Torino, festival “Teatro a Corte 2015”, seconda settimana. Il festival, ideato e diretto da Beppe Navello, continua, come ogni anno e ogni anno in maniera diversa, a distillare quello strano miscuglio culturale che è Torino, città di principi e città di popolo, città di lavoro e città capace di sognare. Capitale ma insieme città di confine, di quel confine osmotico e poroso attraverso il quale sono transitati molti dei più interessanti fermenti culturali che l’hanno e ci hanno modificati senza mai farci perdere il senso della identità. Quest’anno quel confine oltre che all’ovest della Francia e della Spagna, volge un suo sguardo particolare al Nord, alla Germania
soprattutto nel più ampio contesto dell’evento “Torino incontra Berlino” che caratterizza la città sabauda nel corso di tutto il 2015.
Ecco dunque alcuni degli eventi di questa seconda settimana, eventi che, come da DNA consolidato del Festival, attingono a forme spettacolari in Italia meno consuete che altrove, schiacciate e “scacciate”, come spesso sono, da circuiti teatrali, pubblici e privati, poco coraggiosi. Lo fa peraltro non dimenticando le suggestioni che vengono da EXPO 2015 e dunque dal tema del cibo e del suo spreco, concreta parabola di una società dei consumi in cui i consumi stessi hanno perso logica e finalità.
SELBSTTRAUM
Dalla compagnia tedesca Meinhardt et Krauss, questa inedita fiaba alla paradossale scoperta di ciò che dovremmo avere più vicino e più chiaro, cioè il nostro corpo. Invece, con l’utilizzo delle immagini virtuali che, proiettate sulla carne e sull’abito della ballerina mentre questa danza, ne riscopriamo con sorpresa una senso più profondo, dimenticato e cancellato dalla nostra attitudine a “guardare” e dunque “vedere” più il movimento nello spazio che il corpo che lo compie. Attitudine che, sul palcoscenico e prima nella vita, ci fa guardare l’esito, il successo, e non il processo, il movimento che è identità. Una performance per riscoprire il corpo e così attraverso quello l’anima che lo “anima” e il sogno che lo fa vivere. Incontro non inedito, tra arte virtuale e coreografia, ma qui direttamente sperimentato sul corpo danzante con effetti paradossali e stranianti ma anche illuminanti. L’indagine lenta e minuziosa che la sonda visiva compie sul corpo della danzatrice, riproiettando su quello stesso corpo le immagini, è dunque una scoperta di autenticità, la scoperta e la riappropriazione del proprio corpo autentico. Una scoperta che va oltre e si realizza nonostante le interferenze della moderna società dell’immagine, che (ricordiamo la moda della chirurgia estetica) induce modelli e comportamenti esterni, predeterminati e talora, se non sempre, estranei a quello stesso corpo che così scivola lontano da noi.
WESTERN SOCIETY
Eterodosso collettivo teatrale ma non solo, a cavallo tra Inghilterra, ove è nato, e Germania, ove ora ha la sua base, GOB SQUAD opera anch’esso su un confine, il confine, tra arte e vita reale, indagando le moderne e modernissime forme di comunicazione, mass media e social network, che nella nostra strana contemporaneità sembrano aver totalmente incorporato la vita reale, o meglio la sua innata capacità e volontà di esprimere e comunicare, isolandola non solo da sé stessa ma anche dall’arte che ha cercato e cerca di farsene interprete un po’ più “autentica”. Eterodosso l’ensemble ed eterodosso lo spettacolo che nasce da una parte dall’immersione della stessa compagnia nei luoghi della vita quotidiana comunitaria e, insieme, da una sorta di scientifico carotaggio nelle profondità dei social network, alla ricerca di messaggi in bottiglia dei naufraghi che, come molti di noi, in essi sembrano essersi persi. Ricevono messaggi, dunque, e cercano di interpretarli attraverso l’arte, quella che mescola invenzione e interpretazione, che unisce corporeità e virtualità, danza e drammaturgia, testo e improvvisazione, attraverso l’arte e dentro al teatro. Un teatro pieno di pareti che sono porte aperte sul mondo, di suoni che come una eco trascinano sentimenti e passioni forse dimenticate. Protagonista anche qui è il corpo che si trasforma e si fa portatore di segnali per il pubblico. In effetti GOB SQUAD parte da un video di una festa di compleanno postato su youtube per un percorso intenso e ironico che dall’immagine stereotipata ci riconduce alla sostanza dei nostri ricordi e dei nostri sentimenti, al senso profondo che quelle parole hanno e avevano prima di esserne espropriate da un luogo virtuale in cui, nell’illusione di conquistarla, rischiamo di perdere innocenza ed identità. Una performance forse surreale ed irriverente ma che colpisce al centro del bersaglio. Da una parte dunque lo spettacolo porta avanti una sorta di ricerca neutrale in cui gli elementi di rappresentazione consentiti in una società quasi totalmente liquida e priva di riferimenti forti, sono in fondo per questa famiglia sconosciuta ma simbolica una sorta di autorappresentazione che recupera, anche con patetica ingenuità, elementi stereotipati e dunque ormai inautentici (il karaoke è l’evidente simbolo di questa etero-direzionalità della nostra percezione). Dall’altra la drammaturgia si sforza di inserire dirompenti elementi di realtà, entrando cioè “fisicamente” in quel processo di rappresentazione e autorappresentazione per contaminarlo quasi con elementi della propria personale autobiografia. È uno sguardo dunque non solo estetico ma anche, in senso lato, filosofico che rappresenta ed interpreta, ma soprattutto smaschera i meccanismi attraverso i quali si è affermata o è stata imposta una sorta di sclerosi psicologica e affettiva in queste nuove forme di comunicazione di massa. Interruzioni, sipari, video in cui i corpi occupano il posto delle immagini, ma anche la reiterazione delle domande paradosso a risposta binaria (“scegli Dolce o Gabbana?) figlie della radicalizzazione semplificatoria imposta da tanta sintassi televisiva, indicano una consapevolezza di cui si fanno carico e di cui occorrerebbe sempre di più farsi carico.
