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Intervista a Renzo Martinelli
di Alice Calabresi
Un regista Renzo Martinelli che viene dal mondo della musica e delle arti visive, che si è formato al Leoncavallo di Milano e ora dirige il teatro i, piccolo spazio nel centro di Milano. Officina non solo drammaturgica, ma laboratorio scenico e musicale, il Teatro i ospita le maggiori compagnie italiane di ricerca e internazionali ed è luogo di scambio per iniziative, incontri culturali trasversali.
Martinelli è regista dello spettacolo La lente scura al Teatro Fondamenta Nuove di Venezia in scena l’11 e il 12 maggio. Un’elaborazione drammaturgica di Elena Cerasetti e Federica Fracassi, qui anche attrice, dagli scritti di Anna Maria Ortese.

Com’è nato lo spettacolo La lente scura?

Nel 2003, l’Italia stava attraversando un momento tragico, da un punto di vista politico, sociologico, culturale, antropologico. C’era un’impossibilità di vedere che cosa stava accadendo e un’autrice poco conosciuta come Anna Maria Ortese rimandava quest’immagine. Da lì è nata una drammaturgia. Si parla di una bambina con problemi di vista che abita nei bassifondi napoletani. Finalmente mette gli occhiali che prima non poteva permettersi e vede l’ambiente in cui vive. La scrittrice ha metaforizzato quest’immagine. L’attrice Federica Fracassi lavora quasi ferma all’interno di un quadrato illuminato. C’è un piccolo artificio, un dolly che la tiene imbrigliata in un quadrato di luce nel buio che potrebbe essere l’Italia. Vedere e non vedere. Visione occultata, realtà impedita. Impossibilità di vedere. E’ anche un parallelo con il nostro lavoro artistico, quando negli anni ‘90, era quasi un diktat non usare la parola che sembrava una cifra di antiquariato poetico. Invece i nostri spettacoli si sono sempre basati sulla parola, su una drammaturgia. La bambina si sentiva libera e noi ci sentivamo liberi. Nel nostro lavoro tutto può essere visto se è contenuto da un testo, anche trasfigurando il testo. Testi che, a parte la collaborazione con Antonio Moresco e con Letizia Russo o come quelli “liberamente rubati” da Clarice Lispector, sono sempre stati autoprodotti come drammaturgia e scrittura all’interno della compagnia. Lo spettacolo non parte da un’idea scenica, ma sempre da una cifra poetica e di parola. Di solito dalla riflessione di uno scrittore, spesso da autori viventi, più che da testi teatrali. 

E’ uno spettacolo del 2003, a distanza di 4 anni ci sono stati dei cambiamenti?

No, è legato a quel momento, a quella necessità, da lì è partito un atto creativo che poteva portare solo a una riflessione e invece ha portato a un prodotto spettacolo. Ferma quel momento di analisi poetica. Oggi lo rifarei completamente diverso; per noi gli spettacoli non subiscono trasformazioni.

Oggi c’è un fermento teatrale interessante attraverso gruppi di ricerca come il teatro i?

C’era negli anni ‘90 una tensione poetica molto interessante, parlo dei Motus, Teatrino clandestino, Fanny Alexander, ma veniva occultata la parola. Ma io dicevo: «se ci fosse una catastrofe in cui tutto si distrugge, io userei ancora la parola per chiedere aiuto». C’è stato uno strano movimento e assestamento. Noi siamo rientrati in questa nouvelle vague teatrale. Ci chiamavamo Teatro Aperto e ci occupavamo della programmazione culturale del centro sociale Leoncavallo e facevamo là le prove. Poi 2 anni e mezzo fa in collaborazione col Comune ci hanno dato questo piccolo teatro che si occupa di drammaturgia contemporanea da tutti i punti di vista. Ci permette, oltre al nostro lavoro, di ospitare gruppi di eccellenza, come Rodrigo Garcia, Fanny Alexander. Analizzare tutto ora mi sembra difficile.

Quali sono gli artisti o i registi di teatro che apprezza?

Ho iniziato a costruire una mia specificità teatrale con Danio Manfredini, perché prima studiavo musica, facevo uno strano percorso tra la musica e l’arte visiva. Ci sono tantissimi altri, faccio fatica a fare nomi. Cerco di avere una visione libera. Alcune volte mi colpiscono autori come Robert Lepage, Bob Wilson, a volte mi sembrano fermi nella loro ricerca. Il Teatro Valdoca dei primi anni come i Magazzini teatrali dei primissimi anni (15- 20 anni fa) sono stati gli elementi che mi hanno introdotto nel mondo teatrale. Attingo molto dalla musica, dalle arti visive, da Francio Bacon a John Cage. Vedo una stessa cifra tra teatro, arti plastiche, musica. Come fosse una strana forma algebrica di uno più uno uguale a uno, vedo un’unica materia. Non è un percorso organizzato. Mi sono piaciute anche alcune cose di Ronconi e La Medea di Vasilev.

Progetti sul suo prossimo futuro?

Sto lavorando con Letizia Russo a un progetto che è un dittico di 2 atti distinti, ma monotematico: Dare al buio che debutta a luglio al Mittelfest di Cividale del Friuli, poi sarà in tournée.

Nel vostro teatro i che tipo di pubblico viene?

Questo piccolo luogo è una roccaforte culturale in città. In questi due anni la grossa soddisfazione è stata la presenza di un pubblico eterogeneo senza aver sacrificato la parte artistica, pur essendo una compagnia di produzione. Probabilmente per la scelta rigorosa che lega gli spettacoli, la sala di 100 posti è frequentata da abbonati del Piccolo Teatro, da anziani, da giovanissimi, da ragazzi dei centri sociali. Noi usiamo spesso il suono come matrice poetica dello spettacolo e siamo riusciti per questo ad avere un pubblico più addetto alla musica.
Gli spettacoli stanno su 10 giorni o più, quindi c’è modo di poterli vedere. E poi nel momento in cui pensiamo il suono, dobbiamo costruirlo noi, come le scene fatte da un nostro piccolo laboratorio.

Un piccolo miracolo...

Siamo completamente autofinanziati e autogestiti, ma adesso c’è un forte interessamento da parte delle istituzioni, perché è una realtà che si è fatta sentire. E con pochi finanziamenti, riusciamo a portare avanti questo teatro i che, tralasciando la parte economica, ci dà grosse soddisfazioni.