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La rinascita del testo nel teatro contemporaneo     di Maria Dolores Pesce
Può sembrare paradossale che per ragionare intorno a fenomeni dell’ultima drammaturgia abbia scelto di servirmi della “Teoria del dramma moderno” di Peter Szondi che questi fenomeni , per essere stato scritto negli anni 50, non può aver conosciuto. Io credo però, e spero di mostrarlo in questo mio articolo, che questo testo fornisca elementi di valutazione e di giudizio organici ed una attenzione alla struttura degli stessi che lo rendono efficacissimo anche per la valutazione delle più recenti evoluzioni del teatro. Peter Szondi ha infatti elaborato una complessa ed organica poetica del dramma che, a partire dalla definizione del dramma classico, gli ha consentito di interpretare la storia della drammaturgia dalla seconda metà del XIX secolo come progressiva manifestazione della crisi di quello e dei conseguenti tentativi di porvi, in linea pratica e teorica, rimedio. Quali sono per Szondi le caratteristiche a base della forma “dramma” ? Essenzialmente tre, di cui la seconda e la terza conseguenti alla prima. Per Szondi il “dramma”, figlio in sostanza della mentalità umanistico/rinascimentale, è la forma espressiva dell’uomo che arriva a porre sé stesso come misura del mondo, il quale mondo, appunto, si esprime come insieme di rapporti interumani. Modalità essenziale di espressione “di questo mondo di rapporti intersoggettivi era il dialogo”[1]; da qui, tra l’altro, l’eliminazione del prologo, del coro e dell’epilogo, in quanto il dramma è assoluto e “non conosce nulla al di fuori di sé. Il drammaturgo è assente dal dramma”[2]. Ne conseguiva una ridefinizione delle aristoteliche unità di tempo e luogo che risultano così dipendere dalla successione di continui presenti propria della evoluzione del dialogo e dalla necessità di evitare interferenze e salti che potessero modificare la consequenzialità di eventi che si manifestavano esclusivamente attraverso il rapporto intersoggettivo rappresentato sulla scena. La scena doveva dipendere solo da sé stessa, non rimandare, se non implicitamente, a qualcosa di estrinseco ad essa, ma portare su di sé i significati. Quindi la forma dramma è il frutto della elaborazione di una società e di una cultura storicamente determinata, la cultura e la Società che a partire dall’umanesimo e dal rinascimento fruttifica fino a tutto il seicento ed il settecento europeo. Però è stata ed è una forma espressiva efficace e di tale successo da essere sopravvissuta, pur con compromessi e aggiustamenti, al di là della cultura e della Società che l’avevano storicamente determinata. In ciò Szondi mutua da Hegel il concetto di ribaltamento nella forma “dramma” di uno specifico contenuto, per cui quella tende ad essere modificata dal mutare dei contenuti, intendendo qui le strutture di significato, i rapporti di senso sia teoretici che storici, se non socio-politici, che nella rappresentazione scenica spingono per manifestarsi. Ne consegue che la modifica dell’oggetto della rappresentazione, nel senso sopra precisato, avvenuta a partire dal XIX secolo per il mutamento della cultura e della Società di riferimento, non poteva non ribaltarsi sulla forma “dramma”, quale storicamente passava nel nuovo secolo, e forzarla fino a metterne in discussione gli elementi essenziali individuati da Szondi e che ho all’inizio ricordato. Cosa era dunque nel frattempo cambiato per Szondi ? Innanzitutto, credo, la percezione della centralità dell’uomo come presente del mondo, cioè dell’uomo attraverso la cui percezione e comprensione il mondo si dispiega. Il mondo appariva, in sostanza, come l’insieme dei rapporti intersoggettivi degli uomini. E’ questa fiduciosa considerazione che entra in crisi con la progressiva percezione di zone oscure che stanno fuori dal dialogo. Il presente diviene così fondato non su sé stesso ma su qualcosa che lo prescinde, perché sta altrove, e insieme lo determina e la scena non mostra più sé stessa ma indica qualcosa che è fuori di sé. Da tutto questo il dialogo risulta nella sua essenza del tutto criticizzato, se non dissolto, in quanto ciò che emerge sulla scena è incomunicabilità e solitudine. 
