L'approccio alla relazione tra padre e figlio, essenziale e fondativa della reciproca identità nella concezione freudiana che si illumina nelle suggestioni dell'antica tragedia, si rivela qui come il progressivo precipitare ed annegare in un abisso di incomprensibilità, assai più che di incomunicabilità, poiché la comunicazione si attiva ma tra due poli, due gorghi che si sovrappongono in un equivoco alternarsi di ruoli, ciascuno dei quali si nutre dell'altro ma insieme lo annulla, negandolo fino all' omicidio ultra-simbolico. Ultimo capitolo di una trilogia con la quale Bernardo Casertano intende attraversare la condizione umana, in una sua sua declinazione dai forti accenti esistenzialistici, in “Charta” la paternità, e specularmente l'essere figlio, è filtrata nel drammaturgico assemblaggio di due suggestioni all'apparenza contrapposte ma significativamente complementari, cioè “Affabulazione” di Pier Paolo Pasolini e il “Pinocchio” di Collodi tramite Carmelo Bene, quasi questi filtri fossero due lenti poste l'una
di fronte all'altra per illuminare un sentiero che improvvisamente si interrompe. L'una la mente che cerca di rendere razionale l'inconoscibile (ciò che può essere solo intuito o meglio vissuto, dunque), l'altra il corpo che nella metamorfica trasformazione del burattino segue il percorso di una crescita verso una necessaria ma solo possibile identità.
Così, in un quasi nascosto e sospeso accenno di metateatro, è come se Casertano mettesse in scena la tragedia di Pasolini attraverso il “Pinocchio” di Carmelo Bene.
Al confine di questa scena, e forse proprio per questo ineludibilmente al suo centro, la madre, vertice di un triangolo essenziale e irriducibile, il solo capace di dare senso a queste due figure, del padre e del figlio, che solo in relazione ad essa acquistano una ontologica profondità, una qualche personalità.
Ma è proprio in questo triangolo che si nasconde la tragedia, per l'illusoria volontà di prescinderne fino a immaginare quasi una procreazione solo maschile, sia in “Affabulazione”, nell'ossessivo tentativo del padre di sovrapporsi al figlio che si sottrae, la tentazione di farsi padre e figlio insieme in un onirico rapporto falsamente edipico che non elabora ma distrugge entrambi, sia nel “Pinocchio” cui alla turchina madre/madrina sembra solo affidato, nella presenza-assenza, l'orizzonte di una umanità che si trasfigura.
Tutto questo storicamente e, latu sensu, politicamente si specchia, essendone lo specchio, nell'organizzazione del patriarcato stesso, ove il padre è il centro di un potere che in realtà trae origine dalla madre, ed in cui la negazione del femminile è l'unica, ma anche alla fine l'impossibile, sua modalità di conservazione.
Per questo, come ha intuito Roland Barthes, il luogo del padre diventa il luogo dell'incertezza, che rimanda ad una condizione 'altra' che rifiuta, e insieme il luogo della scrittura, una figura dalla personalità più letteraria che radicalmente ontologica.
Un luogo di una scrittura che è stato come uno specchio ustorio della letteratura, da Kafka a Dostoewskij da Italo Svevo a Thomas Mann, e anche del teatro moderno e contemporaneo, in cui si brucia l'apparenza di una gerarchia sociale instabile, in quanto infondata, per illuminare la sincera naturalità di un equilibrio, quello che si stabilizza nel femminile, volutamente rimosso nella sovrapposta santificazione e demonizzazione borghese della donna.
Se freudianamente l'enigma è nell'édipo che Edìpo non scioglie, la risoluzione del nodo, ancora per il tardo Freud, è nell'uscita dall'édipo come scrive, citandolo, Paul Ricoeur:<<...la posta in gioco della dissoluzione dell'edipo è la sostituzione della identificazione con il padre letteralmente mortale – ed anzi doppiamente mortale -, perché uccide il padre con l'assassinio e il figlio con il rimorso – attraverso un riconoscimento mutuo in cui la differenza è compatibile con la somiglianza>>.
Tutto questo precipita dunque nella drammaturgia di Casertano, che cerca così di farsi accogliente nella sua dolorosa presenza scenica, quasi assediata dalle sagome di carta, in forma di Pinocchio, che aspettano solo di essere finalmente coperte di scrittura, ovvero nella sua recitazione spezzata, che un pò ricorda nello sguardo tangente e nelle sghembe traiettorie Carmelo Bene, quasi a sovrapporsi alla parola cui la voce si rifiuta di dare compiutezza sonora.
Il drammaturgo usa con efficacia, attraverso la mescolanza dei dialetti, una contaminazione linguistica dagli effetti stranianti che coinvolgono quasi lo spettatore nella rappresentazione, assemblando inoltre testo, mimica recitativa e performance fisica, fin quasi alla danza, così da creare nuovo significato alla singolare contingenza del transito scenico.
Una prova interessante, per scrittura, prossemica e anche ambiente musicale, una ricerca che è ancora un farsi che per sua stessa natura appare sospeso nella sua stessa impossibilità a rintracciare una conclusione, che non sia una sua traumatica rescissione.
Riproposta, dopo l'esordio al Festival Testimonianze Ricerca e Azione, al teatro Akropolis di Genova Sestri, sempre ospite della omonima compagnia che co-produce lo spettacolo, il 3 marzo.
CHARTA. Di e con: Bernardo Casertano. Disegno luci: Chiara Saiella, Produzione: Fortezza Est, Coproduzione Teatro Akropolis.
Foto Luca Donatiello