Della
trascendenza orizzontale di Maria Dolores Pesce |
Come mi ero riservata di fare, anticipando questa mia intenzione nel corso del commento critico all’ultimo spettacolo delle Albe
“La Mano de profundis rock”, torno a quell’evento per tentare di dare più completa ragione dell’incontro con la compagnia, organizzato nel contesto dell’iniziativa “Biografie” che Marco Martinelli ha inteso promuovere nel corso della stagione teatrale appena iniziata.
Lo faccio non a caso dopo il tempo utile e forse necessario a sedimentare impressioni e stimoli che da quell’incontro sono venuti a me come , credo, a tutti coloro che vi hanno partecipato.
Questo tempo, in effetti, è stato imposto prima di ogni altra cosa dall’intensità dell’approccio elaborato da Martinelli, anche con un suo certo iniziale imbarazzo, tale comunque mi è apparso, nel momento in cui ha scelto di farci accompagnare verso la sua drammaturgia, quella attuale e anche quella del meno recente passato, dalle parole di un filosofo contemporaneo, Jean Soldini, che per sua stessa ammissione non ha mai sviluppato la consapevole intenzione di “parlare” di teatro, nel senso con cui tale termine è percepito dagli addetti ai lavori.
Eppure l’incontro letterario tra il drammaturgo Martinelli ed il filosofo Soldini ha prodotto un inatteso movimento di sintonia, che ha spinto il primo a cercare di approfondire il senso di questa sua inattesa percezione di vicinanza, ed il secondo a tentare di riconsiderare in un contesto diverso, ed anch’esso inaspettato, le possibilità maieutiche del suo pensiero.
Ma occorre procedere con ordine e ritornare in primo luogo all’argomento, o meglio al concetto, che ha richiamato e stimolato l’attenzione creativa di Marco Martinelli, argomentandolo ovviamente con le parole e le intenzionalità di Soldini che, proprio per questo, è stato chiamato, in quel pomeriggio, al primo intervento.
Ciò di cui parliamo è quello che lui chiama Trascendenza orizzontale e che va definita a partire dalla evoluzione del pensiero filosofico occidentale degli ultimi quattro secoli, a partire cioè dal cogito cartesiano.
In sintesi l’attenzione posta e progressivamente accentuata nell’ambito del processo percettivo sul soggetto che pensa ha fatto sì, secondo Soldini, che progressivamente tendesse a scomparire ciò che viene percepito, quel fondo o flusso indistinto che viene organizzato dal soggetto, per dirla con Kant, attraverso le sue categorie trascendentali.
Ne è conseguito una sorta di ipersoggettivismo tendenzialmente autoreferenziale, che porta a considerare tutto ciò che si percepisce come frutto dell’attività del soggetto e quindi, per estremo, sottoposto esclusivamente alla sua attività o volontà.
Le conseguenze di un simile processo non sono, secondo Soldini, limitate al solo contesto metafisico o psicologico, inerenti cioè la percezione che l’uomo ha di sé stesso, ma si trasferiscono anche alla dimensione etica e storico/sociologica dell’uomo, in quanto giungono ad interferire anche nei suoi comportamenti e nei suoi rapporti interpersonali, ove, ad esempio, emergono in una considerazione dell’altro che tende ad annullare le differenze, per ricondurre soggetti e culture ad un indistinto neutro ed accettabile.
È così che, attraverso la perversione del tentativo nietzschiano di ricondurre il senso della percezione alla autonomia e alla potenza del percepito che riscatta il fallimento dell’idea della storia come proiezione progettuale dell’io che pensa, si arriva alla dittatura del mercato che da una parte surroga l’io disperso con le sue false volontà (il suo “aver voglia”) mentre dall’altra trasforma ed imbastardisce la dialettica del progresso in una sorta di indistinta naturalità o fatalità del movimento economico, priva o superiore ad ogni finalità.
Tale condizione però, per Soldini, non è irriscattabile, perché ciò che è percepito conserva una sua irriducibilità di cui si può prendere coscienza laddove si riesca ad esercitare una sorta di sospensione di giudizio, che consenta di svincolarsi e prescindere dalla supposta inevitabilità e naturalità della denominazione e della determinazione conosciute in un a priori privo, però, di valenze Kantiane.
In sostanza ciò che percepiamo è una sorta di rappresentazione della cosa (la res dei latini) che entra nel nostro campo percettivo e che, perciò, trascina con sé un residuo irriducibile, perché non denominabile, ma comunque in qualche modo apprezzabile.
A questo punto entra in gioco il teatro, che Soldini ha citato nei suoi scritti proprio come esempio di questa modalità rappresentativa della percezione, come fattore esegetico del suo concetto di Trascendenza orizzontale, ma che Marco Martinelli ha intuito poter essere elemento di grande interesse per la propria attività creativa.
Non tanto o non soltanto dal punto di vista estetico ma proprio come elemento di ricerca del senso della propria drammaturgia, ancor di più in coincidenza, certo non casuale, con un interessante, nuovo e ulteriore snodo della sua attività quale è la sua ultima opera “La Mano de profundis rock” da me recentemente recensita.