Ma il dialogo, proprio per la sua essenzialità rispetto alla forma dramma secondo la teoria di Szondi, rimane, ma solo come apparenza. Del resto, svuotate del dialogo, anche le unità di luogo e di tempo vengono forzate dalle nuove esigenze del contenuto, per cui la scena perde anche fisicamente la sua assolutezza, aprendosi verso il pubblico con l’abolizione del proscenio o moltiplicandosi nello spazio, con ardite scenografie mobili o multiple, e nel tempo, attraverso una sorta di tecnica di montaggio. Il dramma diviene borghese, come la Società e la cultura che lo produce, ma non solo non è più lo stesso, ma, per Szondi, addirittura non è più “dramma” perché non ne ha più le caratteristiche essenziali e quindi tende ad evolversi e insieme a preservarsi perché non si riesce a farne a meno. Ogni drammaturgo, nel secolo che va da metà ottocento a metà novecento, ha una soluzione originale, ma tutte, mi sembra, sono unite in un fattore comune : il punto di origine del dramma è esterno alla scena, quasi che la prospettiva palladiana fosse centrata al di fuori del teatro. Come a miopi ci viene mostrato subito quello che ci è vicino, poi il dramma ci fornisce le lenti per vedere ciò che sta lontano.
Per Ibsen, sempre secondo Szondi, questo altro è il passato la cui progressiva consapevolezza e percezione determina il presente. Per Checov è il sogno, inteso come desiderio e utopia, e i personaggi ne sono prigionieri fino alla reciproca sordità. Per Strinberg è l’io in ogni svariata sfumatura. Per Maeterlinck è la morte che tutto determina, mentre per Hauptmann sono la Società e la storia. In essi, con il dialogo, scompare l’azione che si auto determina, per l’influsso della volontà dei personaggi esplicitata attraverso il dialogo, e ad essa subentra il racconto di un qualcuno che non è un personaggio, anche se spesso per necessità formale è rappresentato in un personaggio. In conseguenza la scena è scissa tra un oggetto che è rappresentato ed un soggetto che lo giustifica. Ma questo, per Szondi, non è più un operare drammatico ma bensì epico. Tutti questi autori occultano la crisi (di sopravvivenza ?) del dramma con artifici stilistici diversi che lo spazio qui non mi consente di ricordare, ma non la fermano e negli anni successivi, anzi, ne aumenterà la consapevolezza, proprio grazie agli artifici da loro stessi elaborati. 
Al dunque per Szondi “l’intima contraddizione del dramma moderno consiste perciò nel fatto che alla fusione dinamica di soggetto e oggetto nella forma, si oppone la loro separazione statica nel contenuto” [3].
Se questa contraddizione è inizialmente risolta nascondendola, o meglio travestendola, all’interno delle forme drammatiche, la sua inevitabile maturazione segnerà l’evoluzione della scena negli anni a noi più prossimi. Non è tanto importante per me ripercorrere qui le diverse soluzioni adottate, dal “dramma conversazione” al “monologo interiore” che fa dell’io narrante il diretto protagonista e regista del dramma, dalla “angustia esistenziale” che costringe al dialogo personaggi chiusi in gabbia alla consapevolezza della “impossibilità del dramma” ed al suo pirandelliano rifiuto, dal dramma “epico e politico” di Piscator e Brecht che istituzionalizzano l’apertura al mondo della scena alle tecniche di “montaggio” che esplicitano l’esistenza di un narratore esterno, fino ai tentativi di rappresentare direttamente il fluire del tempo sulla scena. Ciò che mi preme è mostrare come la rottura operata dalle avanguardie dei primi anni 60 trovi fondamento e giustificazione in questo processo.
Voglio riferirmi in particolare alla attività del “Gruppo 63” e, tra questi, a Edoardo Sanguineti che a partire da quell’esperienza ha sviluppato una significativa attività drammaturgica. In sostanza in Sanguineti la consapevolezza dell’impossibilità del dialogo inerisce direttamente la capacità espressiva della parola che, così, si mostra inefficace, svalutata, insignificante. La parola sopravvive come suono ma sulla scena può trovare una nuova rete di relazioni all’interno della quale acquisire senso. Per questo si traveste nel senso che si presenta come attore diretto della rappresentazione. A questo consegue che la parola, il dialogo, non portano più nella rappresentazione il racconto, la storia di un io epico esterno che usa la scena, in quanto la parola ha perduto man mano significatività. La parola sta sulla scena in autonomia e si costruisce sulla scena una rete di relazioni che solo sulla scena stessa hanno significato. Non si tratta del dialogo intersoggettivo classico basato sulla parola, ma la sua struttura, relativamente alla rappresentazione scenica, assume caratteristiche di autonomia e assolutezza che lo fanno, intrinsecamente, assomigliare al dialogo quale vive nel dramma classico nella teoria di Szondi. Ecco dunque che, negli anni che vanno dal 1960 ad oggi, si è sviluppato un cosiddetto teatro di ricerca che ha recuperato aspetti essenziali del dramma classico in forme inaspettate, nelle quali autonomia e assolutezza della rappresentazione, che non rimanda ad altro se non a sé stessa, unità di luogo e di tempo, che da quella conseguono, sono rivitalizzante in una sintesi che supera, credo, la crisi del dramma dialogico riproponendone le strutture essenziali. Mi riferisco a tutte le esperienze che a partire dalle intuizioni di Sanguineti si sono affacciate alla scena italiana, quali la “ Socìetas Raffaello Sanzio”, il “Lemming” e, tra le molte altre anche recentissime, “Motus” [4], espressione tra l’altro di una crisi del pensiero borghese che, a suo volta, era stato causa della crisi della drammaturgia classica. Il post moderno cerca così, anche inconsapevolmente, fondamenti in ciò che sta prima del pensiero moderno.

