualcuno è destinato alla schiavitù, andrà in schiavitù; chi uccide con la spada, di spada perirà». Sono le parole dell’Apocalisse di San Giovanni, e precisamente quelle che attengono al secondo segno: La bestia del mare, che qui sembrano inverarsi nella tragedia che ha colpito questa comunità di pescatori, tutti macchiatisi di una colpa immonda: ecco l’approdo escatologico dello spettacolo! Splendido, va detto infine, il lavoro sugli attori, i quali sembrano muoversi in scena come in una sorta di trance, e le cui energie psico-fisiche sembrano emergere dagli strati più intimi dell’essere e dell’istinto, scaturendo in una sorta di transluminazione. In tal senso, vanno assolutamente sottolineate le prove di Massimo De Matteo –Tonino ‘U bbarbone- capace di recitare in situazioni di respirazione al limite dell’iperventilazione e di toccare corde emotive e fisiche diversissime: dalla rabbia alla tenera pietà, dall’incredulità all’azione più incalzante; di Floriana Cangiano -Angela- la cui voce tocca tonalità parossistiche e il cui canto, pieno di dolcezza e dolore, penetra e commuove; di Angelo Laurino, un Peppe Scummetiello di rara incisività nella sua ipocrita abiezione; e di Davide Compagnone, un Pacchione che sembra già portare nel nome quella follia vaneggiante che contraddistingue il suo personaggio. Tutti bravissimi, comunque, e splendide le scene di Tiziano Fario.