SUR LES TRACES DU ITFO
A metà tra il teatro di figura e quello degli oggetti, è una produzione di Turak Théatre, del regista e scenografo francese Michel Laubu. Crisi economica e ristrutturazioni (il “ritmo” del nostro tempo). L’orchestra Nazionale di Turakie, chiude, e deve licenziare, certo con “rammarico”, tutti i musicisti costretti a restituire non solo tutti gli strumenti ma anche la mano che li faceva vivere. Ma finiti praticamente in discarica, improvvisamente si rianimano perché la forza della musica e quella, dunque, della natura umana è per fortuna più forte dell’economia. Si rianimano e riprendono ad intonare le melodie per cui erano stati creati. Con loro, ricordi o fantasmi del futuro, anche i musicisti ritornano come veri e propri “revenant”. Parabola aspra ma anche ingenua e sognante di un mondo che abbandona tra i rifiuti quelle poche cose che ancora ci possono salvare. Un teatro in fondo del riciclo che, tra pupazzi e attori, ricicla la nostra stessa vita.
FRANK SOEHNLE: FILIATION POETIQUE
A seguire un’altra contaminazione. Un breve film in prima nazionale della francese Manuelle Blanc che racconta il mondo di uno dei più grandi maestri del teatro di figura, il burattinaio tedesco fondatore del Figurentheater Tubingen, mentre realizza un suo spettacolo. Una domanda, come filo rosso sospeso e internamente intessuto, sembra definire il film: pupazzi e burattini, bellissimi e commoventi tra l’altro sospesi tra inferno e paradiso, hanno forse un’anima? La risposta per chi ha visto il film, o ama il teatro di figura, non può che essere positiva: in scena i pupazzi sono talora più umani degli umani.
URBAPHONIX
La compagnia francese dall’icastico nome “Dècor Sonore” fa appunto suonare luoghi e città, ma non solo, talora anche i loro abitatori. Il loro ultimo spettacolo, fatto di studio e calcolata improvvisazione, è un percorso condiviso nelle strade di Venaria, affollate per il sabato notturno. Diretta da Michel Risse la compagnia riesce con i suoi spettacoli a mescolare avanguardie musicali, di cui di diritto ormai è parte, e recupero di sonorità di base, quelle urbane e locali prodotte dal movimento e dal lavoro delle persone, e che costituiscono la sostanza, la pasta base, del nostro mondo di suoni, senza il quale forse non sgorgherebbe neanche la grande musica. Un percorso che coinvolge man mano, in crescendo fino ad una piena e finale empatia.
IL FALSO CONVITTO
Dalla città alla Veneria Reale a dare, come sempre, riscontro concreto e spettacolare al titolo del Festival. Qui, per prima cosa, a dare corpo alle suggestioni intorno al cibo, questa interessante installazione performance di Alice Delorenzi e Francesco Fassone (servi di scena i bravi Giuseppe Fusco e Riccardo Padovan) che in una straniante ambientazione settecentesca con macchine barocche e sintassi da teatro da ragazzi, particolarmente efficace a ricordarci che la fiaba contiene sempre una verità morale, ci accompagnano alla scoperta degli sprechi e delle assurdità economiche che caratterizzano l’industria alimentare contemporanea, capace di creare grandi ricchezze (per pochi) e contemporaneamente grande povertà (per molti). Forse più efficace di molti convegni e conferenze ad Expo 2015.
GUATEQUE
In chiusura torna la danza con i catalani Saioa Fernandez ed Eduardo Torres e la loro compagnia Delrevès. Tecnicamente sarebbe uno spettacolo di “Danza verticale”, ma la sua verticalità, credo, il suo essere giocata sulla parete di un palazzo ad esempio, non è che l’espressione per così dire esplicitata dello slancio verso l’alto che è insito, intrinseco, irresolubile, della danza ovunque venga giocata. Guateque è l’incontro di un uomo e una donna, una storia d’amore si sarebbe detto una volta, sviluppato sulla sintassi sonora e drammaturgica delle commedie musicali americane, di quel melodramma che Fassbinder tanto amava da trasferirne l’ironia profonda nella chiave per interpretare il mondo. L’incontro in un bar in una notte qualunque, le difficoltà, i dubbi, la perseveranza fino alla passione che scoppia, sonora e coreutica, in crescendo. La danza insieme la penetra e la racconta rendendola evidente e coerente anche laddove le parole e la stessa musica non possono arrivare. Una vera e propria drammaturgia che sale e scende dalla parete della reggia, che proietta e su cui si proiettano i volti stessi dei protagonisti, rubati quasi da un telefonino mentre i colori esplodono attorno ad essi. Ironia e affettività, straniamento e coinvolgimento caratterizzano questa prestazione complessa, ove spicca la bravura tecnica dei coreografi danzatori e la cura del canto e degli accompagnamenti recitativi, talora impercettibili ma sempre convincenti. Molto bello.
Ancora una settimana, la prossima attende questo festival, che non manca di appassionare, anche per la passione degli organizzatori, tra cui una menzione merita l’Ufficio stampa nazionale curato da Mara Serina e Silvia Coggiola.