Tutto ciò però, e questo vuole essere l’oggetto del mio ragionamento, rende inaspettatamente problematica proprio la permanenza del dialogo come forma di drammaturgia, forma che pure continua ad essere ampiamente praticata ed, anzi, in questi ultimi anni ha trovato nuove motivazioni e nuova linfa in una feconda generazione, non solo italiana, di nuovi scrittori per il teatro (e altro). Basti ricordare, per citarne solo alcuni, Manfridi o Erba, oppure Paravidino, Camerini se non Isidori che dell’attenzione privilegiata al testo hanno fatto la scelta centrale della loro attività artistica e che, su questa, riescono a costruire una forte rete di relazioni e collaborazioni che, dal teatro, si aprono alla Società. Il centro del problema credo sia il concetto di autonomia del testo. Ha evidenziato al riguardo Claudio Meldolesi che “la morte della tragedia e la morte del dramma hanno manifestato (l’ultimo Brecht, Beckett, Genet, Bernhardt, Testori..) un’apertura drammaturgica quale non si vedeva dal romanticismo negativo dei primi tempi, quando c’erano Goethe, Schiller, Kleist, Hugo, Manzoni, Shelley, cioè quando i grandi scrittori producevano opere per le scene” [pag. 8], e ancora che “l’alleggerimento delle convenzioni nello spettacolo sia stato l’elemento primo della nascita del Nuovo Teatro” [5]. In sostanza la progressiva consapevolezza ed esplicitazione della dissoluzione delle unità formali (convenzionali) dell’opera drammaturgia se, come detto, da una parte ha determinato la ricerca di sintesi a livello “superiore” in un nuovo amalgama degli elementi scenici che recuperasse l’autonomia e l’assolutezza della rappresentazione, dall’altra, come mi sembra aver ben colto Meldolesi, ha, come dire, liberato il testo da vincoli di destinazione, aprendolo ai contributi stilistici e contenutistici più diversi. Così, ed è utile citare Gerardo Guccini in un editoriale di Prove di Drammaturgia, “se è vero che la forma dramma si è esaurita lungo la prima metà del secolo, non è meno fondato il fatto che le produzioni testuali successive hanno a volte rivelato una singolare utilità” [6 ]
In questo contesto la rappresentazione non costituisce più elemento formalmente determinante per la costruzione creativa, con i suoi vincoli di struttura, ma diviene una possibile destinazione realizzabile solo attraverso l’incontro ed il compromesso con gli altri soggetti della creazione spettacolare. A monte vi è l’esperienza degli autori/attori, insieme capocomici e mattatori, da De Filippo e Dario Fo a Carmelo Bene e Leo De Berardinis, questi ultimi che portano sul palcoscenico un linguaggio lirico, in cui l’unità di tempo e luogo è l’assenza di tempo e luogo, in cui la parola è di nuovo carica di significato in quanto però rimanda solo a stessa. In una sola persona, più ruoli che rimangono uniti ma riescono a dialogare tra di loro. Scrive ancora Meldolesi “La Drammaturgia non è solo dell’autore. Piuttosto è il luogo della volontà di parola di tutti gli artisti, attori e via di seguito” [7]. Questo lungi dal costituire una limitazione, o peggio una svalutazione come pure a volte si è percepito, ha aperto spazi di inaspettata libertà al drammaturgo di oggi (o meglio sarebbe dire scrittore di teatro), che può spaziare, per restare alle strutture di Szondi, dalla scrittura epica a quella lirica, o, per parlare di generi, dal tragico, al ridicolo, all’ironico allo storico, sapendo che il passaggio sulla scena costituisce comunque una ulteriore trasformazione ed un adattamento ad un contesto significativo che, anch’esso e per gli stessi motivi, vede confermata e ampliata la sua autonomia. Da qui anche l’attualità della discussione italiana sulla figura del “Dramaturg” già affermata soprattutto nel teatro tedesco. Questa reciproca resistenza, quasi irriducibilità, di contesto costituisce quindi, a mio modo di vedere, una feconda resistenza che stimola la creazione. Da questo punto di vista è comprensibile la resistenza soggettiva del moderno drammaturgo rispetto alla trasformazione che il testo subisce sulla scena. Ricordo che proprio di questo Edoardo Erba mi parlò in una recente intervista e del suo desiderio, conseguente, di essere in qualche modo presente alla messa in scena. Queste le sue parole “….e certamente il fatto di scendere in campo per mettere in scena i miei lavori significa, in qualche modo, difenderli. Perché, a volte, una prima messa in scena può essere fatta da un regista poco valido, che la sbaglia, e questo per un autore è un danno incalcolabile perché poi molto difficilmente tanto la critica che il pubblico riconoscono la differenza tra messa in scena e testo. A volte succede che un regista bravo voglia metterci troppo del suo, dare un segno troppo particolare, e finisca a snaturare il tuo testo.”[8] Umanamente comprensibile, il desiderio di preservare il testo, come elemento autonomo di creazione, è però teatralmente irrealizzabile e per di più del tutto non auspicabile perché, credo, scenicamente inefficace. E mi appoggio, per questo, ancora una volta a Meldolesi che, partendo da Artaud, conclude che “il drammaturgo è oggi un portatore personale di teatro, che può realizzarsi solo attraverso gli incontri con una drammaturgia della scena. Qualcosa ha di nuovo reso epifania la coincidenza di dramma e scena” [9].
