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14 novembre 2023. Una data che vale la pena di annotare. Non ho mai scritto di me prima d’ora per raccontarmi. Per commentarmi sì, è di certo accaduto, ma non per raccontarmi. Possibile? Più ci penso e più debbo confermarmi nella

convinzione: mai. Perlomeno, non per raccontarmi come teatrante. A parte, ovviamente, nei periodici e pedestri aggiornamenti del curriculum. Strana cosa, il curriculum. Da giovane non vediamo l’ora, se ci è data l’occasione, di impinguarlo; poi, col procedere degli anni, e soprattutto dei decenni, dà un senso di repulsa. Di vita in declino, più che in crescita. Intristisce. Se c’è una cosa per cui invidio i vincitori del Nobel è che, d’un colpo, possono fare piazza pulita di pagine e pagine. A loro basta un quarto di riga e l’hanno bella che risolta: “In data x vince il Premio Nobel”, punto. Cos’altro aggiungere? 
E dunque! La prendo da lontano poiché lì sta tutto, o quasi. 
Ho iniziato a scrivere storie da far dire a qualcun altro (chiamasi ‘copioni’) per il desiderio, forse, di poterle dire io. Per il desiderio di recitare, insomma: di poter fingere con tutto me stesso, e non solo mercé una pratica intellettuale da tavolino. D’altronde, come desiderare di avere a che fare con il teatro se, innanzitutto, non si è desiderato questo: di essere qualcun altro? Poco mi fiderei di un drammaturgo che, almeno in tenera età, non abbia carezzato l’idea di fare l’attore. Come un allenatore di calcio che non abbia vagheggiato di diventare calciatore. Ciò detto, dovrei andare al cuore di questo sogno primigenio e rintracciarne le ragioni visto che non sono un figlio d’arte, anzi! Mia madre era medico, mio padre assicuratore, e nell’intera cerchia familiare nessuno che abbia mai nutrito ambizioni artistiche di alcun genere.
Senza voler creare una stucchevole suspense, la parola alla radice di tutto è una: nostalgia. A volerne chiarire il senso va premesso il mio essere figlio unico e senza neanche un cugino a perdita d’occhio. Nessun coetaneo, insomma, tra le mura domestiche o nei loro pressi. In più, coi miei genitori entrambi fuori al lavoro per tutto il giorno, nonché timorosi di farmi vivere un’infanzia troppo ‘stradarola’ (sono nato e cresciuto in un quartiere marginale, a ridosso degli snodi ferroviari della Tiburtina),  il mio alimento erano i fumetti (quelli di allora: Capitan Miki, il Grande Black, Tex, ecc.), e i film del pidocchietto sotto casa. Tutta roba, va da sé, di grana grossa: Zorro, Maciste, western tutt’altro che d’autore, e reificazioni archeologiche o cavalleresche coi ruoli tagliati rudemente con l’accetta. Pochi buoni da una parte, e tanti cattivi dall’altra. Libri niente, mi annoiavano. Aprirli li aprivo, ma andavo avanti solo se vedevo che i dialoghi arrivavano presto. Logico! Quelli mi divertiva leggerli ad alta voce interpretando tutti i ruoli possibili. Ma l’emozione più pungente me le riportavo di ritorno dai pomeriggi passati al cinema. Si trattava, appunto di nostalgia: per quei luoghi, per quei costumi, per quei duelli, per quegli amori, per quelle peripezie. E per quei cavalli! Adoravo i cavalli, non facevo che disegnarli, anche bene, come oggi non mi riesce più (ci ho provato, altroché). Per me rappresentavano l’emblema stesso dell’avventura. Che smania avevo di cavalcarli! E che inconsolabile rimorso per non essere nato in quei tempi, in quei luoghi, in quelle circostanze! Tanta nostalgia cominciò magicamente a placarsi quando presi consapevolezza che a incarnare tutte quelle storie erano persone vive chiamate a recitare personaggi immaginari. Sicché, mi dicevo, potrei farlo anch’io. In fondo, è tutta una questione di scelta di vita. Essere quello oppure quell’altro, ed essere lì, oppure lì, oppure lì! E a quel punto, il tempo era maturo, mi è capitato tra la mani un volume Sansoni con le opere di Shakespeare. La più meravigliosa scatola-giochi possibile! Quell’avvento significò il coniugarsi tra loro di molteplici dinamiche interiori che si andavano adempiendo. 
Ad apertura, poche righe per dirmi dove ci si trova - (Verona, una piazza) -, altre poi per indicarmi come l’azione debba avvenire - (Furente), (Sguainando un pugnale) -, quindi dei nomi per me corrispondenti ai volti delle vignette, e le parole!... Quelle parole da poter pronunciare, come piaceva a me, ad alta voce. Parole esclamative, meditative, in conflitto, quando non innamorate, o speranzose, o spaventate, a definire intrecci che molto ricordavano più o meno gli stessi a cui ero addestrato. Passioni contrastate, amicizie tradite, intrighi di corte, sotterfugi, eroismi, finali tragici e altri in gloria. Così è cominciata. E così e continuata. A volte bene, a volte meno bene. Se mi si domandasse: “Che lavoro fai?”, la risposta più giusta dovrebbe essere: “Fingo”. Ovvero, gioco. Ovvero, recito. Quando scrivo un testo teatrale, sostanzialmente è questo che faccio: recito. Tant’è che scrivo ad alta voce. Anche adesso, che non sarebbe necessario, sto scrivendo ad alta voce. 
Maestri? Purtroppo non ne ho avuti, e ne avrei voluti. A meno di non considerare un maestro l’autore del libro dei libri: Il grande in-folio del 1623 in cui due attori che recitarono insieme a Shakespeare, John Heminge ed Henry Condell, sette anni dopo la sua morte raccolsero i trentasei titoli del canone. Vi è un sistema di vita lì dentro. Di vita e di teatro. 
E un’idea del mondo che è specchio del nostro, e suo codice di comprensione.

Giuseppe Manfridi è drammaturgo e romanziere Il suo teatro è costantemente rappresentato in Italia e all’estero. Alcune delle sue commedie sono state trasmesse da RAIDUE nella serie Palcoscenico, da RAISAT e da RAI5. Tra le sue sceneggiature, ‘Ultrà’, vince l’Orso d’argento al Festival di Berlino nel 1991.  Nel 2018, il romanzo ‘Anja, la segretaria di Dosteovskij’, è vincitore del Premio Città di Como e del Premio Dostoevskij. Nel 2021 pubblica con EfestoEditore ‘Il solco’.  Nel 2022 la TEA pubblica una nuova edizione di ‘Tra i legni - i voli taciturni di Dino Zoff’, Gremese il romanzo ispirato all’impossibile storia d’amore tra Pier Paolo Pasolini e Maria Callas ‘Il profeta e la Diva’ e La Lepre il thriller ‘L’uomo di vetro’. Nel gennaio, sempre del 2022, RAI5 trasmette il suo testo ‘Filastrocche della nera luce’.