È impossibile non chiedersi come e perché ancora una volta Marco Martinelli imponga uno scarto al suo fare teatro, in un certo senso deragli rispetto ad aspettative che, sia l’abitudine o anche la comodità di un approccio critico schematico o, che in fondo è la stessa cosa, politicamente corretto, paiono a priori consolidate e conseguenti. La risposta la dà lo stesso Martinelli quando, nella presentazione del suo ultimo lavoro, scrive che “sempre il groviglio scenico nasce da una interrogazione.”
La domanda è dunque ineludibile e incoercibile e da questa nasce la drammaturgia come percorso che si articola in forma che cerca la conoscenza, mentre la risposta, oltre che inattuale potrebbe risultare inattuabile, nascosta e irrisolta come è al di là di un “fondo” che rimane inattingibile e mai pienamente conoscibile. È stato questo in effetti il filo rosso di un primo di quattro appuntamenti di conoscenza intorno al fare oggi teatro, e che, dopo “Le albe”, riguarderà “La Societas Raffaello Sanzio, “La Compagnia Laboratorio di Pontedera” ed infine “La Compagnia della Fortezza”. Ma questo sarà da parte mia oggetto di apposito approfondimento.
Al dunque “La MANO de profundis Rock” inaugura, dopo le rappresentazioni al Ravenna Festival della scorsa estate, la vera e propria stagione del Rasi di Ravenna e lì sarà in scena dal 20 al 25 gennaio. E una drammaturgia tratta, su ideazione di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, dall’omonimo romanzo di Luca Doninelli. Musica e regia del suono sono di Luigi Ceccarelli mentre la scenografia ed il progetto luci vanno a merito di Edoardo Sanchi e Vincent Longuemare. In scena con Ermanna il giovane ma maturo ed intenso ex palotino Roberto Magnani.
La domanda pertanto agita e percuote, come la verga dionisiaca in un rito misterico, la scena e ne apre il percorso di tranche progressiva, attivato da subito con la rotatoria danza di Ermanna/Isis, quasi a voler scavare fisicamente il luogo della rappresentazione, la scena stessa come a far posto al suono ed alle luci che ne dimensionano movimento di spazi e movimento di tempi.
Suoni e luci che, man mano, si fanno prima invadenti e poi invasivi e solo, ad essi, pare potersi opporre la voce di Ermanna Montanari, ma al prezzo di piegarsi anch’essa al suono, allo sforzo elettrico dello strumento che domina non visto.
La voce, piegata a suono, si fa così tramite e strumento di una apparizione, anzi di una sostituzione di anime nel corpo, questo di Isis, quelle, molteplici e indistinte, di Jerry Olsen che rivendica un diritto di vita sancito dalla sua stessa morte.
E’ una drammaturgia che si espone più che svilupparsi in scena, in cui il testo, raffinato peraltro e ricchissimo di echi e rimandi, è come offerto in sacrificio nella speranza che dalle sue fiamme emerga un senso, pur irrisolto, indisponibile ed impuro (altro termine questo assai caro all’idea che del teatro ha Marco Martinelli).
Una domanda di vita che spinge e ottiene il sacrificio per potersi manifestare, che arriva alla privazione di una parte di sé per ottenere una risposta.
Il rito si conclude con la scoperta della morte, terribile nella sua modalità autolesionista, ma semplice nel suo messaggio e sulla quale comunque si apre, nella inconsapevolezza forse di un passato incestuoso, il percorso della sorella, insieme tempio e sacerdotessa di questo rito sacrificale, verso il paradosso di una verginità monacale insieme tragica e grottesca.
L’onirismo psichedelico e psicanalitico offre, unico, una protezione per lo spirito scosso dello spettatore, invitato quasi a scoprire lui ciò che di non dicibile, non disponibile, irresolubile c’è nella scena e al di là della scena, e che, pur non dicibile, non disponibile e irresolubile, articola di sé l’intera drammaturgia che Martinelli pare, nell’offrirla attraverso la rappresentazione, abbandonare come naufraga sulla scena.
Non è facile e forse neanche raccomandabile cercare di sciogliere nella scrittura critica ed anche estetica questo groviglio di suoni e corpi che Martinelli predispone con maestria e raffinatezza, fingendo un abbandono ed un distacco che è schermo per i nostri occhi.
Rimane la sensazione di aver percorso un cammino, di aver sondato una possibilità, di aver assaporato una tranche per subito ritrarci e così riuscire a salvarci dalla disperazione che brucia sulla scena Isis ed il suo fantasmatico compagno che, insieme e contraddittoriamente, cerca di ritrarla dall’abisso spingendovela al fine senza riscatto.
È un messaggio o forse una sonda che Le albe lanciano nel mondo del teatro, sperando di recuperare e rintracciare dati che consentano una qualche risposta alla inesplicabile e inesauribile domanda di senso che li e ci anima.
Lunghi e caldi applausi hanno scosso la platea.
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