Questo qualcosa io credo vada cercato nella piena maturazione delle contraddizioni del dramma e della sua crisi, come è stata analizzata da Szondi, che hanno determinato e maturato la piena e reciproca autonomia degli elementi della rappresentazione: il testo e la messa in scena, come se uno potesse finalmente fare a meno dell’altro. L’uno e l’altro si sono come staccati e procedono quasi con leggi proprie, pur reciprocamente influenzandosi. Il teatro diviene l’elemento di incontro dei diversi procedimenti creativi in un contesto significativo nuovo e anch’esso autonomo. Per riprendere ancora il citato Guccini : “Di fatto, la drammaturgia dell’ultimo Novecento si è soprattutto risolta in organismi viventi , magari minutamente codificati e formalizzati, ma consistenti comunque in accadimenti rispetto ai quali gli schizzi, i disegni, le foto, le riprese dal vivo, le parole degli attori e quelle destinate agli attori sono tutti documenti : tracce indiziarie dell’opera e del procedimento seguito.”[10]  In un certo senso il testo drammatico, che usa il dialogo o il monologo, ha come perso il suo fine ultimo, quello di essere detto dagli attori sul palcoscenico, fine che rimane solo, più che apparente, strumentale, acquisendo in sé una autonomia, quasi un nuovo genere letterario, insostenibile nel dramma classico ed inconsapevole nel periodo della sua crisi. Pertanto gli stessi due filoni che sono tradizionalmente individuati nel teatro italiano di fine 900 e inizio millennio, il teatro di ricerca, che della scena fa il centro assoluto della creazione, ed il teatro di scrittura, che difende ed enfatizza l’autonomia del testo, appaiono, alla luce delle teorie di Szondi, fondate su una unica e speculare contraddizione e spaccatura della struttura del dramma classico quale è venuta maturando in Europa nel corso di un intero secolo. L’elemento di sintesi della contraddizione si rivela però, mi sembra apertamente ed esplicitamente, la scena come luogo di nuova significazione e di scoperta, che già i travestimenti Sanguinettiani ricercavano. L’unità di forma e contenuto legata alla elaborazione del testo nel dramma classico si è persa, ma può essere recuperata in un contesto più ampio ove il testo stesso è un elemento di un più complesso procedimento creativo che vede coinvolti più soggetti. La creazione scenica è divenuta una partitura a più mani. Tra essi il testo è uno tra altri, ma svincolato da rigidi principi formali, può crescere in inaspettata libertà. Scrive, ad esempio, Luigi Gozzi che “…il fascino della drammaturgia è che consta di un testo transeunte, di passaggio, mai finito – in un certo senso – come tutti i testi che si rispettano.”[11] 


NOTE 
1) Peter Szondi, Teoria del dramma moderno, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 7/2000, pag. 10
2) Peter Szondi, cit., pag. 10
3) Peter Szondi, cit., pag. 62
4) Cfr S.Chiarini e P.Ruffini, Nuova Scena Italiana, Castelevecchi Editore, Roma, 3/2000
5) Claudio Meldolesi, in “Prove di Drammaturgia”, Università di Bologna, Anno VII n. 2, dicembre 2001, pag. 8
6) Gerardo Guccini, in “Prove di Drammaturgia”, Università di Bologna, Anno VI n. 2, dicembre 2000, pag.3
7) Claudio Meldolesi, cit., pag. 7
8) Maria Dolores Pesce, Intervista a Edoardo Erba, in “Parol, Quaderni d’arte e di epistemologia” on line, Università di Bologna, 9/2001
9) Claudio Meldolesi, cit., pag. 8
10) Gerardo Guccini, cit., pag. 3
11) Luigi Gozzi, in “Prove di Drammaturgia”, Università di Bologna, anni VII n. 2, dicembre 2001, pag. 28