In effetti, ancor più credo in quest’ultima drammaturgia, si può leggere l’intenzionalità di portare sulla scena una storia, una vicenda con la volontà, in precedenza forse inconsapevole ora, a detta dello stesso Martinelli, esplicita, di trascinarvi per quanto possibile quel fondo, quel substrato irriducibile e irresolubile, che sta davanti a noi, nelle cose e nelle persone, e di cui ciò che percepiamo è pur sempre una rappresentazione.
Rappresentare dunque una rappresentazione con l’intento e la possibilità di mostrare attraverso questo doppio intervento proprio questo fondo, come lo stesso Martinelli scrive nel foglio di scena:
“è la domanda che genera la forma, per questo motivo gli spettacoli possono presentarsi con stili diversi, perché diversa è ogni volta la domanda che innesca il processo di costruzione dell’opera. E questa domanda ha a che fare col fondo, quel qualcosa che i filosofi definiscono ognuno a modo proprio e che noi, per comodità, semplicemente, chiameremo fondo”.
È un atteggiamento, dicevo, non solo estetico ma anche etico che, per Marco, riguarda anche l’approccio con le altre culture e con l’altro tout court, come la sua attività e anche la sua umanità hanno testimoniato, con l’inespresso desiderio, sogno o certezza che possa essere, che questo “fondo” portato sulla scena venga in qualche modo reso percepibile e, anche se non articolabile razionalmente, possa transitare nello spettatore ed indurlo ad articolare di più e modificare la propria percezione di sé stesso e della realtà che lo circonda, in un concetto di teatro che, credo, tende e tenta di superare la dicotomia tra educazione comunitaria e scandalo o conoscenza esoterica, così da ricondurre la conoscenza ad un processo che non escluda ma anzi integri ed inglobi anche ogni percezione sensibile e sentimentale.
Credo che ne fosse ulteriore testimonianza la quasi commossa sensibilità e partecipazione che trapelavano dalle parole di Marco Martinelli nel presentare e raccontare il suo venire a contatto con gli scritti di Jean Soldini.
E’ in questo contesto che il Professor Guccini, storico del teatro, ha potuto ribadire con convinzione la sua definizione del teatro delle Albe come teatro post-novecentesco, in quanto ha superato la concezione di una drammaturgia che aveva il suo centro nell’attività di scrittura letteraria (assimilabile all’io percettivo), per trasferire questo centro alla scena ove l’opera prende forma (la res percepita come rappresentazione), un teatro di carne dunque che in un certo senso ritorna al teatro delle maschere, ante riforma goldoniana, ove la presenza scenica denominata nella maschera trascinava con sé, quasi incarnandola, la vicenda senza mai esplicitarla o conchiuderla del tutto, ma lasciando, appunto, un fondo da sviluppare e far percepire con una certa imprevedibilità.
La drammaturgia, dunque, come attivazione di presenze. Infine Sacchettini, giovane critico teatrale, ha voluto ricondurre la discussione sul valore che il teatro può avere ed assumere nella Società contemporanea attraverso una provocazione sulla “utilità” del teatro stesso rispetto ad interventi diretti e personali, come il volontariato, all’interno della società.
Infatti se si perde da una parte la percezione catartica gnoseologica della drammaturgia e dall’altra quella educativa comunitaria, che sembrano in crisi non tanto intrinseca quanto di impatto e considerazione, meglio di efficacia sul corpo o sui corpi in cui è articolata la Società, la stessa esistenza del teatro può infine essere messa in discussione.
Se dunque Dio è morto e la Polis è finita, ci si è domandati, mentre il teatro rischia di essere solo un utopia, può l’arte sostituirsi ad istanze così forti?
La provocazione è stata certo efficace, suscitando contrasti e variegati interventi dalla platea, ma anche un abbozzo di risposta da parte sia di Martinelli che di Soldini i quali, concordi nel rifiutare risposte esaustive o ricette definitive al processo di elaborazione della conoscenza che tentano di portare avanti in campi diversi, ma anche con quegli inaspettati punti di contatto che siamo andati a scoprire nel corso di un intenso pomeriggio, hanno ricondotto alla capacità del pensiero di scandalizzare anche una forza educativa non sempre riconosciuta.
Spesso l’arretrare di fronte allo scandalo nasconde il rifiuto a percepire l’altro come presenza autonoma ed in parte irriducibile alla nostra soggettività, quasi che questo costituisse un pericolo proprio per la nostra soggettività, o la nostra falsa soggettività di “mercato”. Imparare a percepire l’altro come arricchimento della nostra soggettività può essere un insegnamento che, alla fine, può ripulire da ogni falso sé, per attivare ed irrobustire proprio la percezione e la conoscenza che abbiamo di noi stessi.
Non è una ricetta, ribadisce Marco Martinelli, ma una intenzionalità ed un percorso che lui ed Ermanna Montanari sono determinati a portare in fondo.
Un’ultima notazione. È raro avere occasione di discutere di teatro in maniera così ampia ed articolata, riconducendo il teatro stesso ad un contesto più ampio e generale, oltre le secche dello “specialistico”, ed insieme percepire un coinvolgimento che riesca ad abbinare l’articolazione razionale dei presupposti con la intima, affettiva partecipazione dello svolgimento.
INCONTRO CON IL “TEATRO DELLE ALBE” |